Edoardo Liberati Synthetics Trio con «Turning Point», la perfetta circolarità di un jazz a larghe falde

Nella circolarità del cosiddetto Synthetics Trio, nomen omen, la sintesi diventa il corroborante per una lettura più ampia del costrutto sonoro, quanto meno più nitida, diretta e meno indistinta, rispetto al recente passato del chitarrista.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Edoardo Liberati è giunto al secondo lavoro discografico che, in genere, è la prova del fuoco per qualsiasi artista. Ad onor del vero, «Turning Point», edito dalla WOW Records, segna un passo in avanti rispetto a «Everyday Life» del 2022. Il chitarrista accentua i contorni del proprio stile e le traiettorie diventano più trasversali, quasi un desiderio di sfuggire ad una stereotipata regola d’ingaggio che avrebbe potuto intrappolare chiunque all’interno di un cliché. Sin dal primo ascolto ci si avvede che Liberati e soci, Dario Piccioni al contrabbasso e Riccardo Marchese alla batteria, non perdono tempo ad uscire da – quella che potremmo definire – una zona comfort, per andare in avanscoperta e sondare inedite possibilità espressive, all’interno di una variegato ventaglio di possibilità sonore che dal jazz si dipanano verso il rock, le atmosfere latine e la musica eurodotta. Il precedente album, pubblicato dalla GleAM Records, puntava su una dimensione quasi orchestrale con una nutrita varietà di strumenti e di collaborazioni, come quella di Nico Gori, che forse limitavano l’espressività del chitarrista.
«Turning Point» è un autentico switch-off, un cambio di passo e di stile, mentre la chitarra di Liberati, non condizionata della presenza di un secondo strumento armonico come il pianoforte o di altri attanti di prima linea, riesce ad esprimersi compiutamente, diventando l’unico vero Io-narrante del progetto. Nella circolarità del cosiddetto Synthetics Trio – nomen omen – la sintesi diventa il corroborante per una lettura più ampia del costrutto sonoro, quanto meno più nitida, diretta e meno indistinta, rispetto al recente passato del chitarrista. Si ha come l’impressione che Edorado Liberati, in «Turning Point», abbia seminato per strada quell’urgenza tipica dell’opera prima, per assumere una responsabilità che lo porta a vivere, in maniera più distesa e con una maturità conclamata, il frutto di un’evidente creatività autorale sostanziata in sette composizioni originali, tutta farina del suo sacco, con l’aggiunta di una convincente rivisitazione di «Porcelain» dei Red Hot Chili Peppers. Il brano traino dell’album «Californication» del 1999 che, privato del canto, viene trasfigurato in una jazz ballad, scarnificata e dall’incedere flessuoso, in cui il trio agisce trasversalmente sulla fase destruens per poi ricostruire un sistema armonico a sua immagine e somiglianza, senza snaturare in toto il forte gancio melodico del tema originario. L’altro componimento esterno al package dial del chitarrista è un classico del 1929, «Stardust» di Hoagy Carmichael, liberato da ogni complesso vincolo pentagrammatico ed orchestrale e ridotto allo status di semplice locuzione per chitarra solista, in cui Liberati scandisce il tempo con note asciutte e calibrate e con lenta mano, fino ad accarezzare la melodia, sfiorando e lambendo soavemente la cantabilità di un classico senza tempo, che nelle sue corde diventa un errabondo vagare dai marcati contrafforti poetici.
L’opener dell’album, affidato a «Dear Jane», è un crocevia sonoro tra acustico ed elettrico, in cui Liberati pennella le note con un tocco leggero ed un fraseggio limpidamente leggibile, a limite del pop, in cui la quadratura del trio risulta calibrata e mercuriale, con il contrabbasso di piccioni che si ritaglia una luminosa vetrina espositiva. «One for Uncle John» rappresenta un tributo versato nelle casse John Scofield ed ispirato all’album «Uncle John’s Band» del 2023. I primi movimenti di Liberati sembrano esplorativi come a voler sondare il terreno, ma soprattutto nel tentativo di evitare fastidiosi paragoni con uno dei suoi mentori ideali. Progressivamente, il chitarrista, con il sostegno della retroguardia che non lascia aria ferma, prende coscienza del proprio essere e del sapere di essere, intavolando un fraseggio robusto e performante ed una perifrasi improvvisativa da manuale: ottimo il battibecco basso/chitarra, mentre la batteria funge da innesco. «Apnea» è uno scandaglio in profondità, un fluttuare in una dimensione onirica che si evolve work in progress, in cui il trio mantiene quasi un’aura di piacevole sospensione.
La title-track, Turning Point, assume le sembianze e di una ballata trasportando il fruitore in una spirale filmica e dilatata, dove luci ed ombre si susseguono sulla scorta di una narrazione chiaroscurale, fatta di cromatismi dalle tinte accese, mente nell’intermedio contrabbasso e chitarra, per qualche misura, invertono i propri ruoli. In «Another Story», l’incantesimo si ripete attraverso i bagliori intermittenti di un’esplorazione astratta, dove il triunvirato sembra fluttuare liberamente fra accordi e disaccordi, per poi ricongiungersi nel punto focale dell’idea di partenza. In « Small House», Liberati fa ancora appello alla chitarra acustica, cercando la complicità del basso di Piccioni che ne irrobustisce lievemente il perimetro, sostenuto dal kit percussivo di Marchese che accompagna e spazzola con grazia. A suggello dell’album arriva «Round Town», dove si ritorna all’elettrico rovistando in un habitat ibrido, fra rock e jazz, con cambi di mood e variazioni tematiche, in cui il chitarrista-leader riceve la più completa solidarietà dai compagni di viaggio, specie sul finale, quando il gioco ad incastri si fa più duro e i duri iniziano a ballare sul mondo. «Turning Point» di Edoardo Liberati è un disco ben organizzato nella distribuzione delle partiture e nel gioco dei ruoli, ricco d’inventiva, rispettoso della tradizione, ma nitidamente proiettato nella contemporaneità di un jazz a larghe falde.
