«Doors» di Michele Polga, la tradizione come leva per il futuro del jazz (Red Records, 2025)

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…parafrasando il titolo del disco, «Doors», tutti gli attanti possiedono il dono innato di entrare ed uscire dal parenchima sonoro con sincretica agilità e cognizione di causa, esplorando mondi e dinamiche differenti per poi ritornare al nucleo gravitazionale dell’idea di partenza, senza smarrire mai la via del ritorno.

//Francesco Cataldo Verrina //

Ci sono jazzisti che amano centellinare le proprie uscite discografiche. Si potrebbe pensare ad una sorta di pigrizia o di stasi creativa. In realtà, un musicista dovrebbe pubblicare solo quando ha delle cose da dire e Michele Polga, sassofonista di lungo corso, ne ha aveva almeno otto pronte ad uscire dalla campana del suo strumento, anzi nove.

Il gradito approdo nel roster della Red Records di Marco Pennisi, a dieci anni dalla sua ultima uscita sul mercato, è sicuramente un passo in avanti e potrebbe costituire un nuovo inizio. Nell’album di Michele Polga, fresco di conio, le idee non mancano e neppure un formula assai personale per proporle, consapevole del sostegno di un sinergico line-up: Alessandro Lanzoni al pianoforte, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Bernardo Guerra alla batteria, musicisti dal solido background e capaci di aderire al sistema operativo proposto dal band-leder senza snaturare eccessivamente il proprio modus agendi o castigare quella naturale esigenza di espressività che alberga in ogni jazzista che si rispetti. Probabilmente, parafrasando il titolo del disco, in «Doors», tutti gli attanti possiedono il dono innato di entrare ed uscire dal parenchima sonoro con sincretica agilità e cognizione di causa, esplorando mondi e dinamiche differenti per poi ritornare al nucleo gravitazionale dell’idea di partenza, senza smarrire mai la via del ritorno.

L’edificio musicale eretto da Polga è caratterizzato da un insieme di open space, senza limiti parietali, steccati o formule stilistiche preconcette. Una volta varcate quelle porte si può essere travolti da folate di energia tensioattiva o risucchiati all’interno di una spirale di emozioni declinate sulla scorta di una narrazione mite e riflessiva. È importante comprendere, attraverso i dettagli, come Polga e i suo sodali riescano a tenere unite tutte le parti del concept, senza che il fruitore avverta il minimo scossone prodotto dai cambi di tempo e di mood. Gli arrangiamenti a maglie larghe e l’ampia tavolozza cromatica consentono movimenti a sorpresa che talvolta sembrerebbero privi di particolari punti di riferimento, per quanto l’opener «Black And Forth» mostra subito le sembianze di un post-bop polimatico con ascendenze shorteriane, specie negli attacchi ed in quel suo spalmare la melodia su più livelli segnati da blocchi accordali. La title-track, «Doors», produce sentori molto intensi di una canto a volte dissonante, ma coeso nelle armonie, mentre si distende sula carta filigranata di una narrazione brunita, puntellata da drappeggi pianistici e dall’incedere sornione della retroguardia. «Sunday Afternoon» è un midrange che gioca su alcuni ostinati riff intercalari, sottolineati dal kit percussivo e da una melodia cooptante dotata di gancio attrattivo. «Late Writer» è una ballata dai toni fumosi e dai riflessi chiaroscurali, che come un dispenser distribuisce pathos in ogni direzione, un morbido tappeto, su cui il vero sassofonista di rango si distende, dimostrando di essere anche un autentico balladeer.

Nel jazz velocità e lentezza si distinguono solo dal controllo e dal dosaggio, e Polga e compagni sembrano aver trovato il cosiddetto break-even-point. Così il pianoforte che annuncia «Unsaid», prelude ad un ulteriore cambio umorale, conducendo verso sistemi di vasi comunicanti che legano molti luoghi dell’anima e della mente organici al jazz afro-americano, mentre la mente corre a talune produzioni Blue Note, in particolare a Joe Henderson, e perché no, Red Records. «Baxocheche», struggente e malinconico nel portamento è un piacevole costrutto soulful, ricco di implicazioni personali amplificate dal ricordo paterno e segnato da un roteante interplay, in cui il pianoforte sembra far da suggeritore. Fortunatamente il racconto non s’inabissa mai nel sentimentalismo spicciolo e sofferente o nel melodismo ostentato da quadretto famigliare. «Along Come Betty» è l’unica dose di farina non prelevata dal sacco di Polga. Un tributo all’estro creativo di Benny Golson, ma ben lontana dalla storica versione di Messangers di Art Blakey, per i quali venne concepito. Polga agisce in maniera destruens adattando al proprio mood il componimento, per poi ricostruirlo sulla base di un jazz maturo, più votato alla meditazione e all’intimismo. «Re-Trane», nomen omen, rimanda direttamente a John Coltrane della fase pre-ascensionale, giocando su un costrutto in minore, il cui il fraseggio viene dilatato a dismisura. In conclusione, «After A While» una sorta di jazz-waltz liquido che si solidifica progressivamente in un ballata avvolgente ed ipnotica, puntellata dal pianoforte e calibrata nel groove. «Doors» di Michel Polga potrebbe apparire, al primo impatto, come un tributo ideale al jazz afrologico dell’epoca dei lumi, in cui figure concentriche di genialità molteplici si agitano sullo sfondo ma, a conti fatti, il progetto del sassofonista si colloca almeno una spanna sopra la media del periodo, e pur guardando sovente nello specchietto retrovisore, non perde mai di vista la contemporaneità.

Michele Polga

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