Rino Gaetano «Ma il cielo è sempre più blu»: per il cantautore calabrese, un anniversario tra memoria e mito

Rino Gaetano
La sua scrittura nasce dall’ibridazione: è una scrittura che rifugge la linearità, che si nutre di accumulazioni, di elenchi, di cortocircuiti semantici. Il suo è un linguaggio che sembra giocare, ma che in realtà smaschera; che diverte, ma per destabilizzare; che canta, ma per denunciare.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nel secondo dopoguerra italiano, la canzone ha progressivamente assunto un ruolo che va ben oltre l’intrattenimento, divenendo un dispositivo culturale, un mezzo di narrazione collettiva, un laboratorio di linguaggio e di pensiero. In particolare, la cosiddetta «canzone d’autore» ha saputo farsi carico delle inquietudini, delle contraddizioni e delle speranze di un Paese in trasformazione. Ma se molti cantautori hanno scelto la via della lirica, della confessione o della denuncia esplicita, Rino Gaetano ha imboccato un sentiero più impervio e meno codificato: quello dell’ironia, del paradosso, della dissonanza.
Il questo mese ricorre il quarantacinquesimo anniversario della tragica scomparsa di Rino Gaetano, avvenuta il 2 giugno del1981, quando l’artista aveva appena trent’anni. Ma quest’anno, oltre alla commemorazione la sua morte, si festeggia un’altra ricorrenza: il cinquantenario della pubblicazione di uno dei suoi motivi più iconici, «Ma il cielo è sempre più blu», uscito nel 1975. Per l’occasione, è stata realizzata un’edizione celebrativa in vinile blu, numerata e curata filologicamente, che raccoglie tutte le versioni del brano: dall’originale alle reinterpretazioni successive, fino alle esecuzioni dal vivo. Un’operazione che non si limita alla nostalgia, ma riafferma la vitalità di un’opera che continua a risuonare con forza nell’immaginario collettivo. Nato a Crotone nel 1950 e trasferitosi a Roma nel 1960, Gaetano si forma in un contesto culturale e musicale in fermento. Frequenta il seminario, si appassiona al teatro dell’assurdo, legge Majakovskij e Ionesco, ascolta Bob Dylan e Jannacci. La sua scrittura nasce da questa ibridazione: è una scrittura che rifugge la linearità, che si nutre di accumulazioni, di elenchi, di cortocircuiti semantici. Il suo è un linguaggio che sembra giocare, ma che in realtà smaschera; che diverte, ma per destabilizzare; che canta, ma per denunciare. Rino Gaetano occupa una posizione eccentrica e per certi versi anomala nel panorama del cantautorato italiano. A differenza dei suoi contemporanei – da De André a Guccini, da Bennato a De Gregori – egli non costruiva narrazioni lineari né si affida ad un registro lirico tradizionale. La sua scrittura risulta ellittica, spezzettata, spesso giocata sull’accumulazione e sull’apparente assurdità. Eppure, proprio in questa dissonanza risiede la sua forza: il cantautore calabrese riesce a restituire un ritratto dell’Italia degli anni Settanta che appare, al contempo, grottesco e lucidissimo.
