Sonny Rollins disse di lui: “Saul è un musicista consumato, una persona che conosce i sentimenti degli altri e, in tal senso, risulta una persona gentile. È tutto ciò che potrei chiedere ad un compagno di lavoro”.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Saul Rubin, chitarrista di talento, elemento di spicco della scena jazz newyorkese, diplomato alla Hartt School of Music, dove si è laureato in composizione, studiando jazz anche con Jackie McLean, da sempre è foriero di una musica soulful e pregna di virtuosismo che intercetta gli umori della metropoli, elaborandoli in una sorta di alambicco creativo che sembra aprirsi a vari stilemi provenienti dai quattro punti cardinali della musica. Il tutto al fine di costruire una formula sonora facilmente individuabile e fortemente personale. Rubin ha fatto il giro del mondo inseme ad importanti jazzmen, tra cui Sonny Rollins, con il quale è stato in tour in Europa e negli Stati Uniti e Roy Hargrove, di cui ha arrangiato un album per la Verve nel 2009. Con lo stesso Hargrove ha ha partecipato numerose tournée in Europa, Canada, Giappone e Stati Uniti. Sono innumerevoli gli artisti che, negli anni, hanno usufruito del suo estro e delle sue spiccate capacità esecutive.

Nell’album «The Zebtet», registrato allo Zebulon Sound & Light di New York il 15 aprile del 2014 e pubblicato dalla Red Records, Rubin esprime una musica dai forti richiami ancestrali legata alla cultura afro-americana, senza fissare troppo lo specchietto retrovisore della storia; per contro si apre alla contemporaneità attraverso un modus operandi moderno che guarda al mood sonoro ed ai ritmi della Grande Mela, ma soprattutto individua con rapidità le nuove vie di fuga del jazz legate l’evoluzione della black music. Grazie all’incontro con Fabio Morgera, trombettista italiano di talento, di stanza a New York, che ha curato la produzione dell’album, Rubin è riuscito a trovare un perfetto equilibrio fra tradizione e modernità, assemblando un perfetto costrutto sonoro fatto di classici e composizioni nuove di zecca, la cui compattezza garantisce alle singole individualità di esprimessi con personalità, ma all’interno di un recinto sicuro e in un perfetto gioco di squadra; in particolare Rubin si concede ampi spazio di manovra negli assoli, ma senza mai debordare nel virtuosismo esasperato.

«The Zebtet» mostra una duplice dimensione, quella del piano trio, in brani come l’iniziale «Lotus Blossom» di Billy Stayhorn, «Milestone» di Miles Davis e «Song For Diana» firmata dallo stesso band-leader e quella più swing-bop con il line-up al competo, che esplode in «Bluetooth», «The Android» e «Sasquatch Shuffle», tutti componimenti originali di Saul Rubin. Uno dei momenti più toccanti dell’album è certamente la struggente versione di «Aisha» di MeCoy Tyner, dove il suono della chitarra tenta quasi un’emulazione del pianoforte, mentre le soffuse note del sax di Stacy Dillard raggiungono un lirismo abissale. Momenti gloria a tinte pop per il brano cantato, «Make Someone Happy», con la partecipazione speciale di Harold O’Neal, la cui voce velluto millerighe ben si amalgama al vibrato suadente della chitarra per un duetto da manuale. Ottimo il supporto del sassofonista Dillard, decisivo nei momenti più groove dell’album, così come l’intervento di Fabio Morgera, mentre Ben Meigners al basso e Brandon Lewis alla batteria non fanno mancare mai il giusto apporto ritmico dalle retrovie.

«The Zebtet» è un disco multitasking, diviso tra momenti evocativi e propositivi, fra innovazione e patrimonio musicale collettivo, che sposa appieno la dimensione del jazz più attuale, restando ancorato saldamento al passato come modello ispirativo e stimolo al cambiamento, ma non semplice riproposizione manieristica e calligrafica.

Saul Rubin

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