In ricordo di Massimo Urbani: un’anima incendiaria nel firmamento del jazz europeo. Oggi avrebbe compito 68 anni

Massimo Urbani
L’estetica improvvisativa di Massimo Urbani costituisce un unicum nel panorama jazzistico europeo, tanto per radicalità quanto per lirismo. Essa si alimentava di una duplice tensione: da un lato l’adesione viscerale ai canoni del be-bop più incandescente, dall’altro un’inquietudine espressiva che lo spingeva oltre l’ordinata logica formale dello stile.
// di Francesco Cataldo Verrina //
A più di tre decenni dalla scomparsa (24 giugno, 1993), la figura di Massimo Urbani resta un enigma folgorante nella storia del jazz italiano. Nato l’8 maggio 1957 a Roma, primogenito in una famiglia numerosa e modesta, fu un talento aurorale, immediato, prepotentemente autodidatta, che irruppe nel panorama musicale come un’epifania, annullando ogni cesura tra l’istinto e l’arte. L’approdo al sassofono contralto – strumento che divenne il suo alter ego espressivo – avvenne precocemente, in seno a una banda di quartiere, ma il suo apprendistato autentico fu il grammofono domestico, da cui assimilò i maestri del be-bop, primo tra tutti Charlie Parker, di cui non fu un imitatore bensì un evocatore febbrile: il suo fraseggio iperbolico, vibrante, sovente sospinto oltre i confini della grammatica jazzistica convenzionale, rivelava un’urgenza comunicativa che trascendeva la forma.
Allo stesso modo in cui Chet Baker è stato oggetto di una costruzione mitopoietica, fondata sul cortocircuito tra grazia musicale e rovina biografica, Massimo Urbani si presta ad una simile operazione ermeneutica: la sua figura si cristallizza in un mito fragile e tellurico, in cui la genialità interpretativa diviene inscindibile dalla deriva autodistruttiva. La traiettoria di Urbani si può leggere come l’irruzione improvvisa di un demone apollineo in un corpo dionisiaco: la lucidità formale e l’adesione al canone be-bop convivono con una carica emotiva devastante, centrifuga, che eccede la cornice linguistica e affonda nell’inarticolato. Il suo stile non è semplicemente personale: è un logos ferito, un grido rivolto a un tempo che non ha saputo accoglierlo né curarlo. Come Baker, anche Urbani appare circondato da un’aura malinconica e sacrale, alimentata da una bellezza musicale che sembra sgorgare in contropelo alla sofferenza, come tentativo sublime e disperato di sottrarsi alla caducità. Ma mentre Baker reificava il mito della fragilità estetizzata, con il suo suono soffice, retratto, Urbani incarna il martirio dell’eccesso: il sax come fiamma che brucia ogni possibilità di misura. Il paradosso mitopoietico si ripropone: tanto più la sua vita frana, tanto più la musica si fa portatrice di un’epifania irriducibile. E come in Baker il corpo fragile divenne involucro del mito, così in Urbani il volto contratto, lo sguardo rapito, i denti rovinati, la camminata irrequieta, tutto contribuiva alla liturgia «dell’essere altro». Un altro non mediabile, non normalizzabile. Non va dimenticato, infine, che questa mitologia non è solo postuma: Urbani morì già leggenda, come testimoniavano i racconti in tempo reale di chi lo frequentava, suonava con lui, o semplicemente lo ascoltava in un club romano. Il jazz italiano non ha prodotto molti miti. Urbani è forse l’unico che, come Baker, ha fatto della propria distruzione una forma espressiva e della sua arte una preghiera laica.
L’estetica improvvisativa di Massimo Urbani costituisce un unicum nel panorama jazzistico europeo, tanto per radicalità quanto per lirismo. Essa si alimentava di una duplice tensione: da un lato l’adesione viscerale ai canoni del be-bop più incandescente, dall’altro un’inquietudine espressiva che lo spingeva oltre l’ordinata logica formale dello stile. Il suo linguaggio solistico si articolava in un flusso continuo, esondante, quasi «anarco-melodico», caratterizzato da una dizione spigolosa e da un uso espressivo dell’intonazione crescente, a tratti volutamente impreciso, come cifra di umanità dolente. Il suo fraseggio era ricco di frammentazioni, accenti irregolari, glissandi improvvisi e slittamenti armonici; una tavolozza affollata in cui il suono sembrava sgorgare come necessità interiore, piuttosto che come risultato di un’elaborazione intellettuale. Il virtuosismo, benché tecnico e acrobatico, mai si manifestava in forma esibizionistica: era strumento di una ricerca febbrile, quasi ossessiva, del significato emotivo della nota. L’improvvisazione, in Urbani, si configura dunque come atto psicofisico, un’esperienza corporea oltre che musicale, in cui il controllo è sacrificato all’autenticità del gesto. Non stupisce che prediligesse i contesti live, dove la struttura poteva disgregarsi a favore di un’urgenza catartica: per lui, ogni assolo era un’interrogazione irriducibile sulla possibilità stessa di comunicare attraverso il suono. Il suo sax non «cantava» nel senso canonico, ma gridava, pregava, rideva e si spezzava, evocando una gamma di affetti che andava dalla trascendenza estatica alla fragilità più commossa. Tale intensità emotiva, riversata in ogni frase, lo pone accanto – più che in scia – ai suoi riferimenti (Parker, Dolphy, Ayler e Coltrane), ma con un’inquietudine italica che rendeva la sua voce istantaneamente riconoscibile.
