«Distopìa» dei Saihs, un esordio che interroga il presente attraverso la grammatica del post-bop (GleAM Records, 2025)

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«Distopìa» si colloca pienamente all’interno delle traiettorie più vitali del jazz contemporaneo: transnazionalità, collettività, concettualismo, ibridazione e riscrittura. I Saihs non si limitano a seguire queste tendenze, ma le reinterpretano con una voce personale, contribuendo a ridefinire il lessico del jazz italiano ed europeo. Un esordio che non è solo una promessa, ma già una dichiarazione di senso compiuto.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nel panorama del jazz contemporaneo italiano, «Distopìa», opera prima del sestetto fiorentino Saihs, si staglia come un lavoro di sorprendente maturità espressiva e coerenza estetica. Vincitori dell’edizione 2024 del Premio Perugia Alberto Alberti per il Jazz, i Saihs si collocano lungo una linea genealogica che affonda le radici nel post-bop newyorkese, ma che s’irradia in direzione delle più recenti declinazioni del jazz europeo, filtrando la tradizione afro-americana attraverso una lente di sensibilità compositiva e di riflessione collettiva.

Il disco nasce da un biennio di intensa attività laboratoriale. Non si tratta, dunque, di un semplice lotto di brani, bensì di un corpus organico che riflette un processo di co-creazione, in cui la scrittura individuale si dissolve nella prassi collettiva. Ogni composizione, pur firmata da un singolo autore, è il risultato di un’elaborazione condivisa, frutto di ore di confronto, sperimentazione e – come dichiarano gli stessi musicisti – anche di conflitto creativo. Questo approccio restituisce un suono che, pur nella sua eterogeneità, mantiene una coerenza timbrica e concettuale rara per un lavoro d’esordio. Si potrebbe parlare di dissoluzione dell’autorialità individuale a favore di una costruzione comunitaria del suono. Questo approccio, che richiama le pratiche del jazz d’avanguardia degli anni ’60 ma aggiornato in chiave postmoderna, è oggi visibile in collettivi come i Kneebody, i Sons of Kemet o l’ensemble di Anna Webber.

L’opener è affidato a «Second Try» di Giulio Barsotti, un componimento che si sviluppa come una spirale ascensionale, in cui la densità ritmica si fa veicolo di una tensione ininterrotta. La struttura, quasi narrativa, alterna momenti di rarefazione ad esplosioni improvvise, evocando l’estetica del jazz modale più inquieto, ma con un controllo formale che richiama certe scritture di Dave Holland o Steve Coleman. Segue «Iram» di Giulio Mari, composizione che si muove tra lirismo e sospensione, richiamando un oriente mitico e perduto. Il riferimento alla leggendaria città araba diventa pretesto per un’esplorazione onirica, in cui la melodia si fa eco di un tempo immobile, quasi messianico. La scrittura, pur lasciando ampio spazio all’improvvisazione, è cesellata con cura, e richiama le atmosfere rarefatte di Kenny Wheeler o Tomasz Stańko. I due brani di Matteo Zecchi, «Emulazione I» e «Trattenuta», si distinguono per l’intreccio serrato tra le voci dei fiati e la sezione ritmica. Qui il lessico del jazz contemporaneo newyorkese – si pensi a musicisti come Ambrose Akinmusire o David Binney – si fonde con una sensibilità europea per l’equilibrio timbrico e la costruzione formale. Il risultato è un dialogo polifonico che non cede mai alla retorica virtuosistica, ma si mantiene sempre teso e misurato. Particolarmente ambiziosa è la suite in tre movimenti firmata da Giulio Tullio («Intro», «How Many Times…», «…Did You Cross the Line?»), costruita a partire da una serie dodecafonica generata attraverso un procedimento grafico che collega le dodici tonalità disposte secondo il circolo delle quinte. Tale espediente, che riecheggia le tecniche di composizione seriale del Novecento europeo, viene però trasfigurato in un linguaggio jazzistico che non rinuncia alla cantabilità né alla tensione emotiva. Le linee melodiche, generate da intervalli di seconda e terza, diventano metafora di un percorso biografico, un viaggio nei luoghi dell’infanzia del compositore, dove la memoria si fa struttura.

Con «Sette», Barsotti firma una dedica intima e toccante al legame tra madre e figlio. Il tema, ispirato al simbolismo numerologico, si muove tra armonie sofisticate e melodie raccolte, riportando alla spiritualità laica di certi lavori di Charles Lloyd o John Abercrombie. Il numero sette, cifra di completezza e mistero, diventa la formula musicale di un amore incondizionato. Il brano eponimo, «Distopìa», rappresenta il cuore concettuale del disco. Qui il line-up si avventura in territori di confine, fondendo funk, neo-soul e jazz in un amalgama sonoro che fa eco al senso di instabilità e disorientamento delineato dal titolo. Il groove è incisivo, ma mai compiacente; le armonie sono complesse, ma sempre funzionali ad uno storytelling che si fa metafora del presente. In questo senso, «Distopìa» si inserisce nel solco di una riflessione musicale sul contemporaneo che ha illustri precedenti in lavori come «Black Radio» di Robert Glasper o «The Epic» di Kamasi Washington, pur mantenendo una voce propria ed originale. Chiude il disco «Celia», rielaborazione orchestrale dello storico standard di Bud Powell. L’arrangiamento, ispirato alla scrittura per big band, riesce a mantenere intatta la genetica bebop dell’originale, pur trasportandolo in una dimensione timbrica più ampia e articolata. È un omaggio che non si limita alla citazione, ma che si fa riscrittura consapevole, in linea con la lezione di Gil Evans o Maria Schneider.

Il concept si muove lungo un asse transatlantico che collega America ed Europa. Questa doppia appartenenza incarna oggi il brand distintivo del contemporary jazz, che non si limita più ad una geografia stilistica univoca, ma si nutre di contaminazioni e dialoghi interculturali. I Saihs dimostrano di possedere non semplicemente un solido bagaglio tecnico e compositivo, ma anche una visione estetica chiara e condivisa. In un’epoca in cui il jazz rischia spesso di perdersi tra manierismo e sperimentazione fine a sé stessa, questo disco rappresenta un esempio virtuoso di come si possa coniugare rigore formale, libertà espressiva ed urgenza comunicativa. In sintesi, «Distopìa» si colloca pienamente all’interno delle traiettorie più vitali del jazz legato all’hic et nunc: transnazionalità, collettività, concettualismo, ibridazione e riscrittura. I Saihs non si limitano a seguire queste tendenze, ma le reinterpretano con una voce personale, contribuendo a ridefinire il lessico del jazz italiano ed europeo. Un esordio che non è solo una promessa, ma già una dichiarazione di senso compiuto.

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