I Senduki con «Stranìa»: il suono come rovistamento, come rito, come residuo, come precipitato (Alfa Music, 2025)

La lira calabrese, la zampogna, i doppi flauti e i tamburelli dialogano – o meglio: si scontrano, si corteggiano, si contaminano – con basso elettrico, chitarre, batterie acustiche ed elettroniche, loop e vibrazioni digitali. È un’orchestrazione che non cerca l’armonia, ma l’attrito. Il risultato è una musica che non si lascia classificare: non è folk, non è dub, non è jazz, non è world music.
// di Francesco Cataldo Verrina //
«Stranìa» non è un disco: è un campo di rovine sonore, un archivio di detriti acustici che si rifiutano di tacere. È un gesto sonoro che si muove tra l’archeologia e la profezia, tra il solco della terra ed il microsolco, tra la zampogna, il sintetizzatore e il delay. La definizione che ne dà il chitarrista Ettore Castagna – «musica transitoria da una realtà residuale» – non è una formula promozionale, ma una dichiarazione poetica, quasi un haiku etnomusicologico. In essa si condensa l’intero progetto: un attraversamento di ciò che resta, di ciò che sopravvive ai margini, e che proprio per questo ha ancora qualcosa da dire.
Pubblicato dall’etichetta AlfaMusic, l’album «Stranìa» rappresenta l’esordio discografico dei Senduki, formazione calabrese composta da cinque musicisti provenienti da esperienze artistiche eterogenee, ma accomunati da una visione sonora condivisa: Ettore Castagna (lira, chitarra elettrica, malarruni, voce), Peppe Costa alias YoSonu (batteria ed elettronica, voce), Mimmo Morello (zampogne, fiati, voce), Elisa Surace (voce, tamburello) e Carmine Torchia (basso elettrico, voce). Il progetto si colloca all’incrocio tra dub, elettroacustica e world music, dando vita a un linguaggio musicale che mescola memoria, radici e sperimentazione. Tra residui, precipitati e sublimazioni, il lessico scelto per raccontare «Stranìa» è quello della chimica e della geologia: si parla di «scarti», di «precipitati», di «sublimazioni». Ma non si tratta di una posa intellettuale: è il riconoscimento che ogni suono, ogni parola, ogni battito di tamburello è il risultato di una trasformazione, di una perdita, di una sopravvivenza. La musica dei Senduki non nasce, ma riemerge: come un fossile, come un frammento di pellicola tagliata male da Alan Lomax, come un souvenir scolorito del 1987 con scritto «Greetings from Toronto». Si potrebbe parlare di anti-fast music. In un’epoca in cui la musica è spesso ridotta a sottofondo algoritmico, la compagine calabrese si pone come un atto di resistenza. È un esorcismo – così lo definisce Castagna – contro la bulimia del fast food e l’anestesia del fast sex. Ma è anche una critica feroce alla retorica delle «radici», che spesso si riduce a un’operazione di marketing identitario. Qui le radici non sono celebrate, ma scavate, rovistate, messe in discussione. «Le radici nella supposta», aggiunge Castagna con una crudezza che è insieme ironia e verità.
Il paesaggio sonoro di «Stranìa » è un ibrido instabile, un organismo mutante. La lira calabrese, la zampogna, i doppi flauti e i tamburelli dialogano – o meglio: si scontrano, si corteggiano, si contaminano – con basso elettrico, chitarre, batterie acustiche ed elettroniche, loop e vibrazioni digitali. È un’orchestrazione che non cerca l’armonia, ma l’attrito. Il risultato è una musica che non si lascia classificare: non è folk, non è dub, non è jazz, non è world music. È un altrove sonoro, un’utopia acustica che si costruisce a partire dalle rovine. Sopra tutto, domina la voce. Un canto arcaico, evocativo, che non racconta ma evoca, non descrive ma invoca. È una voce che viene da lontano, ma che non ha nostalgia. È la voce di chi ha attraversato il deserto della memoria e ne è uscito con la gola impastata di polvere e di loop. È una voce che non cerca l’autenticità, ma la verità. E la verità, qui, è sempre sporca, imperfetta, tagliata male. Il concept, che si apre e si chiude con «Calanchi» (G. Costa) si presenta come un itinerario circolare, un ritorno al principio dopo un attraversamento di paesaggi sonori e linguistici che affondano le radici nella tradizione orale del Meridione italiano, ma che si spingono ben oltre la mera riproposizione filologica.
