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Giorgio Gaslini

Ci fu un tempo, in Italia, grosso modo tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, in cui quasi tutti i musicisti (in particolare compositori e jazzmen) si dedicarono agli score, detti anche original movie picture soundtrack o colonne sonore cinematografiche, occupandosi di ogni genere filmico: l’industria del grande schermo, all’epoca, era fiorente..

// di Guido Michelone //

Giorgio Gaslini – nato a Milano il 22 ottobre e morto a Borgo Val di Taro il 29 luglio 2014 – è forse il massimo jazzista italiano di tutti i tempi, nonché un autore di classica contemporanea che possa vantare un posto considerevole nella storia culturale novecentesca. Fino all’ultimo attivissimo con recital, concerti, insegnamenti, workshop, composizioni, novità discografiche e in procinto di scrivere la sua decima sinfonia, già sul finire del XX secolo decide di far pubblicare su disco l’opera omnia per lasciare ai posteri, sotto la propria supervisione, un bagaglio artistico di prim’ordine di una mole quasi sterminata, senza mai nulla concedere alle mode o all’effimero. Anzi, pur nella diversità e talvolta nell’eclettismo delle proposte, la poetica musicale gasliniana può essere considerata di una coerenza quasi unica, almeno nel panorama italiano, per ricerca intellettuale ed esiti personalissimi. Ed è, come si può constatare dai CD usciti, sotto appannaggio di etichette come Black Saint (per il jazz), La Bottega Discantica (per la musica colta), Agorà (ancora per la classica e i lavori per così dire a metà strada), una poetica che si muove nel solco delle moderne tradizioni, dal jazz sperimentale al linguaggio postdodecafonico, dal recupero del melodismo alla scoperta delle radici sia europee sia afroamericane. D’altronde Gaslini da sempre manifesta, anche politicamente, questo desiderio di coniugare il dotto e il popolare, il letterario al sociale e quasi sempre giunge a risultati splendidi, in grado persino di farsi capire da pubblici diversi (non necessariamente istruiti o engagé).

Lo stesso discorso vale per le partiture cinematografiche, scritte in abbondanza e per film talvolta di scarso valore (al punto da non essere citati nelle discografie quando è in vita) e solo post mortem riscoperti come testimonianze validissime di una scrittura classica che s’adatta quasi con scorrevole naturalezza alle immagini semoventi. A tale proposito una recente uscita discografica Bali (2024) a firma appunto Giorgio Gaslini, pubblicata in origine nel 1971 dalla Cinevox, induce a parecchie riflessioni. Ci fu un tempo, in Italia, grosso modo tra gli anni Sessanta/Settanta del XX secolo, in cui quasi tutti i musicisti (in particolare compositori e jazzmen) si dedicarono agli score, detti anche original movie picture soundtrack o colonne sonore cinematografiche, occupandosi di ogni genere filmico: l’industria del grande schermo, all’epoca, era fiorente e organizzatissima, e il ruolo del musicista risultava tanto richiesto quanto redditizio sul piano economico. Nessuno si sottrae al richiamo, anche solo con una pellicola abilmente selezionata (ad esempio il thriller sessantottesco La morte ha fatto l’uovo di Giulio Questi con score di Bruno Maderna), benché la maggior parte accetti di tutto o quasi, salvo appunto rimuovere dall’elenco dell’opera omnia o dalla discografia completa tali ‘avventure’, spesso frutto acidulo di ripetitivo artigianato o di furbo mestiere. Emblematico resta in tal senso il caso di Gaslini, il quale, durante un fortunato quindicennio della cinematografia tricolore, dunque tra il 1961 e il 1975, firma molti score (per l’appunto Bali), ma di cui purtroppo, come già detto, esiste solo un elenco parziale, al pari delle lacune inerenti le produzioni televisive (pubblicità compresa).

Quindi in parallelo all’originale ricerca sul linguaggio sia classico sia jazzistico tra la pionieristica suite Tempo e relazione (1957) e l’apoteosi ideologica con Murales Live (1976) restano noti, editi, usciti su disco solo dodici soundtrack: l’iniziale La notte (1961) per Michelangelo Antonioni sembra la risposta a quanto compiuto dalla Nouvelle Vague parigina a livello di rapporti suono/immagine tra scrittura e improvvisazione (a partire dal seminale Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis per Louis Malle nel 1957), mentre il conclusivo Profondo rosso (1975) per Dario Argento, in cui Gaslini si alterna al prog rock del quintetto Goblin (sostituti dei rinunciatari Pink Floyd, poi pentitisi) risulta il massimo successo discografico, giacché il longplaying originario riporta ogni brano, tra cui l’inquietante celeberrimo leitmotiv di Claudio Simonetti.

