Wes Montgomery

// di Francesco Cataldo Verrina //

La chitarra non sempre ha avuto un ruolo di primo piano nell’ambito della musica contemporanea. I primi furono i musicisti blues a farne il loro strumento d’elezione per accompagnarsi, non riuscendo, però, ad imporla come strumento solista fino all’avvento dell’elettrificazione. Nel contesto di un gruppo o di un’orchestra, il suono risultava sempre troppo debole rispetto a quello degli altri strumenti come il pianoforte e i fiati. La chitarra, nel jazz in particolare, almeno fino allo sviluppo dello smooth jazz e della fusion, ebbe un ruolo marginale, di contorno o di abbellimento, particolarmente nelle big band, mentre durante l’affermazione e la diffusione del bebop ci sono poche tracce di chitarra nei dischi più rappresentativi del periodo. Uno dei primi a sostituire il piano con una chitarra fu Sonny Rollins nell’album «The Bridge».

John Leslie «Wes» Montgomery è stato uno dei chitarristi più influenti del ventesimo secolo, iniziando a strimpellare da autodidatta nel 1943. Solo sei mesi dopo aver preso la chitarra in mano era già in tour con Lionel Hampton. Al suo apice, nel 1952, il mondo del jazz al di fuori di Indianapolis non sapeva nulla lui. A quel punto, Montgomery aveva già messo a punto una tecnica del tutto personale, suonando spesso in ottave come Django Reinhardt o tracciando linee bebop alla Charlie Christian, ma ricoprendo per anni un ruolo di «sottofondo» sino alla fine degli anni Cinquanta, quando iniziò a registrare dischi in veste di band-leader. Sulla qualità artistiche e sulla tecnica innovativa non si discute e neppure sull’innato talento, ma non tutta la sua produzione può essere definita jazz in senso ortodosso: lo fu solo occasionalmente e parzialmente per un certo periodo, evolvendo nel tempo verso forme espressive vicine al jazz, ma nell’accezione più larga del termine. Wes Montgomery, a parte la parentesi degli anni 60, a cui è legato questo disco, sarebbe emerso in seguito come uno stilista smooth-jazz ante-litteram assai virtuoso, precursore e paradigma ispirativo per chitarristi come George Benson. La musica prodotta da Montgomery manterrà sempre una matrice blues e una modularità jazz (l’imprinting ricevuto poggiava su queste basi), anche quando si diletterà a fare dischi di mero intrattenimento o rielaborazione di successi pop.

«The Incredible Jazz Guitar Of Wes Montgomery» viene considerato da molti studiosi come il più riuscito album guitar-led registrato in studio, segnando una svolta nella sua attività di musicista ed aprendo una nuova via allo sviluppo della chitarrismo jazz. Wes aveva già registrato una serie di dischi di easy jazz in compagnia dei fratelli Buddy e Monk ma, pur avendo attirato critiche e recensioni favorevoli, le vendite risultavano assai modeste e la carriera non decollava nel modo sperato. Per «The Incredible Jazz Guitar Of Wes Montgomery», il produttore Orrin Keepnews creò intorno al chitarrista di Indianapolis un’ambientazione attinente all’attualità del jazz di quegli anni, affiancandogli una sezione ritmica newyorkese. A questo punto, il costrutto sonoro di Montgomery risultò più adatto ad un contesto bop e più vicino alle istanze del jazz moderno. Invece di usare un plettro, in alcuni momenti, il chitarrista suonò con il pollice, riproducendo un tono caldo e lussureggiante che, locupletato dal suo innato virtuosismo, sviluppò una perfetta combinazione tra armonia e dinamismo, tensione e rilascio, melodia e movimento. Ogni nota, che deborda dai solchi di «The Incredible Jazz Guitar Of Wes Montgomery» e che lo strumento di Wes riproduce, risulta eseguita con lucida e mercuriale precisione. Anche quando Montgomery sostituisce il plettro a favore del suo pollice, tutto ciò non ostacola o sminuisce affatto le sue capacità espressive, riuscendo a tenere ancora velocità e tempo ed a sferrare colpi da manuale: durante i suoi ineccepibili assoli, il chitarrista si misura con una mistura di bop e blues attraverso l’uso di ottave e di accordi tipici dei blocchi pianistici. L’album in oggetto dimostra, in maniera inequivocabile, come lo stile jazzistico di Montgomery sia ancora ineguagliato e fin troppo imitato.

Saggiamente e cum grano salis, in occasione di questa storica registrazione, Wes si allontanò dalla band di Indianapolis e della Montgomery Brothers con sede in California, lasciando a casa i vecchi sidemen con cui aveva collaborato in altri set meno riusciti. Con l’arrivo a New York e con il supporto del trio di Tommy Flanagan si trovò perfettamente a suo agio nel contesto bop, riuscendo a suonare in maniera fluente e vigorosa, tanto da diventare il chitarrista «moderno» più influente di quel periodo. Il quartetto delle meraviglie era così costituito: Wes Montgomery alla chitarra, Tommy Flanagan al piano, Percy Heath al basso ed il fratello Albert Heath alla batteria. Questo sessione, registrata dopo anni passati a suonare cover strumentali di canzoni di successo nei club della natia Indianapolis, gli consentì di ottenere un passaporto ufficiale per un viaggio nel mondo jazz, grazie a Cannonball Adderley lo aveva segnalato alla Riverside Records. Wes era quasi completamente autodidatta ed incapace di leggere una sola nota musicale. Come dicevamo: quando nel 1959 fu portato all’attenzione di Orrin Keepnews dal Cannonball Adderley, dopo averne apprezzato le doti in un concerto a Indianapolis, Montgomery aveva sviluppato un nuovo approccio rivoluzionario allo strumento. Il suo stile era caratterizzato da tre elementi distintivi: suonava con il pollice, usando poco il plettro ed improvvisava interi cori usando o ottave o accordi di blocco pianistico. Nessuna di queste tecniche era unica o sconosciuta, ma nessun altro chitarrista in quegli anni riusciva a padroneggiarle con tanta abilità e scioltezza, combinandole, integrandole e adattandole alle esigenze e alla tecnica dell’improvvisazione.

