«Imaginary Songbook». Un atlante sonoro tra finzione e memoria: riflessioni su un’opera liminale (Dodicilune, 2025)

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«Imaginary Songbook» non si offre come oggetto da consumare, ma come spazio da abitare. È un lavoro che richiede un ascolto attento, stratificato, talvolta persino meditativo. In un’epoca in cui la musica rischia di ridursi a sottofondo algoritmico, il disco di Armaroli e soci riafferma con forza la centralità dell’ascolto come atto critico e creativo.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Nel vasto e spesso indistinto orizzonte delle produzioni musicali contemporanee, «Imaginary Songbook» si staglia come un’opera di singolare densità concettuale e formale, frutto della convergenza di tre personalità artistiche di notevole statura: Sergio Armaroli, Elliott Sharp e Steve Piccolo. Il doppio album, edito da Dodicilune, si attesta non come una mera raccolta di brani, bensì come un dispositivo poetico e semiotico che interroga i confini tra realtà e finzione, tra memoria collettiva e invenzione individuale.

Il concetto di «standard immaginario», così come evocato nel progetto «Imaginary Songbook», si presta a una riflessione filosofica di notevole ampiezza, toccando ambiti che spaziano dall’estetica alla teoria della memoria, dalla semiotica alla fenomenologia dell’ascolto. Ecco alcune delle sue implicazioni più rilevanti: L’immaginario si situa in una zona di confine tra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere. È un’ipotesi musicale che si comporta come un oggetto reale, pur non avendo un referente storico preciso. In questo senso, richiama la nozione di «oggetto intenzionale» nella fenomenologia di Edmund Husserl: qualcosa che esiste nella coscienza, pur non avendo una corrispondenza empirica. È musica che si comporta come memoria, ma di un passato che non è mai accaduto. Molti brani evocano atmosfere, titoli, strutture armoniche che sembrano appartenere ad un repertorio condiviso, ma che in realtà sono frutto di invenzione. Questo genera un effetto di déjà entendu, una reminiscenza senza origine, che destabilizza la percezione dell’ascoltatore. È un’estetica della soglia, in cui il familiare e lo sconosciuto si compenetrano, producendo un senso di piacevole spaesamento poetico.

I sessantaquattro frammenti sonori che compongono il disco – alcuni di ascendenza canonica, altri di matrice immaginifica – si presentano come miniature sonore, aforismi musicali che condensano in pochi istanti un universo di riferimenti, allusioni e risonanze. L’atto compositivo si emancipa dalla linearità narrativa per abbracciare una logica frammentaria, quasi archeologica, in cui ogni traccia è un reperto da decifrare, un frammento di un discorso più ampio e volutamente ellittico. Il progetto nasce da un dialogo intersoggettivo che si fa metodo compositivo: Armaroli, con il suo vibrafono dalle timbriche cristalline e percussive, agisce come catalizzatore timbrico; Sharp, polistrumentista e teorico della complessità, innesta nel tessuto sonoro elementi di discontinuità e perturbazione; Piccolo, infine, con la sua voce e il suo basso elettrico, introduce una dimensione performativa che oscilla tra spoken word, canto e gesto elettronico. Il risultato è una tessitura polifonica che sfugge a ogni classificazione rigida, collocandosi in una zona liminale tra jazz, musica concreta, improvvisazione radicale e arte concettuale.

Il progetto si presta ad una lettura che travalica l’ambito strettamente musicale. Esso può essere interpretato come un laboratorio trans-disciplinare in cui confluiscono istanze della filosofia del linguaggio (soprattutto nella riflessione sullo statuto del «brano standard»), della semiotica musicale (nella dialettica tra citazione e invenzione), della teoria della memoria (nella tensione tra riconoscibilità e straniamento) e persino della biopolitica dell’ascolto (nella scelta di formati brevi, quasi «snack sonori», che sfidano l’attenzione frammentata dell’ascoltatore contemporaneo). «Imaginary Songbook» non si offre come oggetto da consumare, ma come spazio da abitare. È un lavoro che richiede un ascolto attento, stratificato, talvolta persino meditativo. In un’epoca in cui la musica rischia di ridursi a sottofondo algoritmico, il disco di Armaroli e soci riafferma con forza la centralità dell’ascolto come atto critico e creativo. Un’opera che non si limita a suonare, ma che pensa e che ci invita a pensare.

Sergio Armaroli si distingue per una prassi musicale che coniuga rigore formale e apertura sperimentale. La sua formazione, che attraversa l’Accademia di Belle Arti di Brera e il Conservatorio “G. Verdi” di Milano, testimonia proprio suddetta vocazione alla trans-disciplinarità che si riflette nella sua attività di compositore, didatta e performer. Il vibrafono, nelle sue mani, si trasfigura da strumento percussivo a medium poetico, capace di evocare spazi sospesi, interstizi temporali, risonanze metafisiche. Armaroli concepisce il jazz non come genere, ma come postura epistemologica: un’attitudine alla ricerca, alla deviazione e all’imprevisto. Figura cardinale della scena avant-garde newyorkese, Elliott Sharp è un artista la cui attività sfugge ad ogni tentativo di classificazione. Polistrumentista, compositore, teorico e inventore, Sharp ha attraversato territori sonori che vanno dal blues alla musica algoritmica, dal noise alla composizione orchestrale. La sua pratica è intrinsecamente rizomatica: fondata su modelli matematici, metafore genetiche, strutture frattali, ma sempre radicata in un’urgenza espressiva che si nutre di tensione, discontinuità e attrito. In «Imaginary Songbook», la sua presenza agisce come forza centrifuga, destabilizzante, che disarticola e ricompone continuamente il tessuto musicale. Steve Piccolo rappresenta il narratore obliquo dell’infrasuono urbano, un artista che ha fatto della contaminazione linguistica e mediale il proprio tratto distintivo. Dalla New York post-punk dei Lounge Lizards alla Milano delle installazioni sonore e delle performance site-specific, la sua traiettoria è segnata da una costante riflessione sul rapporto tra parola, suono e spazio. La sua voce, a tratti sussurrata, a tratti declamatoria, non è mai mero veicolo semantico, ma corpo acustico, presenza scenica, gesto performativo. In questo progetto, Piccolo agisce come demiurgo narrativo, tessendo trame testuali che oscillano tra ironia, malinconia e straniamento.

Insieme, Armaroli, Sharp e Piccolo non costituiscono un semplice ensemble, ma una vera e propria triade alchemica, in cui ogni elemento trasforma e viene trasformato dagli altri. La loro collaborazione è un atto di resistenza poetica contro l’omologazione estetica, un invito a riscoprire l’ascolto come pratica critica e sensibile. Il progetto mette in discussione l’idea che la conoscenza musicale debba fondarsi su repertori canonici e verificabili. Il concetto di «standard immaginario» in «Imaginary Songbook» è una finzione epistemologicamente fertile: produce senso, genera emozione, attiva riconoscimenti, pur essendo, in molti casi, privo di una genealogia tracciabile. È un’operazione che ricorda le «finzioni necessarie» di Hans Vaihinger o le «verità finzionali» di Paul Ricoeur: costruzioni che, pur non essendo vere in senso stretto, funzionano come se lo fossero. Lo «standard immaginario» è per sua natura ibrido, mescolando elementi di composizione e improvvisazione, di scrittura e oralità, di jazz e musica concreta, di tradizione e avanguardia. In tal senso, incarna una visione postmoderna della creazione artistica, in cui l’autenticità non è data dalla fedeltà ad un’origine, ma dalla capacità di generare nuove connessioni e nuove costellazioni di senso.

Sergio Armaroli e Steve Piccolo

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