// di Gianluca Giorgi //

Codona, Codona 2 (ECM 1981)

Il nome di CODONA deriva dalle prime 2 lettere dei nomi dei suoi membri: COllin Walcott, DOn Cherry, NAna Vasconcelos. Il gruppo è uno scrigno segreto in cui si fondono menti e cuori nel crogiolo più profondo della musica. Meraviglioso ensemble world jazz, un trio: con sitar, tabla e voce di Colin Wolcott; tromba, melodica e percussioni di Don Cherry; percussioni e voce assortite di Nana Vasconcelos. In questo secondo album le tracce sono per lo più atmosferiche ed esplorative, ma funzionano molto bene. Il disco ha rappresentato una serie di cambiamenti per il gruppo che, al momento della sua uscita nel 1981, aveva quasi quattro anni ed alcune scelte portano Codona 2 in un territorio completamente nuovo per il gruppo. Pertanto, il disco viene spesso criticato per essere il meno coinvolgente dei tre, ma decontestualizzato dal periodo e ascoltato oggi, quarant’anni dopo, a mio avviso è un album ingiustamente sottovalutato e da riconsiderare.

Meredith Monk, Dolmen Music (ECM 1981)

Meredith Monk con la sua compagnia vocale ha creato una linea tra teatro sperimentale e musica, passando attraverso la tragedia greca antica, l’opera, la world-music, il rituale arcaico e il canto mistico. L’iconico ed intimo debutto della Monk su ECM è un risultato imponente che ha cambiato per sempre i pre-concetti sulla tecnica/estetica vocale, impressionante considerando che all’epoca era per lo più conosciuta come performer e ballerina. Il capolavoro del disco sono i 24 minuti di “Dolmen Music”, un rituale arcaico, un canto mistico che si estende dalle profondità del tempo ai confini dell’universo, un minaccioso contrappunto polifonico tra il coro maschile e quello femminile. Un disco veramente superlativo, in cui si incontrano in un’inebriante miscela: minimalismo, musica antica, folk, sapori liturgici, blues e tanto altro. In netto opposizione alle tendenze d’avanguardia prevalenti degli anni ’70, ha evitato l’elettronica e gli effetti su nastro. Nel disco suonano Julius Eastman e il defunto Colin Walcott alle percussioni e violino. Oggi Meredith Monk è un compositrice acclamata lodata per il suo stile vocale distintivo e le elaborate tecniche estese, nonché per la sua gamma di tre ottave. Con questo album la Monk ha rinvigorito la canzone lineare e con il suo ensemble altamente addestrato ci ha dato un’eternità di suoni, un disco straordinario con una delle copertine più perfettamente adatte dell’intero catalogo ECM.

Robin Kenyatta, Girl of Martinique (ECM 1970)

Il sassofonista e flautista Robin Kenyatta non è un musicista molto conosciuto malgrado abbia suonato in diversi dischi interessanti, non solo di jazz sperimentale di artisti del calibro di Archie Shepp e Cecil Taylor, ma anche su alcune incisioni avant rock francesi, Magma e Catherine Ribeiro + Alpes. Ha pubblicato solo questo disco su ECM, proprio quando l’etichetta si stava rapidamente allontanando dalle loro prime incursioni nel free jazz e nell’improvvisazione. In questo disco il sassofonista jazz americano Robin Kenyatta incontra il pianista sperimentale tedesco Wolfgang Dauner, che ha pubblicato il primo disco ECM e che all’epoca suonava anche le tastiere nella band krautrock Et Cetera, per un album che suona selvaggiamente diverso da qualsiasi cosa ECM. Un disco non pienamente a fuoco con gli arrangiamenti scarni, un’elettronica datata e con qualche sovra produzione di troppo ma che cresce ascolto dopo ascolto grazie alle molte sfumature che vi si possono cogliere. Naturalmente, le parti di flauto e sassofono sono le punte di diamante del disco ma anche il lavoro “straniante” al synth di Dauner (specialmente le parti clavinet) e gli energici accordi al pianoforte sono notevoli. Groovy ed elettrico, con qualche accenno caraibico, questa è una delle versioni più funky dell’etichetta tedesca. Una vera gemma nascosta.