L’esordio discografico, «Ingresso libero» (1974), è un lavoro ancora in cerca di un equilibrio, ma già percorso da intuizioni folgoranti. «Tu, forse non essenzialmente tu» e «Ad esempio a me piace il Sud» sono motivi che mescolano amore e geografia, nostalgia e ironia, in un impasto linguistico che sfugge alle convenzioni. Il disco che ottiene un successo rilevante, ma pone le basi per una poetica inconfondibile. Il successo arriverà l’anno dopo, con il celebrato singolo «Ma il cielo è sempre più blu» (1975), che pur non comparendo in nessun album ufficiale, diventa progressivamente un classico. Costruito come un elenco di situazioni, di personaggi, di frammenti di vita, la canzone è un affresco sociologico dell’Italia degli anni Settanta. La ripetizione ossessiva della frase-titolo, che chiude ogni strofa, non è un ritornello rassicurante, ma una domanda implicita, un dubbio che si insinua: davvero il cielo è sempre più blu? Nel 1976 esce «Mio fratello è figlio unico», l’album che consacra Gaetano come autore di primo piano. La title-track è un capolavoro di ambiguità e di empatia: un monologo interiore che, attraverso una serie di negazioni paradossali, costruisce un’identità frantumata ma autentica. «Sfiorivano le viole» e «Berta filava» completano il quadro di un’album che alterna dolcezza e sarcasmo, malinconia e sberleffo, in un equilibrio precario ma potentissimo. Con «Aida» (1977), Gaetano compone un affresco storico e simbolico dell’Italia del Novecento. La canzone eponima è una ballata epica in cui la figura femminile diventa metafora della nazione, attraversata da guerre, ideologie, trasformazioni sociali. È un disco più coeso, più ambizioso, in cui la scrittura si fa più controllata ma non meno incisiva. «Spendi spandi effendi» e «Escluso il cane» confermano la sua capacità di fondere satira e poesia, leggerezza e profondità.
Nel 1978 arriva nei negozi «Nuntereggae più», forse il suo album più esplicitamente politico. La canzone che dà il titolo al disco è un elenco di nomi propri – politici, giornalisti, personaggi pubblici – che diventa una forma di denuncia diretta, tanto più efficace quanto più dissimulata sotto la forma della filastrocca. È un concept che sfida apertamente il potere, che gioca con la censura, che mette in crisi le convenzioni del linguaggio musicale e mediatico. «Resta vile maschio, dove vai?» (1979) segna un momento di transizione. L’album è più eclettico, meno compatto, ma contiene brani di grande intensità come «E cantava le canzoni» ed «Ahi Maria», in cui riaffiora una vena più intimista. È un disco che riflette una certa inquietudine esistenziale, una tensione tra il desiderio di comunicare e la consapevolezza dell’incomunicabilità. L’ultimo album pubblicato in vita, «E io ci sto» (1980), è forse il più disilluso. Il tono si fa più cupo, la scrittura più essenziale. «Metà Africa metà Europa» e «Jet-set» sono motivi che testimoniano una crescente consapevolezza geopolitica, una visione del mondo che si allarga oltre i confini nazionali. L’album prelude ad una possibile svolta, interrotta bruscamente dalla morte prematura dell’artista. Post mortem, nel 1981, viene dato alle stampe «Q Concert», un progetto condiviso con Riccardo Cocciante ed il gruppo jazz-rock Perigeo. È un lavoro eterogeneo, ma interessante per comprendere le potenzialità ancora inespresse di Gaetano, l’apertura a nuove sonorità e la disponibilità al dialogo artistico. Nel mini album è contenuta anche una versione di «A mano a mano» di Cocciante, interpretata da Rino, che nel coso degli anni ha finito per diventare paradigmatica.
Nel contesto della canzone d’autore italiana, Rino Gaetano occupa una posizione che potremmo definire obliqua: non marginale, ma nemmeno centrale secondo i canoni tradizionali. La sua opera si colloca in una zona di confine, dove la canzone popolare incontra la satira, il teatro dell’assurdo, la poesia civile e la cronaca. Eppure, proprio questa posizione liminale gli consente di dialogare con molteplici figure della canzone italiana, non tanto per affinità dirette quanto per tensioni comuni, per opposizioni feconde, per convergenze inattese. Con Enzo Jannacci, ad esempio, Gaetano pone in dialogo un’attitudine alla destrutturazione del linguaggio, all’uso del nonsense come strumento di verità. Entrambi si muovono in una dimensione surreale, ma mentre Jannacci affonda le radici nella Milano del cabaret e del jazz, Gaetano si nutre di un Sud mitico e di una Roma grottesca, più vicina alla commedia all’italiana che al teatro canzone. Tuttavia, in entrambi si avverte la volontà di dar voce a ciò che resta ai margini: il matto, il povero, il disadattato, il dimenticato. Diverso è il rapporto con Fabrizio De André, che rappresenta quasi l’antitesi stilistica di Gaetano. Se De André costruisce affreschi lirici, spesso narrativi, Gaetano preferisce la frammentazione, l’elenco, la giustapposizione. Eppure, entrambi condividono una profonda tensione etica, un’attenzione costante per le ingiustizie sociali, una pietas che si esprime in forme opposte ma complementari. De André è il cantore degli ultimi, Gaetano è il giullare che ne denuncia l’esclusione con il sorriso amaro di chi sa che la verità, per essere ascoltata, deve travestirsi da gioco. Con Franco Battiato, Gaetano condivide l’uso del linguaggio come campo di sperimentazione. Entrambi amano il collage, la citazione, l’accostamento spiazzante. Ma se Battiato tende all’astrazione, alla trascendenza, Gaetano resta ancorato alla cronaca, alla contingenza, al dettaglio quotidiano. In questo senso, si potrebbe dire che Gaetano sia un Battiato senza metafisica, o che Battiato sia un Gaetano senza ironia. Eppure, entrambi riescono a trasformare la canzone in un dispositivo critico, capace di interrogare il presente con strumenti non convenzionali.
