Crystal Silence». Le architetture dell’istante: la poetica condivisa di Corea e Burton tra forma e improvvisazione

Il pianoforte di Chick ed il vibrafono di Gary condividono una natura percussiva ma al contempo lirica, che consente un’interazione fluida e complementare. Entrambi gli strumenti sono capaci di articolare linee melodiche complesse e armonie stratificate, favorendo un dialogo paritario e non gerarchico.
// di Francesco Cataldo Verrina //
L’influenza della filosofia orientale sul jazz si è manifestata in maniera sottile ma pervasiva, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, quando numerosi musicisti iniziarono a cercare nella spiritualità asiatica una risposta alle tensioni interiori e sociali del loro tempo. Questa influenza non si è limitata ad un’estetica superficiale, ma ha inciso profondamente sul modo di concepire l’improvvisazione, il tempo, il suono e persino l’identità artistica. Uno degli aspetti più evidenti è l’assimilazione del concetto di presenza consapevole, mutuato dal Buddhismo Zen e dalla pratica della meditazione. Musicisti come John Coltrane, Pharoah Sanders, Alice Coltrane e, in modo più implicito ma non meno significativo, Chick Corea, hanno fatto propri i principi del «qui e ora», trasformando l’atto performativo in un’esperienza di consapevolezza totale. L’improvvisazione jazz, già di per sé fondata sull’istante, ha trovato in queste filosofie un’ulteriore legittimazione esistenziale: suonare diventa un atto di meditazione, un esercizio di presenza assoluta, in cui ogni nota è irripetibile e carica di significato.
Il concetto taoista di wu wei, ossia l’azione senza sforzo, il fluire con la corrente, ha trovato un’eco naturale nell’approccio di molti improvvisatori, che hanno abbandonato la tensione verso la forma chiusa per abbracciare la trasformazione continua. In questo senso, il jazz modale e il free jazz hanno rappresentato non solo una rivoluzione musicale, ma anche una trasposizione sonora di principi orientali: l’armonia non è più un vincolo, ma un campo aperto; l’intelaiatura non è rigida, ma flessibile come il bambù. Perfino il concetto di non-dualità, centrale in molte tradizioni orientali, ha trovato risonanza nel jazz. La distinzione tra composizione ed atto liberatorio-improvvisativo, tra soggetto e oggetto, tra io e altro, viene progressivamente dissolta. Il musicista non esegue un tema, ma lo abita; non interpreta un’idea, ma la incarna. Questo approccio ha influenzato profondamente anche la relazione tra i membri di un ensemble: non più gerarchie rigide, ma un’interazione orizzontale, simile a quella che si instaura tra praticanti di una disciplina spirituale. La filosofia orientale ha offerto al jazz non un sistema teorico, ma un orizzonte di senso: ha suggerito un modo diverso di essere nel suono, di abitare il tempo, di concepire la libertà non come rottura, ma come armonia con l’inevitabile. È in questa prospettiva che si può comprendere appieno la poetica di «Crystal Silence», dove Corea e Burton non cercano di dominare la forma, ma di lasciarsi attraversare da essa, come due monaci del suono che meditano insieme sul mistero dell’istante, strutturando un organismo sonoro unitario, in cui ogni elemento concorre a delineare un’estetica dell’ascolto fondata sulla sottrazione, sull’ascolto reciproco e sulla capacità di trasformare la tecnica in poesia. Un esempio fulgido di come la musica improvvisata possa raggiungere vette di lirismo e coerenza formale raramente eguagliate.
Nel contesto delle collaborazioni artistiche che hanno segnato la produzione jazzistica degli anni Settanta, «Crystal Silence» si distingue come un concept di rara coerenza espressiva e raffinatezza formale. Frutto del primo sodalizio discografico tra Chick Corea ed il vibrafonista Gary Burton, il disco si propone come un laboratorio sonoro in cui l’improvvisazione si fonde con una scrittura moderna e ed indagatrice. Il repertorio implementato attinge esclusivamente a composizioni dell’epoca, firmate da Steve Swallow, Mike Gibbs e dallo stesso Corea. Tale scelta denota un’intenzione programmatica: allontanarsi dai cliché del linguaggio jazzistico tradizionale per abbracciare un’estetica più rarefatta, in cui la melodia assume un ruolo centrale e le strutture accordali, spesso complesse, fungono da terreno fertile per un dialogo proattivo di straordinaria lucidità. L’andamento prevalentemente meditativo dei componimenti consente ai due complici di espandere la proprio performance con libertà e misura, evitando ogni compiacimento virtuosistico. In linea con l’approccio estetico promosso dall’etichetta ECM, si avverte una marcata influenza del linguaggio musicale europeo, che si traduce in un fraseggio sobrio, privo di inflessioni blues o bebop, e in una predilezione per linee melodiche limpide e strutture modali. Gary Burton dimostra una sorprendente affinità con l’universo armonico di Corea, assimilando con spontaneità le suggestioni ispaniche e modali che permeano le composizioni del pianista. Il suo assolo in «Señor Mouse» si distingue per leggerezza e brillantezza, mentre Corea, nel medesimo costrutto, alterna impeti ardenti a momenti di perforante introspezione, offrendo una sintesi emblematica della propria estetica strumentale. Il brano omonimo, «Crystal Silence», rappresenta il fulcro emotivo dell’album. Originariamente apparso nel repertorio di Return to Forever (1972), viene riletto con una accuratezza quasi cameristica. I due sodali, sospendendo il tempo in una dimensione contemplativa, accarezzano la melodia con tocco leggiadro e costruiscono un crescendo emotivo che si dissolve con eleganza, in un gioco di tensioni e rilascio degno dei grandi balladeer.