Con quattro tracce originali e quattro standard, l’album appare alquanto coerente, quasi un concept. La struttura è pressoché identica per alcuni dei brani: melodia o il riff, quindi un assolo di chitarra, poi il piano in solitaria, a seguire un assolo di basso o un assolo di batteria breve, quindi la melodia suonata dalla chitarra. «Airegin», composizione di Sonny Rollins che apre l’album, ne è un esempio. Wes modifica un tema già a presa rapida, apportando alcune modifiche, eseguendo degli assoli e delle brevi frasi a ripetizione, quindi si ferma per lasciare una misura o due ad Albert Heath, il quale mostra la sua abilità pestando i tamburi, mentre piano e basso camminano spediti e senza sosta. «D-Natural Blues», strutturalmente simile, è un brano scritto da Montgomery, soffuso ed elegante, carico di blues e di fraseggi molto levigati. «Polka Dots and Moonbeams» è morbida e rilassata. Il pianoforte sviluppa un suono delicato e durante l’assolo Tommy Flanagan si muove agilmente: lui e Wes sembra che stiano giocando, complimentandosi a vicenda. La sezione ritmica si esprime con linee liquide e pacate creando un’ambientazione sospesa ed avvolgente. Il ritmo rilassato e un tema semplice ma evocativo, consentono sia a Flanagan che Percy Heath di ricamare ottimi assoli, mettendo in risalto il lato riflessivo di Wes e la sua abilità di improvvisatore, capace di ricavare dal tema originale variazioni melodiche ricche di nuovi cromatismi, sia pur provenienti da armonie piuttosto sfruttate.

«Four On Six», con il suo riff di basso ostinato, richiama la struttura accordale di «Summertime»; usando accordi alterati Wes cambia, somministrandogli un ringiovanente trattamento di bellezza, da cui fuoriesce una melodia che si inchioda subito nelle meningi del fruitore. «In Your Own Sweet Way», scritto da Dave Brubeck, inizia con un intenso riff pianistico, ma al suo arrivo Wes esegue una melodia dal gusto itinerante, quindi Tommy Flanagan prende il sopravvento spruzzando nell’aria una ventata di calore benefico, prima che il tema centrale venga ripreso dalla chitarra; sulle retrovie i fratelli Heath mostrano di avere davvero il controllo della situazione, fornendo un tappeto calibrato al millesimo, sino al crescendo finale, quando la marea sonora si alza ed il substrato ritmico assume un andamento quasi caraibico. In «West Coast Blues», composizione moderatamente veloce, il line-up appare molto rilassato, condizionato da un Montgomery in uno stato di grazia, mentre le note sgorgano dalle corde soavemente prima di infuocarsi. Dal canto suo, ogni strumentista batte al meglio la pista. «Mr. Walker», differente nel mood, ha un’atmosfera latina caratterizzata da un ritmo sincopato. I sodali, con fare sincrono, assecondano l’assolo del chitarrista che esplora l’intera gamma armonica con un fraseggio ricco di cromatismi, mentre il pianoforte rende ancora più esotica l’atmosfera. Per concludere «Gone With The Wind» che mostra l’ensemble in perfetta armonia alle prese con un ottimo swing.

Un musicista come Wes Montgomery travalica tutti i limiti di tempo, il ristretto contesto dei generi e degli stili, nonché le gabbie spazio-tenporali. C’è qualcosa di universale nella sua musica e di eternamente attuale. Montgomery è stato un chitarrista dal suono straordinariamente morbido e lussuoso con un’immaginazione melodica audace ed esuberante. Prima di «The Incredible Jazz Guitar of Wes Montgomery», durante la prima metà degli anni ’50, aveva realizzato per la Verve e l’A&M una serie di dischi pseudo-jazz dal vivo, infarciti di reminiscenze bluesy e soul-pop e farciti di cover strumentali. Poco del suo vissuto precedente è sopravvissuto nel momento della sua transizione verso il bop, se non quel suo levigato armamentario sonoro e l’ottava della sua chitarra che sembrava «cantare» dolcemente cover di successo come «California Dreamin’» e che, a lungo, fu il suo marchio di fabbrica. Pur essendo morto a soli 45 anni nel 1968 e cresciuto a pane e blues nell’epoca più antica del jazz, Montgomery viene indicato in tanti modi: come ad un fine esecutore di smooth-jazz, un rappresentante dell’ hard-bop o, addirittura, quale innovativo improvvisatore di chitarra vicino alle avanguardie. A più di sessant’anni di distanza dalla morte, la sua musica risulta fresca e vivida come non mai, in particolare «The Incredible Jazz Guitar Of Wes Montgomery», che ha mostrato una nuova direzione all’uso della chitarra nel jazz ispirando gente del calibro di Pat Martino, Pat Metheny e centinaia di succedanei che dichiarano un debito di riconoscenza verso tanta genialità.

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