Il titolo stesso, «Calanchi», evoca un territorio fragile e mutevole, segnato dall’erosione e dalla precarietà geologica, metafora potente della condizione culturale di un Sud che resiste e si trasforma. Non a caso, «Calanchi» si configura come un prologo e un epilogo strumentale, quasi un’invocazione laica. La tessitura sonora è scarna, essenziale, eppure densa di evocazioni: il timbro della chitarra richiama la terra secca che si sgretola sotto i piedi, mentre l’andamento modale suggerisce un tempo sospeso, arcaico. È un paesaggio sonoro che richiama le incisioni di Luigi Nono o le partiture di Giacinto Scelsi, dove il suono diventa materia da scolpire. Il disco si inoltra, quindi, in «Zingaròta», una danza obliqua e irriverente, dove la voce si fa maschera e il ritmo incalza come in una tarantella scomposta. Il canto popolare, rielaborato, diventa qui gesto teatrale, quasi una commedia dell’arte in forma acustica. La voce, aspra e vibrante, si fa strumento di denuncia e di seduzione, in un gioco di ambiguità che ricorda le maschere della Commedia dell’Arte. «Chitarra si’ di lìgnu» è un inno alla materia sonora: il legno, la corda, la vibrazione. La voce si intreccia allo strumento in un dialogo intimo, quasi liturgico, che celebra la fisicità del suono e la sua memoria incorporata, sviluppandosi come un dialogo tra voce e strumento, in cui la parola si fa eco del timbro, e viceversa, tanto che potrebbe essere letto come una riflessione metamusicale, un’ode alla luteria e alla memoria incorporata negli oggetti. Con «Fòcu & palùmbi» si entra in un registro simbolico: il fuoco e la colomba, eros e pace, si rincorrono in un brano che alterna tensione e sospensione, come un quadro caravaggesco in forma musicale. La struttura musicale alterna momenti di tensione ritmica a sospensioni liriche, in un gioco di chiaroscuri che evoca la pittura caravaggesca. La voce si fa ora invocazione, ora lamento, in un registro che richiama le lamentazioni funebri del Mediterraneo orientale.
«A bàllu» è il momento della trance coreutica: una spirale ritmica che richiama le ronde ancestrali, le danze di comunità, i cerchi che non si chiudono mai. È un brano che si balla con i piedi ma anche con la memoria. La struttura è ciclica, ipnotica, e rimanda alle danze rituali della Grecia arcaica o le ronde occitane. Il testo, pur nella sua semplicità, è un inno alla comunità e alla resistenza attraverso la festa. La musica qui non è solo intrattenimento, ma gesto politico. In «Palòri d’amùri» la parola si fa carezza e ferita. È il brano più lirico, dove le voci si sovrappongono come in un madrigale profano, e l’amore si rivela nella sua dimensione terrena, imperfetta, ma necessaria. Le «parole d’amore» si dispiegano in una tessitura armonica complessa, in cui i fonemi si sovrappongono e si rincorrono come in un madrigale rinascimentale. L’amore non è idealizzato, ma corporeo, terreno, eppure capace di elevarsi a canto universale. L’eco di Fabrizio De André e della poesia trobadorica è palpabile. «Malaspìna» è una ballata gotica, un racconto oscuro che si muove tra echi medievali e dissonanze contemporanee. È un brano che sembra uscito da un manoscritto miniato, ma inciso su nastro magnetico, con un uso sapiente della dissonanza e della modulazione. È un affresco sonoro che riporta alla mente talune atmosfere da «Il nome della rosa» di Eco, tra monasteri, eresie e segreti sepolti. Con «Regina di li hiùri» torna la figura archetipica della donna-fiore, madre ed amante, dea e contadina. La melodia si sviluppa come un canto devozionale, ma con una sensualità sotterranea che richiama le Madonne nere del culto mediterraneo. La voce si fa carezza e ferita, in un equilibrio precario tra sacro e profano.
«Basta ‘n’accòrdu» è un momento di rottura: la struttura si apre, il linguaggio musicale si fa più contemporaneo, con armonie che sfiorano il jazz e una struttura più libera. Il testo, originale di Castagna, è un invito alla riconciliazione, ma anche una riflessione sull’ambiguità del linguaggio. L’«accordo» è musicale, ma anche politico, esistenziale. Il brano si muove tra ironia e malinconia, come un racconto di Stefano Benni musicato da Paolo Fresu. Il brano eponimo, «Senduki», è il cuore pulsante del disco: un’esplosione di contaminazioni, un rito sonoro in cui la zampogna incontra il dub, il tamburello si perde nei loop, e la voce diventa invocazione collettiva. Il titolo si apre a sonorità extraeuropee, con percussioni che richiamano l’Africa subsahariana e linee melodiche che flirtano con il maqam arabo. Un omaggio implicito alla world music di Peter Gabriel e alla poetica del viaggio. «Pàru cerca pàru» è il componimento più lungo e forse il più enigmatico: un viaggio che attraversa paesaggi interiori e sonori, culminando in una catarsi che è insieme personale e politica. Il titolo suggerisce una ricerca di simmetria, di corrispondenza, forse di un doppio. La struttura è narrativa, quasi teatrale, e si sviluppa in quadri successivi, come un’opera di Pina Bausch trasposta in musica. La voce si fa ora racconto, ora grido, ora sussurro, in un crescendo emotivo che culmina in una catarsi collettiva. «Stranìa » è anche un atlante, ma non delle capitali culturali, piuttosto delle stazioni vuote, dei paesi abbandonati, dei mercatini dell’usato, delle cantine umide dove i moog non si accendono più. È la geografia di un Sud che non è solo Calabria, ma ogni Sud del mondo: ogni luogo marginalizzato, dimenticato, ma ancora capace di produrre bellezza. Un suono che non ha confini, ma solo tracce. Il costrutto sonoro sembrerebbe danzare con le rovine. Infatti, nonostante tutto, i Senduki riescono a far ballare il fruitore: non nel senso dell’intrattenimento, ma in quello del rito. La loro musica è una danza che non dimentica, ma che trasforma. Un ballo rituale che non rimuove il dolore, ma lo attraversa. Una danza che è anche una forma di pensiero. Come scriveva Walter Benjamin, «ballare è pensare con i piedi». E «Senduki» pensa, eccome se pensa.

Molte grazie Francesco Cataldo Verrina.
Una recensione unica e rara!
AlfaMusic
Grazie per l’apprezzamento!
Complimenti un’articolo dettagliato, recensione straordinaria!