Riflessioni attorno a un festival e a un libro. L’estate di Udin&jazz 2023 e l’autunno de “Il jazz e l’Italia”

di Guido Michelone
Il critico, reporter, inviato o recensore che dir si voglia dev’essere amico dei jazzisti? Per me, sì! Senza strafare, però! È bello ritrovarsi ai festival – come ad esempio Udin&Jazz 2023 del luglio scorso, tra i migliori eventi musicali del Nord Italia – per reincontrare jazzisti da tutto il mondo, ma evitando di invaderne la privacy e rispettandone le esigenze, tenendo conto che per quasi tutti l’estate è un tour de force con esibizioni giornaliere in Italia e in Europa senza poter programmare spostamenti geografici razionali, ragion per cui oggi il jazzman suona a Udine, domani a Roccella , dopodomani a Perugia o Ivrea, a zig zag per lo Stivale. Nonostante ciò ho sempre constatato puntualità, rigore, professionismo e al contempo gioia e piacere di condividere un palco con i colleghi e con il pubblico, che, nel caso di Udin&jazz, sempre numeroso, ha chiesto e ottenuto i bis. Ma il successo di un festival dipende molto dall’organizzazione. E questo è un altro discorso ancora: comunque se io ho potuto incontrare e salutare così tanti jazzisti è merito anche degli organizzatori, dal direttore all’intero staff!
Dagli incontri festivalieri (e non solo, però) prima o dopo i concerti, nei momenti di pausa, relax o a colazione, pranzo, cena – nell’arco di un quarantennio – nascono tutte le interviste che poi ho inserito in brevi monografie nel mio recente volume Il jazz e l’Italia. Cento musicisti si raccontano 1923-2023, che vuole essere un po’ la storia dello Stivale attraverso i ritmi sincopati, andando alle origini per giungere ai giorni nostri. Non sta a me discutere su quanto ho scritto nel mio più recente volume che viene a completare un trittico ideale, assieme a Il jazz e i mondi e Il jazz e l’Europa (tutti e tre per l’editore Arcana di Roma) che vuole fare il punto della situazione del jazz sul Pianeta, con discrezione studiata, umiltà sincera e atteggiamento divulgativo.
Voglio però tornare a Udin&jazz 2023 e parlare dei musicisti: il concerto dell’afroamericana newyorchese Lakecia Benjamin – che mi ha colpito moltissimo per l’energia della protagonista – cade a fagiolo a proposito di alcune riflessioni eurocolte sul senso del jazz, che trapelano sui social nei giorni di Udine. Per semplificare, io sono d’accordo che a una lettura simbolica (non sociologica) si può accostare il jazz al senso del tragico. A livello invece di analisi biografiche, nonostante le vite grame di moltissimi, non si è mai sentito un jazzman riferirsi al tragico, anzi per lui suonare significa portare gioia, pace, spiritualità, benessere. Anzi molti vogliono comunicare allegria, spettacolo, divertimento anche in senso politico (come alternativa al grigiore della burocrazia e della massificazione). Con Lakecia si ballava come accade in passato con molti Maestri!
A Udine ho avuto altresì l’ennesima conferma che ‘il jazz è donna’ non solo a livello delle cantanti: ad esempio, per restare in Italia, il concerto della brasiliana Eliane Elias in quartetto al Castello conferma il carisma, la scioltezza, il polso, la bravura della simpatica artista di San Paolo che – devo ricordarlo – parte con il jazz-jazz per arrivare alla musica brasiliana solo in anni recenti, proponendo al pianoforte con svariate formazioni un sound originale che potrebbe definirsi come una rilettura della bossa nova in chiave jazzistica; il tutto avviene nel momento in cui i grandi solisti che per primi avevano suonato ciò che erroneamente gli americani ribattezzavano jazzsamba (Stan Getz in testa) non esistono più o fanno altro. Eliane si cimenta altresì alla voce per me con ottimi risultati, tali insomma da far sì che persino un repertorio arcinoto in lei acquisti profondità espressiva e virtuosismo piacevolissimo soprattutto grazie al pianismo postbop. E quando poi al contrabbasso c’è il marito – un certo Marc Johnson, scoperto da Bill Evans – les jeux sont faits, come direbbero i Francesi!
