1981: Il ritorno di Chick Corea all’acustico fa di «Three Quartets» un album epocale

// di Francesco Cataldo Verrina //
Per un certo periodo Chick Corea aveva sentito il richiamo del mercato e dopo un sonora «sbornia» per talune soluzioni fusion-rock, ampollosità orchestrali e commistioni etnico-ispanico a vario titolo, che lo collocavano su una pericolosa linea di confine prossima alla musica più commerciale, decise di ritornare sui suoi passi, offrendo al suo talento compositivo ed espressivo una piattaforma sonora degna del blasone che il suo casato si era conquistato in anni di gavetta e di duro lavoro sia come solista che in veste di comprimario o gregario di lusso. Finalmente il passaggio alla Warner Bros, di cui si era gia avuto qualche sentore con il precedente «Tap Step», segnò un ritorno al jazz nella sua definizione più netta ed inequivocabile, attraverso la ripresa di sonorità limpide e brillanti, essenzialmente acustiche, che richiamavano le leggendarie pagine del bop degli anni ’50 e ’60, con un orecchio teso ad un certo Trane, al Miles Davis pre-elettrico ed a Bill Evans.
L’album «Three Quartets» del 1981, registrato in California, tra il gennaio ed febbraio del 1981, al Mad Hatter Studio di Los Angeles, è sicuramente tra i lavori più riusciti del pianista italo-americano, locupletato da alcuni omaggi ideali a Coltrane e Duke Ellington, ma è l’impostazione complessiva del costrutto sonoro, spalmato su tre lunghe suite a rendere questo set una delle punte di diamante del jazz di tutte le epoche. Chick Corea al pianoforte è sostenuto da Michael Brecker al sax, Eddie Gomez al basso e Steve Gadd alla batteria. Un quadrato perfetto che trova una circolarità esecutiva nelle trame compositive a maglie larghe, dilatate e portatrici di un flusso melodico complesso, ma leggibile e mai banale. Le variazioni tematiche contenute nelle fasi improvvisative consentono a ciascuno dei sodali di portare a casa un ricco bottino, senza tentare di staccarsi in volata dal gruppo o di evidenziarsi oltremodo. «Three Quartets» si sostanzia attraverso quattro estese composizioni del pianista, non facili da metabolizzare al primo impatto, la complessità armonica e le lunghe fughe improvvisative di Brecker, quasi a volo libero, con il fantasma di Trane alle calcagna, necessitato di qualche ripetuto ascolto da parte dei neofiti o da parte di qualche apprendista stregone convinto che l’epitome del jazz siano Sergio Caputo o Sergio Cammariere, piuttosto che le stipsi fauto-intestinali dell’ECM.
Essendo il disco frantumato in quattro parti, suddivise come un’opera sinfonica (non vi è nulla che possa far pensare comunque ad un desiderio di terza via), non si capisce perché sia stato denominato «Three Quartets». In realtà la suite «Quartets No 2» è spezzata in una «Part 1 (Dedicated To Duke Ellington» ed una «Part 2 (Dedicated To John Coltrane)», le quali presentano un’impostazione strumentale ed esecutiva completamente differente. La prima parte, pur non tradendo il concept sonoro, il quartetto si muove in maniera più tradizionale con i tempi e i modi di big band, attardandosi anche in qualche consapevole manierismo infarcito di swing sinfoneggiante. Per contro, la seconda parte molto più dilata e fa riferimento ad alcuni assunti basilari della vernacolo coltraniano con un Michael Brecker in grande spolvero, piuttosto concentrato e motivato durante le sue progressioni, che diversamente da altre circostanze, trovano in punto di approdo concreto e significativo. Molti meriti vanno al pianoforte di Corea che disegna un tracciato armonico complesso ma mai debordante e di una retroguardia ritmica che apporta costantemente un lavoro di contenimento e di rifinitura sugli angoli e i carichi sporgenti, facendo in modo che il flusso melodico rimanga perfettamente incanalato ed evitando che lo storytelling complessivo possa raggiungere l’insipienza tematica. A conti fatti, questa suite spartita tra Ellington e Coltrane, rispetto alle altre due, per l’ascoltatore medio potrebbe risultare più organica e meglio organizzata, quindi più riuscita. Forse, però, è solo una questione di gusti personali e di approccio alla fruizione del jazz in generale.
«Quartets No 1» ed «Quartets No 3», dislocati sulla prima facciata del vinile si basano su ampie sezioni di musica annotata, e per di più con grafici molto complessi, ma anche in tale contesto, i vincoli per i quattro sodali non sono così stretti: ciascuno di essi ha l’opportunità di aggiungere qualcosa di personale al parenchima sonoro. Per uno strano paradosso, il «Quartets No 1» è quello che presenta elementi più concretamente coltraniani, anche se lo spirito del sassofonista di Hamlet aleggia un po’ dovunque, lungo l’intero tragitto sonoro. Se non altro in questa prima parte Brecker si attiene a certi dettami e, pur nel rispetto del suo super-io incontenibile e vanesio, non eccede in muscolatura striata, ma tenta un approccio più spirituale. Dal Canto loro Corea, Gomez e Gadd si espandono nella narrazione riportando alla mente il Coltrane di «Meditations». Il «Quartets No 3» è quello più obliquo ed armonicamente più accidentato, dove Brecker sfugge al controllo numerico, dando l’idea di voler quasi annientare l’impianto melodico, ma è solo il gioco delle parti: il quartetto vince a tavolino. Il piano di Corea inizia a riportare il treno in carreggiata, ridisegnando la melodia, con il sostegno della retroguardia ritmica. Tenendo conto che l’album fu realizzato nel 1981, possiamo parlare davvero di evento epocale. Con buona probabilità siamo a due passi dal capolavoro. Certamente «Three Quartets» svetta su molti altri lavori, spesso osannati, all’interno del variegato catalogo chickoreano. Una curiosità: nel CD pubblicato nel 1992, i discografici hanno aggiunto come bonus quattro tracce spurie, provenienti da «Live In Montreux», che sono solo zavorra e snaturano il concept originale del progetto.