Gli altri film non sono particolarmente memorabili, anche quando Gaslini collabora con un regista internazionale quale Miclos Jancsó, di cui proprio La pacifista (1970) rimane la pellicola meno riuscita del padre della Nouvelle Vague ungherese. Altri lungometraggi – Un amore (Gianni Vernuccio), Le sorelle (Roberto Malenotti), Le tue mani sul mio corpo (Rondi), Un omicidio perfetto a termine di legge (Tonino Ricci), Quando le donne si chiamavano madonne (Grimaldi), Il vero e il falso (Eriprando Visconti), La notte dei diavoli (Giorgio Ferroni), Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile (Roberto Bianchi Montero), Le cinque giornate (Dario Argento) in ordine tra il 1965 e il 1973 – girati quando Gaslini diventa via via il riferimento del jazz politicizzato (grazie agli album Nuovi sentimenti, Il fiume Furore, Segnali, Africa!, Fabbrica occupata, Message, Colloquio con Malcom X, Canti di popolo in jazz, per restare in quegli anni), sono film appartenenti solo in parte al cosiddetto cinema d’autore, con alcuni registi, soprattutto durante i Seventies, pronti a cavalcare la moda di svariati sottogeneri a cominciare dall’erotico post-sessantottino tra voyeurismo sexy e rivoluzione sessuale fino al poliziottesco moralistico con un action giustizialista (oggi in parte rivalutati grazie a Quentin Tarantino). In tutti i casi le colonne sonore gasliniane non si impongono, ma si adattano alle pellicole, alle storie, ai generi, ai registi, così come va facendo il collega Ennio Morricone, oggi tanto blasonato, ma anch’egli ‘costretto’ a obbedire, sia pur col tocco del genio, ai dettami della musica d’uso. A livello stilistico, essendo un pluridiplomato al conservatorio, con una lunga militanza nella classica contemporanea che non abbandona mai del tutto, Gaslini è in grado di inserire nei soundtrack un sapere enciclopedico quasi illimitato nel tempo e nello spazio, come traspare anche dalla nuova riedizione, su vinile arancio, del lungometraggio Bali (oggi AMS Records, distribuzione BTF).

Dunque nel 1970 Gaslini viene invitato dal regista Ugo Liberatore – già famoso due anni prima per Il sesso degli angeli e Bora Bora – a comporre l’original movie picture soundtrack per Bali, un drammone à la page inerente il trend esotico/erotico con le vicende dei due amici, Glenn (John Steiner) e Carlo (Umberto Orsini) entrambi sulla meravigliosa isola indonesiana (da poco scoperta dal turismo di massa) per scrivere un nuovo libro. Glenn, stanco e irresoluto, sul piano caratteriale, vuole trascorrere un periodo tranquillo in quest’angolo paradisiaco, mentre Carlo, privo di dubbi o gentilezze si fa beffe di lui. A soccorrere Glenn arriva la bella giovane Daria (Laura Antonelli), moglie di Carlo, intenta a curare il malessere dell’amico fino a proporgli il proprio amore. Il gesto compassionevole, forse di eccessiva generosità, appare controproducente, giacché non impediscono all’uomo, sempre più depresso, di suicidarsi. Originariamente uscito con il titolo Incontro d’amore a Bali è un flop al botteghino, ma dopo appena un lustro l’Antonelli, sensuale protagonista, grazie ai successivi Il merlo maschio, Malizia, Sessomatto, Peccato veniale, diventa una star del cinema italiano sempre più fruita quale sex symbol, ragion per cui il produttore Alfredo Bini rimette in circolo la pellicola grazie a un nuovo montaggio con scene inedite girate apposta dal regista Paolo Heusch con gli attori aggiunti Ettore Manni (il commissario) e Ilona Staller (la vittima); e ridistribuito come Incontro d’amore, il lungometraggio riscuote in sala un enorme successo, cronologicamente in parallelo all’exploit di Gaslini come musicista colto ‘popolare’ soprattutto negli ambienti meneghini sia studenteschi sia operai.

Passando ora, in breve alla colonna sonora discografica, va sottolineato anzitutto il fatto che la copertina originaria, secondo l’abitudine dell’epoca, evita qualsiasi dato tecnico, salvo indicare che si tratta di musiche composte e dirette da Gaslini, che il coro è quello dei cantori Moderni di Alessandroni, che la voce solista è Edda Dell’Orso. Musicalmente, lo score, benché unitario nel commentare soprattutto immagini paesaggistiche, possiede de facto due anime distinte, leggibili anche dai titoli dei singoli pezzi: da un lato quindi Il Silenzio di Dio, Ketjak, Donna più, The Magic Theme, Gamelan Ombre Cinesi, Spazi, Tema della Purificazione, Preghiera di un Santone, Morire a Bali; dall’altro Versione triste, Shake etnico, Rito magico, Tema sacro, Tema principale ripresa 2, Celebrazione, Tema sacro 2, Tema d’amore, Tema principale ripresa 3). Si intuisce perciò che, più o meno in corrispondenza dei primi dieci pezzi (lato A) il suono risulta essenziale, diretto, scarno, in perfetta coincidenza con l’edizione primaria (di oltre mezzo secolo fa), dove c’è dunque una bella alternanza fra cadenze, timbri, melodie tribali provenienti da strumenti a corde e a percussioni, e fra ritmi moderni oggi magari vintage nel senso delle atmosfere lounge e beat precipue dei mid Sixties, non senza qualche classico essenziale arrangiamento, dove prevalgono i flauti e gli archi. La seconda anima, che riguarda i dieci paralleli takes del lato B, risulta in fondo la stessa colonna sonora, ma in versione completamente alterata, grazie alle puntualizzazioni maggiormente classicheggianti, con un taglio per così dire sinfonico che è d’altronde merito di un’autentica orchestra, in uno stile da score hollywoodiano, ulteriormente accentuato dagli interventi corali. Oggi Bali di Giorgio Gaslini verrebbe definito un misto di classica con elementi jazz, folk, pop, etnici verso una lungimiranza world music, che suona quasi ante litteram.

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