Lucio Dalla rappresenta forse il punto di contatto più interessante. Come Gaetano, Dalla ha saputo coniugare sperimentazione musicale e attenzione al linguaggio. Entrambi hanno attraversato generi diversi, hanno costruito personaggi ed hanno fatto della voce uno strumento espressivo autonomo. In classici quali «Com’è profondo il mare» o «L’anno che verrà», Dalla adotta una scrittura che, pur più lirica, mette in comune con Gaetano l’attitudine a declamare l’indicibile attraverso l’allusione, l’ironia, la metafora. Francesco De Gregori, invece, rappresenta un’altra forma di distanza. La sua scrittura è ermetica, letteraria, spesso criptica. Gaetano, al contrario, è trasparente nella sua opacità: il suo nonsense è solo apparente, la sua ironia è sempre leggibile. Eppure, entrambi rifiutano la linearità narrativa, costruiscono testi che si aprono a molteplici interpretazioni, sfuggendo alla canzone come confessione. In tal senso, sono due facce della stessa medaglia: l’uno poeta allusivo, l’altro giullare dissimulatore. Con Edoardo Bennato, Gaetano dialoga attravesro una visione più apertamente polemica. Ambedue usano la canzone come strumento di critica sociale, si muovono tra rock, folk e canzone d’autore, adottando maschere – il menestrello, il burattino, il buffone – per dire ciò che non si può dire apertamente. Mentre Bennato tende a una narrazione più strutturata, Gaetano preferisce la disarticolazione, la frantumazione, la provocazione. Infine, è interessante osservare come l’eredità di Gaetano si sia riverberata in autori più recenti, come Vinicio Capossela o Giovanni Truppi. Capossela ha raccolto la lezione del teatro canzone, della contaminazione linguistica, della maschera come strumento poetico. Truppi, invece, sembra aver ereditato da Gaetano la capacità di dire il presente con parole spiazzanti, con una scrittura che alterna il registro alto e quello basso, la confessione e la satira.
Rino Gaetano non è stato un satellite isolato, ma un corpo celeste che ha orbitato attorno a molteplici sistemi, senza mai farsi catturare da nessuno. La suo corpus operae è un punto di snodo, un crocevia in cui si incontrano la canzone politica e quella surreale, la poesia civile ed il cabaret, la cronaca e la metafora. Ed è proprio per questo che il cantautore crotonese continua a parlarci con una voce che non ha perso nulla della sua urgenza. Rino Gaetano non è stato un cantautore nel senso tradizionale del termine. Come già accennato, non ha mai cercato la confessione lirica, né la narrazione lineare. Ha preferito il frammento, l’elenco, la citazione, il paradosso. In questo senso, la sua opera si avvicina più alla poesia sperimentale che alla canzone d’autore classica. Eppure, ha saputo cogliere, con straordinaria precisione, le contraddizioni del suo tempo – e del nostro. Il suo canto, oggi, non è un’eco nostalgica, ma una presenza viva, in grado di interpellare il presente con la stessa urgenza con cui parlava al suo tempo.
