//di Francesco Cataldo Verrina //
Un album jazz dedicato a Pierpaolo Pasolini è già un «pensiero forte» che dischiude la fantasia del critico, come del semplice ascoltatore, su una variegata gamma di suggestioni, ma soprattutto di riflessioni tese ad ad annodare i fili di un ragionamento che diano all’opera trattata una congrua dignità artistica, specie quando il motivo ispiratore è uno dei più autorevoli rappresentanti del cinema e della letteratura del ‘900. Pasolini è stato un talento prolifico e proteiforme: cinema, poesia, prosa, teatro e televisione, tanto che il primo quesito che affiora alla mente è dove sia possibile trovare un nesso tra lo scrittore-regista friulano-bolognese e il jazz. Con un autore multitematico e trasversale come Pasolini il jazz salta fuori ed in maniera piuttosto organica alla sua eclettica attività creativa. Ci furono anni in cui la musica era sinonimo di rivolta, antagonismo, libertà, lotta di classe, anarchia, messa in discussione degli apparati di potere e avanguardia, così Pasolini nel 1970, con spirito antropologico, andò alle radici della musica improvvisata africano-americana con l’idea di realizzare un film documentario «Appunti per un’Orestiade Africana». L’idea del vero film, destinato ad essere un poema sul Terzo Mondo, rimase incompiuta fermandosi al solo reportage del sopralluogo effettuato fra 1968 e 1969, poiché il docufilm venne mal distribuito ed a causa del lungo lavoro è di studio preliminare, basato su un diario di viaggio in Tanzania e Uganda. Il lavoro girato e assemblato non era una vera pellicola sul jazz, anche se verrà segnalata da Jean-Roland Hippenmeyer in «Jazz sur Films». Il materiale conteneva anche appunti con cambiamenti, ripensamenti, tagli, bozze, correzioni e interviste a studenti africani dell’Università di Roma. L’idea era quella di «musicare» l’omonima tragedia greca di Eschilo trasposta in un’ambientazione afro-jazz, ossia anziché far recitare l’Orestiade, Pasolini decise di farla cantare nello stile jazzistico da interpreti afro-americani. La costruzione dell’impianto sonoro fu affidata, tra gli altri, al «bianco» Gato Barbieri ed eseguita su una struttura armonica di tipo modale. Il sassofonista argentino, nella doppia veste di compositore-esecutore, trovò il sostegno del contrabbassista Marcello Melis e del batterista Famoudou Don Moye. In una sala del Folkstudio di Roma, i tre musicisti accompagnarono su schema libero le voci di Archie Savage e Yvonne Murray.
«CPPP Requiem», pubblicato dall’etichetta Fonoarte-The Cotton Club, è il nuovo album Bruno Romani Organic Crossover Group, un tributo a Pier Paolo Pasolini nell’anno del centenario della nascita: 4 Aprile 2023. Già dopo un fugace ascolto s’intuisce che nel concept ci sia un qualcosa di pasoliniano, palesato da una visione globale dell’arte, in tal caso da una formula jazzistica che si espande in una dimensione multidirezionale della conoscenza, per poi diventare un tutt’uno quale sintesi creativa e compositiva di un musicista poliedrico come Bruno Romani che ha toccato molte zone di confine dello scibile sonoro. «Era doveroso per me ricordare Pier Paolo Pasolini nell’anno del suo centenario – ha dichiarato Bruno Romani, mente compositiva della band – Da sempre una figura di ispirazione per me e per la mia arte». Molti ricordano il musicista udinese come ex voce e sax dei Detonazione, gruppo punk-jazz legato all’iconografia e alla filosofia pasoliniana, nonché autore di numerosi lavori discografici, come nello specifico, basati su una fusion organica, ma non di maniera, dove le strade del jazz, del rock, elementi etnici e suggestioni classicheggianti si incontrano in un melting-pot sonoro che apre inediti scenari sulla contemporaneità. C’è davvero qualcosa di epico e di drammatico al contempo in quell’uso della voce che talvolta diventa un lucido e un filtro di contrasto per gli altri strumenti o funge da schermo su cui sax e chitarra si proiettano in estenuanti progressioni. «CPPP Requiem» è terzo capitolo discografico del Bruno Romani Organic Crossover Group, dopo l’esordio nel 2017 con «As Serious As My Life», album che indagava le origini del jazz ed il suo sviluppo, e il successivo «Versilia After Dark».
Registrato dal vivo il 2 dicembre dello scorso anno nell’ambito delle serate musicali organizzate da Le Notti de Il Bandito, l’album si sostanzia come un blocco unico, un lunga suite spalmata su un’ora di musica, suddivisa in undici episodi, che corrispondono alle tipiche tracce di un disco: in ambito classico-sinfonico si parlerebbe di undici movimenti, perché è di flusso sonoro in movimento che parliamo, alimentato da una circonvoluzione di idee che includono ritmi, divagazioni e colorazioni multistrato. Accanto a Bruno Romani, al sax e flauto traverso, troviamo Daniele Onori alla chitarra, una sorta di alter ego del band-leader, la vocalist Federica Olivieri, la pianista Federica Cerizza, il bassista Giancarlo Oggionni e il batterista Matteo Sodini. La presenza di due donne nel line-up aggiunge in talune partiture una rara sensibilità ed una diluente leggiadria, rendendo «CPPP Requiem» un’opera tangibilmente profonda, originale e carica di ispirazione: non inganni il titolo perché non c’è nulla di funesto o di spettrale. Il costrutto sonoro potrebbe perfino essere catalogato come un sorta di colonna sonora del quotidiano, con la sua complessità e le sue disfunzioni percepibili nei cambi di mood e di passo contenuti nelle singole partiture dell’album, dove spinte a volo libero e tensioattive, sottese da sistemi accordali abrasivi e trasversali ed inquiete poliritmie, sembrano a tratti placarsi in un fiume carsico di emozioni dai cromatismi intensi ed accecanti; per contro il progetto di Romani potrebbe essere considerato una riabilitazione della carica mitopoietica di Pasolini, non solo in termini di storicizzazione o di mero ricordo, ma di vivida attualità, da cui riaffiorano passioni individuali e tensioni collettive, mentre lo sviluppo tematico e sequenziale degli undici capitoli del progetto, (tutti contrassegnati dal titolo «CPPP Requiem» part.1, 2, 3, e via proseguendo in maniera progressiva) potrebbe essere letto come il romanzo della vita con i sui dolcificanti o le tante asperità, con i suoi ritmi e suoi bioritmi irregolari, nonché gli impervi percorsi esistenziali che Bruno Romani è riuscito a tradurre abilmente in musica. Resta il fatto che «CPPP Requiem» possa essere definita, senza tema di smentita, come una moderna opera di costruzione sonora, assolutamente fuori dal canone della banalità.