Il confronto tra i duetti Gary Burton-Chick Corea e Gary Burton-Keith Jarrett rivela due approcci profondamente differenti alla forma del dialogo musicale, pur partendo da una medesima matrice: l’incontro tra vibrafono e pianoforte. Tuttavia, ciò che in superficie potrebbe apparire come una semplice variazione timbrica, si rivela in realtà una divergenza estetica e concettuale di notevole rilievo. Nel sodalizio con Chick Corea, che proseguirà con Duet (1979), si assiste a una vera e propria simbiosi sonora. I due strumenti si fondono in un ordito di stoffa pregiata che privilegia la trasparenza, la sospensione, la rarefazione del gesto. Corea e Burton non si limitano a dialogare: respirano insieme, si anticipano, si completano. Il loro elaborato risulta imperniato su un equilibrio dinamico tra rigore compositivo e libertà improvvisativa, in cui ogni nota è scelta con cura quasi calligrafica. Il fraseggio è limpido, la struttura formale è sempre leggibile, anche nei momenti di maggiore complessità. L’influenza della cultura accademica europea, del minimalismo e della filosofia orientale è palpabile, ma mai ostentata. Il risultato è un costrutto sonoro che non cerca l’effetto, ma la risonanza interiore. Di tutt’altro tenore è l’incontro tra Gary Burton e Keith Jarrett, documentato nell’album «Gary Burton & Keith Jarrett» (1971), dove il contesto risulta più elettrico, più denso e più irregolare. Jarrett, ancora in una fase di ricerca identitaria, alterna pianoforte acustico, elettrico e sassofono soprano, mentre la presenza di una sezione ritmica (Steve Swallow al basso, Bill Goodwin alla batteria) e della chitarra di Sam Brown introduce una dimensione più collettiva e meno intimista. L’interazione tra i due è vivace, talvolta persino turbolenta: Jarrett tende a imporsi con la sua esuberanza espressiva, mentre Burton cerca di mantenere un equilibrio che spesso viene messo in discussione. Il risultato è un album che, pur contenendo passaggi di notevole assertività, come in «In Your Quiet Place» o «Moonchild», appare meno coeso, più frammentario, quasi sperimentale nel senso più aperto del termine. Se Corea e Burton costruiscono un universo sonoro rarefatto e coerente, Jarrett e Burton sembrano esplorare territori divergenti, talvolta conflittuali. Il primo duo si fonda su una visione condivisa della musica come spazio meditativo e formale; il secondo su una tensione dialettica tra due personalità forti, che non sempre trovano un punto d’incontro. Non a caso, mentre la collaborazione con Corea si è protratta per decenni, generando capolavori come «Native Sense» (1997), quella con Jarrett è rimasta un episodio isolato, quasi un esperimento non replicato. Il duetto Burton-Corea rappresenta l’ideale platonico dell’intesa musicale, una sorta di architettura sonora costruita sull’ascolto reciproco e sulla sottrazione. Il duetto Burton-Jarrett, invece, è un laboratorio di possibilità, un campo di forze in cui l’equilibrio è sempre precario, ma proprio per questo affascinante. Due visioni del jazz, due modi di intendere la libertà: l’una come armonia, l’altra come tensione.