L’ascesa di urbani fu rapida quanto deflagrante: nel 1972, appena quindicenne, fu accolto nel gruppo di Mario Schiano e successivamente gravitò attorno alla scena romana più effervescente, lambendo esperienze d’avanguardia e collaborazioni di respiro internazionale. Nonostante le tensioni estetiche con mentori come Giorgio Gaslini, le sue apparizioni nei circuiti ufficiali – dal Festival di Bergamo al sodalizio con Enrico Rava – consolidarono l’impressione di trovarsi di fronte a una rarità assoluta: un talento non addestrato, ma rivelato. Urbani fu musicista «inegregiabile», nella doppia accezione di eccellenza (egregio ed ineguagliabile) e di indocilità, oscillante tra pulsioni opposte: da un lato, l’intima adesione alla retorica fulminea del be-bop, dall’altro, la fascinazione per la rarefazione modale alla Coltrane. Entrambe le tensioni furono da lui abitate con furia e delicatezza, in un continuum estetico che non conosceva compromessi, ma solo la necessità ineluttabile di esistere nella musica. Urbani incise dischi fondamentali per etichette come Horo e Red Records, ma fu nei live, spesso mal registrati o pubblicati postumi, che si riversò la sua verità più radicale: un linguaggio liquido, sinaptico, ora liturgico ora delirante, votato all’estasi e all’abbandono. Le collaborazioni con figure come Pieranunzi, Chet Baker, Franco D’Andrea, e Salis, testimoniano della sua eclettica capacità di attraversare contesti sonori senza mai diluire la propria identità.
Nei suoi ultimi anni, Massimo Urbani si muove con sempre maggiore disinvoltura su quella linea di demarcazione sottile e spesso instabile tra forma compositiva e gesto entropico. Dischi come The Blessing (1993) o Round About Max with Strings (1991) non rappresentano soltanto un momento di bilancio, ma la manifestazione più compiuta della sua dialettica interiore: l’urgenza di possedere la forma e insieme di oltrepassarla. Nel primo, l’omaggio alla tradizione, «Blues for Bird», per solo sax contralto, assume caratteri quasi rituali: non si tratta di un’esecuzione, bensì di un esorcismo sonoro. Le strutture armoniche appaiono come trampolini evanescenti da cui Urbani si lancia in una narrazione di puro respiro. Il secondo disco, con archi aggiunti e raffinati arrangiamenti, parrebbe ammiccare a modelli classici, ma la voce del sax li disgrega continuamente, imponendo alla linearità un’irregolarità febbrile, pungente, persino eversiva. In queste opere tardo-periodali, la dissoluzione non è mancanza di controllo, ma conquista di un linguaggio personale in cui la grammatica cede il passo alla sintassi dell’anima. La forma musicale esiste, ma solo come eco remota, volontariamente incrinata. In tal senso, la sua parabola ricorda più un rituale dionisiaco che un compendio scolastico.
Confrontando la voce di Urbani con altri protagonisti della scena europea, come Jan Garbarek, Willem Breuker, John Surman o Evan Parker, emergono tratti distintivi tanto sul piano timbrico quanto su quello idiomatico: Garbarek, con il suo lirismo glaciale e introspettivo, privilegia l’essenzialità del suono e il controllo delle risonanze spaziali; Surman esplora ambiti cameristici e strutture polimorfe; Willern Breuker mette in campo un’ironia dadaista e centrifuga; Evan Parker, forse il più radicale, lavora sulla microimprovvisazione e sulla sovrapposizione circolare di pattern. Urbani, al contrario, si colloca in una dimensione viscerale, torrenziale nel flusso sonoro, drammatica nella retorica, e costantemente in tensione tra classicità e scomposizione. Dove gli altri europei astraggono o frammentano, Urbani incendia: il suo sax non si presta a geometrie, ma alla deflagrazione emotiva. Non cerca la purezza timbrica, bensì l’urlo primordiale e la confessione irripetibile. In definitiva, se molti dei suoi contemporanei europei hanno elaborano un lessico improvvisativo che si nutre di distillazione, Urbani era fuoco greggio, passione nella sua forma più ruvida ed autentica.
