// di Francesco Cataldo Verrina //

Il nome di Wilton «Bogey» Gaynair, resta sepolto da una coltre di polvere nella solo memoria dei cultori di jazz più attenti e puntigliosi. Quando apparve sulla scena, il produttore ed organizzatore di concerti Tony Hall scriveva sulle liner notes di «Blue Bogey»: «Suona il tenore. Anche se il nome può essere nuovo per voi ora, penso che lo sentirete spesso come uno dei migliori tenoristi jazz. Raramente ricordo di essere stato così impressionato o eccitato da un musicista come lo eravamo tutti noi negli studi dell’etichetta Tempo in questa sessione». Wilton «Bogey» Gaynair, sassofonista tenore di discreto talento, ha inciso solo tre dischi come band-leader.

Nato a Kingston in Giamaica, fu compagno di scuola di Dizzy Reece (il primo jazzista britannico a firmare un contratto con una casa discografica americana) e Joe Harriott. Gaynair arrivò in Europa nel 1955 proprio su consiglio di Dizzy Reece. Giunto a Londra, cominciò a farsi sentire in alcuni club, impressionando tutti per stile e tecnica, ma soprattutto per la carica emotiva che sprigionava suonando il sax: il suo jazz, molto vicino all’hard bop afro-americano, tendeva più che ad impressionare gli ascoltatori a coinvolgerli emotivamente, attraverso un timbro deciso, ma caratterizzato da un tono caldo ed avvolgente. Racconta Tony Hall: «All’epoca facevo concerti su concerti nei club con un gruppo chiamato Hall-Stars, che comprendeva Dizzy Reece, Kathie Stobart, Terry Shannon, il bassista Pete Elderfield e Benny Goodman alla batteria. Bogey ci seguì in alcune date come special-guest e furono serate memorabili di grande jazz. Fu ospite con noi ad una promozione della NJF al Royal Festival Hall e praticamente rubò lo scena a tutti con una coinvolgente versione di «Body and Soul», che suscitò commenti entusiastici su Melody Maker e molti altri giornali e riviste».

Dato che all’epoca la scena lavorativa londinese era tutt’altro che lucrativa, Bogey, viaggiando in Europa, dopo un buon ingaggio, decise di stabilirsi in Germania. Qui, dopo varie esperienze, entrerà a far parte della Kurt Edelhagen Radio Orchestra, attività a cui dedicherà tutta la sua carriera. Al suo arrivo si stabilì a Dusseldorf accettando di suonare nel George Maycock Quintet, formazione che il sassofonista descriveva così: «È principalmente un gruppo commerciale, ma facciamo un paio di set jazz ogni sera, quindi ho la possibilità di suonare un po’ alla mia maniera». Il sassofonista tornò a Londra per una vacanza di tre settimane nell’agosto del ’59. I primi giorni lo si poteva vedere in giro per i club londinesi, intento ad ascoltare i tenoristi britannici come Tubby Hayes, Ronnie Scott, Kathie Stobart, Don Rendell e Bob Efford. Poi, durante la sua seconda settimana di permanenza, lui e Dizzy fissarono due set pomeridiani con Terry Shannon, Pete Blannin e Benny Goodman come sezione ritmica, al famoso Down Beat Club, ubicato al 20 Old Compton Street, gestito dagli ex sassofonisti della Tubby Hayes Orchestra, Jackie Sharpe e Mike Senn. Entrambi furono piacevolmente sorpresi, ammettendo che Bogey avesse migliorato di molto la sua tecnica che si proponeva in maniera molto originale: sottovoce qualcuno si lasciò scappare perfino che «se Bogey fosse sempre presente sulla scena londinese, Tubby Hayes e Ronnie Scott dovrebbero davvero stare attenti!».

Durante i sette giorni che seguirono, Bogey si esibì al Flamingo Club come ospite del gruppo di Tony Kinsey, del Dizzy’s Quartet e dei Jazz Couriers. Racconta sempre Tony Hall: «Una delle sessioni più eccitanti fu un set di Bogey e Don Rendell. Raramente ho sentito Don suonare così bene. Bogey è tremendo! Mi disse Don. Ha una tale ispirazione che ti trascina a suonare. Mi è piaciuto molto». Per lo storico del jazz Ernest Borneman, un altro concerto memorabile fu quello tenuto con Dizzy al National Film Theatre durante uno dei recital della stagione «Negro World». A questo punto Tony Hall era così infatuato di Wilton «Bogey» Gaynair che sarebbe stato disposto a tutto: «Avevo sentito abbastanza, avrei volentieri finanziato io stesso la sessione, se il direttore di Vogue-Tempo, Bill Townsley, non avesse avuto la lungimiranza di commissionare la produzione di questo album. Fortunatamente, la data fu fissata, con poche ore di preavviso, per la notte di mercoledì 26 agosto negli studi Decca di West Hampstead». Gaynair dimostrò di meritarsi la fiducia e di non essere solo un semplice sassofonista-esecutore. In Germania, durante il tempo libero, si era dedicato allo studio intensivo dello strumento ed aveva già ottenuto una laurea in arrangiamento e composizione. Mentre in quel periodo stava studiando per conseguire la laurea in armonia avanzata. «Ho superato i miei giorni di smancerie», diceva. «Mi rendo conto che c’è così tanto da imparare sul mio strumento e sulla musica in generale e sto studiando il più possibile. Mi piacerebbe molto andare negli Stati Uniti alla fine, ma se e quando lo farò, vorrei andarci con qualcosa da mostrare. Lì è difficile se sei solo un suonatore di jazz. Ci sono così tanti grandi musicisti, i quali sono costretti a tornare a casa dopo un po’ per mancanza di lavoro. Vorrei essere in grado di ottenere un ingaggio come arrangiatore oltre che come esecutore. Soprattutto, prima di andarci, vorrei cercare di avere uno stile e una concezione tutta mia. E questo è molto difficile per un sassofonista, di questi tempi, con tutti i fenomeni che ci sono in giro».