Sin dalle prime battute di «Señor Mouse», si percepisce un’intesa che trascende la mera interazione musicale: Corea e Burton instaurano un dialogo serrato, quasi telepatico, in cui la complessità ritmica e armonica viene affrontata con una sorgività disarmante. Il brano, tra i più vivaci dell’album, si snoda attraverso una serie di modulazioni che i due interpreti attraversano con agilità felina, alternando impennate virtuosistiche a momenti di sospensione lirica. Il pianoforte di Corea, ora percussivo ora vellutato, s’interseca con le campane liquide del vibrafono, generando un flusso sonoro che oscilla tra tensione e distensione, tra slancio e raccoglimento. Con «Arise, Her Eyes», la tavolozza timbrica si fa più tenue, quasi diafana. Burton assume un ruolo narrativo più marcato, cesellando la linea melodica con un fraseggio che pare scolpito nell’aria. Corea, dal canto suo, accompagna con discrezione, lasciando che il silenzio diventi parte integrante del discorso musicale. La semplicità apparente della composizione cela una profondità emotiva che i due interpreti sanno evocare senza mai indulgere nel sentimentalismo. «I’m Your Pal» prosegue su questa linea di intimità, ma con un accento più giocoso, quasi cameristico. Il dialogo si fa più leggero, ma non per questo meno raffinato: ogni frase, ogni accento, ogni pausa è calibrata con una precisione che non ha nulla di meccanico, ma che nasce da un ascolto reciproco telepatico e da una sensibilità condivisa, sviluppandosi come una conversazione tra amici di lunga data, in cui ogni parola non detta è altrettanto eloquente di quelle pronunciate. Con «Desert Air», l’atmosfera si vaporizza ulteriormente, mentre il paesaggio sonoro si fa quasi astratto, evocando spazi aperti e silenzi carichi di attesa. Il vibrafono disegna arabeschi sospesi, mentre il pianoforte si muove con passo felpato, suggerendo più che affermando. Entrambi gli strumenti vivono di sfumature, di chiaroscuri, di risonanze che si dissolvono nell’aria come miraggi.
La B-Side si apre con «Crystal Silence», cuore pulsante dell’album, che rappresenta il vertice espressivo dell’intero lavoro. La melodia, di una semplicità disarmante, viene trattata con una delicatezza quasi sacrale. I due strumenti si muovono come danzatori in perfetta sincronia, sfiorandosi, allontanandosi, ritrovandosi in un gioco di echi e riflessi che trasforma il tempo musicale in pura contemplazione. Qui la tecnica si dissolve nell’espressione, e la musica si fa preghiera laica, meditazione sonora, sospensione estatica. «Falling Grace» introduce un cambio di registro, con un andamento più articolato ed un’architrave armonica più densa. Tuttavia, anche in questo contesto più mosso, Corea e Burton mantengono intatta la loro eleganza formale, evitando ogni forma di esibizionismo, sviluppando un racconto in divenire, in cui ogni episodio si collega al precedente con logica interna e coerenza narrativa. «Feelings and Things» si distingue per un lirismo sommesso, quasi sussurrato. La melodia si snoda con naturalezza, ma non senza ambiguità: le modulazioni improvvise, le deviazioni armoniche, i silenzi improvvisi creano un senso di instabilità emotiva che i due interpreti sanno rendere con tocco magistrale, parlando di fragilità, di attese e di rivelazioni appena accennate. Infine, «Children’s Song» chiude l’album con una nota di leggerezza e di meraviglia infantile. La scrittura di Corea, qui più che altrove, si avvicina a una forma di minimalismo lirico, in cui poche note bastano a evocare un intero universo. Burton accompagna con discrezione, lasciando che la melodia si dispieghi come un gioco, come un ricordo, come un sorriso.
La compliance tecnico-strumentale tra Chick Corea e Gary Burton si fonda su una convergenza di fattori che trascendono la mera padronanza individuale dello strumento. Il pianoforte di Chick e il vibrafono di Gary condividono una natura percussiva ma al contempo lirica, che consente un’interazione fluida e complementare. Entrambi gli strumenti sono capaci di articolare linee melodiche complesse ed armonie stratificate, favorendo un dialogo paritario e non gerarchico. La precisione ritmica di entrambi i musicisti permette una gestione del tempo estremamente flessibile. Sono in grado di sospendere, accelerare o dilatare il flusso temporale con naturalezza, creando un senso di sospensione che è cifra distintiva delle loro esecuzioni congiunte. Corea e Burton mostrano, altresì, una predilezione per un linguaggio armonico moderno, spesso modale, che si discosta dalle convenzioni del jazz tradizionale. Questa comunanza di intenti estetici favorisce un’improvvisazione coerente e coesa, in cui le idee musicali si sviluppano organicamente. La loro interazione è fondata su un ascolto attivo ed accurato. Ogni intervento solistico è calibrato in funzione dell’altro, in un continuo scambio di ruoli tra accompagnamento e conduzione melodica. In sintesi, la loro compliance tecnico-strumentale non è il risultato di un semplice allineamento esecutivo, ma piuttosto l’esito di un’affinata intesa musicale, costruita sulla collaborazione fra sensibilità affini ed una visione condivisa dell’arte improvvisativa.