Louis Sclavis, Characters on a Wall (ECM 2019)

Dall’inizio degli anni ’80 Louis Sclavis è uno dei musicisti più creativi del jazz di oggi: superbo solista e geniale compositore. Questa sua tredicesima registrazione ECM, Characters on a Wall, con una tavolozza espressiva ed imprevedibile si colloca in un’ipotetica musica da camera del XXI secolo. Sclavis continua nella suo modo di lavorare ed interpretare la musica ed anche in questo lavoro trae ispirazione da altre forme d’arte e da altri artisti. 15 anni dopo Napoli’s Walls (ECM, 2004), il clarinettista francese Louis Sclavis rivisita la street art di Ernest Pignon-Ernest, usandola come ispirazione per i suoi viaggi musicali. A differenza di quel primo capitolo – modellato con ance, violoncello, elettronica, voce, chitarra e ottoni – questo nuovo lavoro presenta il clarinettista alla guida di un quartetto acustico, più tipicamente jazz ed inedito per l’artista, la cui ricchezza musicale è esaltata dal pianista Benjamin Moussay, frequente collaboratore, e due giovani talenti, la bassista Sarah Murcia e il batterista Christophe Lavergne. Ernest Pignon-Ernest, il pittore, apparentato con il movimento Fluxs così come con quello del Situazionismo, ancora una volta funge da “Musa ispiratrice” per la musica di Louis Sclavis. A far compagnia al pittore, troviamo anche Pierpaolo Pasolini, al quale il clarinettista e compositore francese dedica il brano d’apertura, il bello, struggente e filmico “L’heure Pasolini”. Il clarinetto di Sclavis suona pieno di sentimento, premuroso e delicato, in un lavoro spesso contemplativo. Un album che non riserva, comunque, molte sorprese rispetto ad altri lavori di Sclavis, come sempre c’è un eclettico mix di stili musicali: musica cinematografica, classica ed etnica, con una musicalità squisita in cui tutti i musicisti aggiungono qualcosa di straordinario al mix. Sclavis ha voluto “comporre brani ispirati a diversi interventi di Ernest Pignon-Ernest dagli anni ’70 ad oggi”. Il risultato finale, malgrado possa sembrare un po’ “intellettuale” è molto accessibile e bello.

Ralph Towner, Solstice (ECM 1975)

L’americano Ralph Towner è uno dei grandi musicisti del nostro tempo, un ottimo compositore, ma anche un valido polistrumentista (pianoforte, tromba, corno francese, e ovviamente la chitarra classica, suo principale veicolo espressivo). Stabilitosi a New York nel ’69, cominciò molto presto a suonare con Paul Winter nei Winter Consort, esperienza fondamentale che lo portò ad instaurare un importantissimo sodalizio artistico con gli altri membri Collin Walcott, Glenn Moore e Paul McCandless, insieme ai quali diede vita agli Oregon. Insieme alla sua decennale patecipazione a questo magnifico gruppo, Towner cominciò fin dal ’72 ad incidere una serie di dischi per la ECM e la sua produzione solistica a tutt’oggi è davvero ragguardevole, con uno standard qualitativo sempre molto elevato. “Solstice” pubblicato nel ’75 è uno dei primi esempi di questa collaborazione (nonché uno dei migliori dischi in assoluto della sua vasta discografia), ed è perfetta rappresentazione dell’ormai spesso nominato ECM-stile. È un tour de force di musicalità, scrittura, arrangiamento e registrazione, con un ottimo utilizzo di sottofondo dei sintetizzatori (strumento che io non amo particolarmente). Al disco partecipano Jan Garbarek, Eberhard Weber e Jon Christensen, musicisti che avrebbero reso grande il suono della ECM. La copertina minimalista, tipica del gusto grafico ECM, non rende giustizia alla ricchezza dei suoni presenti in questo ottimo disco.

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