Ascolto con interesse Ludovica Burtone, violinista, da anni residente e attiva a Brooklyn (New York) che torna nella sua Udine con il 4tet Sparks dal nome dell’album da poco uscito negli Stati Uniti con strumentisti americani; ma i presenti Emanuele Filippi (pianoforte), Alessio Zoratto (contrabbasso), Luca Colussi (batteria) non fanno rimpiangere i colleghi e tutto il set nella storica cornice della Corte Morpurgo si svolge all’insegna di un contemporary jazz, che gioca tutto (o quasi) sulla dialettica fra complessità e comunicativa, restando sempre sul versante del piacevolmente accessibile.
E a proposito di jazz italiano, a Udine ho due piacevoli sorprese da un nuovo talento e un consolidato maestro: da un lato infatti Matteo Mancuso, giovanissimo chitarrista palermitano, il quale, assieme ai conterranei Stefano India (basso) e Giuseppe Bruno (batteria), dà vita a un recital vivacissimo all’insegna di una fusion music fortemente venata di instrumental rock che del classico guitar jazz trio. Nonostante i tributo ai Weather Report in due brani e ad Allan Holswowth in uno ( e persino a Pee Wee Ellis in un altro), il suono va in direzione di un chitarrismo ispirato alla Mahavisnhu Orchestra, come pure, nelle atmosfere generali alla psichedelica e al progressive, con la ritmica però attenta a rimarca solidi e spesso allegri tempi funky.
Dall’altro lato il barese Roberto Ottaviano si conferma tra i maggiori jazzman non solo a livello italiano: la progettualità sonora e la vis performativa, come ampiamente dimostrato lungo l’intero concerto brano per brano, riguardano un poiesis (nel senso proprio del ‘fare’ ) di natura europea e internazionale, o meglio internazionalista: la tensione creativa del jazz proposto da Ottaviano, tra avanguardia e comunicativa, con il sostegno di ritmi prodigiosi su assolo altrettanto vibranti, si trasmette dal collettivo al singolo. Meritatissimi gli applausi a Marco Colonna, Alexander Hawkins, Giovanni Maier, Zero de Rossi e ovviamente a lui,
Ma per chi cerca succose novità in ambito jazzistico, il giovane Amaro Freitas, pianista e percussionista di Pernabuco (Brasile del Nord) è il jazz musician giusto: ascoltato dal vivo sa coniugare ritmi etnici, minimalismo nordamericano e sopratutto un melodismo pulsante a tratti in bilico tra McCoy Tyner, Cecil Taylor e Keith Jarrett, ma con un approccio alla tastiera assolutamente personal.
E per finire anche Udine presenta il pop-jazz che riempie il teatro ma che fa storcere il naso ai puristi: tra le chicche annunciate di Udin&Jazz, il concerto dell’ex Police Stewart Copeland si è subito rivelato il mega-evento che ha scatenato la gioia equilibrato di fan attempati, probabilmente gli stessi che, oltre quarant’anni, applaudivano gli allora ventenni coetanei di un power rock trio sui generis con la buonanima di Andy Summers (chitarre), lo stesso Copeland (batteria) e soprattutto Sting (voce, basso, composizioni). Dall’intesa fra i tre nasceva un genere inedito dove la pulsione rock era scandita da ritmi in levare, non senza qualche slancio romantico nel creare le melodie spesso orecchiabili. Oggi invece Stewart con la FVG Orchestra, formazione ritmico sinfonica (a cui aggiunge basso e chitarra) gioca a relazionare le grandi culture sonore (rock versus classica, rock versus jazz e soprattutto rock versus soul, grazie alle tre cantanti afroamericane nel ruolo di soliste/coriste) allestendo un vero e proprio spettacolo, dove lui a sua volta si diverte a fare il divo o meglio a recitare quasi ironicamente il ruolo della rockstar soprattutto quando si scambia con il direttore d’orchestra o quando inforca la chitarra. Musicalmente gli arrangiamenti dei brani sono conformi agli originali e il leader di fronte a un set enorme di percussioni resta un metronomo in grado di entusiasmare ancora.