Gaynair non nasconde le fonti ispirative: «Ho iniziato con il contralto, ma quando sono passato al tenore, Hawkins era il mio punto di riferimento insieme a Don Byas e Lucky Thompson. Mi piaceva anche Charlie Ventura, l’unico gatto bianco che suonava come se fosse di colore. Cavolo, se sapeva suonare! E poi ho sentito Charlie Parker. Penso che fosse il più grande sul suo strumento, ma a me piaceva anche al tenore. Oggi ascolto Rollins, Coltrane e soprattutto Johnny Griffin. Credo di aver preferito il suono di Rollins e quello che faceva due anni fa al modo in cui suona ora. Mi piace di più». In «Blue Bogey» l’influenza di Hawkins e Thompson possono essere avvertite facilmente nel suono di Gaynair che risulta: enorme, ampio, avvolgente, scattante, ma la concezione armonica è considerevolmente più moderna; a tratti si possono scorgere fugaci scorci di Bird, di Wardell Gray, Harold Land, Coltrane e Eddie «Lockjaw» Davis (in particolare su «Rhythm»), anche se il sassofonista giamaicano riesce a condensare tutto e sviluppare una pozione sonora molto personale: a parte due standard, quattro delle sei composizioni eseguite sono di Gaynair e costituiscono i punti salienti dell’album. La sezione ritmica che sostiene il progetto risulta estremamente empatica; ben sintonizzati sulle finalità del band-leder, gli accompagnatori sono tre habitué della Tempo Records: il pianista Terry Shannon, il bassista Kenny Napper e il batterista Bill Eyden, alquanto affiatati ed in grado di trovare la stessa lunghezza d’onda.

L’album si apre con «Wilton’s Mood», un’interessante composizione di Gaynair, basata sull’uso delle sospensioni ritmiche, una costruzione quasi «Rollinsish». Il tenorista esegue degli ottimi assoli con un singolare fraseggio sulle uscite, sostenuto dal pianista Terry Shannon a cui cede alternativamente la prima linea. «Deborah», una piacevole ballata firmata sempre da Gaynair, è dedicata alla giovane figlia del pianista Terry. L’impianto, melodico appassionato ed ipercalorico, ricorda vagamente il Johnny Hodges delle ballate. «Joy Spring», brano di Clifford Brown, viene ripreso con un ritmo più groovy e marcato rispetto alle solite esecuzioni, l’assolo di Bogey gioca su tre ritornelli ad alto tasso melodico, Terry ne copre due, passando la staffetta al bassista Kenny Napper, prima che il leader riprenda la guida riportando il line-up al tema iniziale. «Rhythm» nasce da una prova: fortuna volle che il nastro stesse girando. Ne scaturì una performance disinibita e completamente spontanea con Gaynair ed il bassista Kenny Napper che sembrano divertirsi come bambini, fino a quando non si aggiunge al gioco anche il pianista. Bogey soffia senza risparmiarsi muovendosi agilmente sui cambi: in qualche frangente ricorda perfino Eddie «Lockjaw» Davis. «Blues For Tony», è un tributo a Tony Hall, mentore di questo progetto. Un componimento di Gaynair ancora imperniato sulla spontaneità creativa e catapultato in un’atmosfera a volte funkified, altre più soul con assoli di tenore e pianoforte piuttosto rilassati. In conclusione uno standard: «The Way You Look Tonight». Per molti versi questo brano, pur non essendo farina del suo sacco, è molto vicino alla concezione che il sassofonista aveva del jazz in quel periodo. Dopo un’intrigante avvio, Bogey opera una lettura molto personale del classico di Jerome Kern: il suo assolo è temperato e riflessivo. Il pianista Terry Shannon aggiunge qualche stilla di swing, prima che il sassofono ruggisca ancora innalzando un canto alle muse.

L’esordio discografico di Wilton «Bogey» Gaynair con «Blue Bogey» possiede qualcosa di sorprendente, dovuto alla forza dell’intuito e dell’improvvisazione. Come disse Terry Shannon all’indomani della pubblicazione dell’album: «È tremendo! Tutti noi siamo stati colpiti dal suo modo di suonare. È un tale improvvisatore. Molti jazzisti hanno solo idee preconcette su ciò che suoneranno o su cosa possono controllare. Ma con Bogey, puoi sentirlo creare e comporre mentre suona. Tutte le sue emozioni in quel particolare momento vengono fuori. Rollins può farlo ed anche Johnny Griffin. Penso che Bogey diventerà un grande musicista». All’epoca di queste lusinghiere dichiarazioni eravamo nel 1959: le cose andarono diversamente, poiché Gaynair optò per una vita più tranquilla in Germania, con un lavoro sicuro ed accademico che contemplasse i suoi studi di arrangiatore e compositore. «Blue Bogey», realizzato in Inghilterra per l’etichetta Tempo, rimane il suo album più rappresentativo. I modelli ispirativi di riferimento sono – come già accennato – quelli tipici del jazz afro-americano degli anni ’50, ma filtrati attraverso la vivida personalità di un artista da riscoprire.

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