Propedeutica ad una migliore comprensione della diversa genialità urbaniana potrebbe essere questa nostra breve ma strutturata analisi comparativa tra «Via G.T.» di Massimo Urbani (1986) e «Consequence» di Jan Garbarek (1982), ampliando la prospettiva anche ad alcune produzioni coeve di Louis Sclavis, come «Clarinettes» (1985) e «Chine» (1987), per delineare con precisione la posizione estetica di Urbani nel contesto del jazz europeo di quegli anni. «Via G.T.», album a nome di Giovanni Tommaso, ma costruito attorno alla voce perforante di Urbani, è un esempio eminente di be-bop mediterraneo, in cui la componente lirica si salda con quella viscerale. Il fraseggio di Urbani è debordante, liquido, interamente focalizzato sull’espressività timbrica e sulla spinta emotiva dell’assolo. In «Consequence», Garbarek opta per una postura totalmente diversa: la forma è austera, quasi ascetica. Il sax si distende in linee lunghe, rarefatte, quasi minimaliste, con un timbro etereo e cristallino, spesso incastonato in architetture armoniche dilatate e contemplative. La componente nordica è riflessa tanto nel paesaggio sonoro quanto nell’uso espressivo del silenzio come spazio narrativo. Sclavis, invece, si colloca in una posizione intermediaria, ma fortemente sperimentale. I suoi lavori giocano con la decostruzione linguistica: frammentazioni tematiche, metriche irregolari, strumenti atipici. Il suo approccio al clarinetto (basso, in particolare) è fatto di rugosità timbriche e tensioni strutturali, con un linguaggio che rasenta il teatro sonoro. Per contro, Urbani incarna una visione quasi tragica dell’improvvisazione, intesa come atto di salvezza e deflagrazione. In «Via G.T.», le strutture armoniche (pur raffinate grazie all’apporto di Tommaso) sono spesso superate da un flusso di coscienza musicale in cui il sax grida la propria urgenza espressiva. L’improvvisazione è simile ad un’esondazione. Garbarek in «Consequence», al contrario, fa della sottrazione il suo centro estetico: l’improvvisazione è contemplazione e misura, non affondo passionale ed il sax non attraversa le strutture, ma le riverbera.
Sclavis si pone in una dimensione ancora diversa: l’improvvisazione diventa laboratorio. In «Clarinettes», per esempio, l’interazione tra scrittura e gesto improvvisativo si fa ambigua, spesso fondata su microgesti, multifonici e timbriche estese che agiscono come linguaggio a sé stante. «Via G.T.» è un album che ribadisce l’appartenenza di Urbani al corpo vivo del jazz afro-americano, non come semplice epigono, ma come interprete profondo di un lessico trasposto in chiave «meridionale», italiana, quasi meridiana. In lui non v’è distanza culturale, ma assimilazione mistica. Garbarek e Sclavis, invece, pur operando all’interno del jazz, ne reinventano le coordinate: il primo sublima la melodia in canto nordico; il secondo decostruisce e fonde idiomi diversi (free, contemporanea, folklore). Urbani non «reinventa», ma intensifica, esaspera, brucia. Nel confronto fra questi tre poli espressivi si evidenzia il paradosso della voce di Urbani: profondamente radicata nella tradizione americana e nel linguaggio bop, essa risuona però con un’intensità tanto personale da risultare inassimilabile, persino anticlassica nel contesto europeo. «Via G.T.» non è un’opera di sintesi, ma di testimonianza incandescente, un frammento aurorale che si distingue tanto più quanto più si confronta con la geometria di Garbarek o il costruttivismo di Sclavis.
La tossicodipendenza, parallela alla sua parabola musicale sin dai primi anni, minò l’affidabilità del sassofonista, ma alimentò – con cupa simmetria – la narrazione romantica del genio maledetto. Urbani morì il 24 giugno 1993, all’età di trentasei anni, consumato da un’esistenza tanto breve quanto tellurica. A perpetuarne la memoria non solo il Premio che porta il suo nome, istituito a Urbisaglia, ma una crescente riflessione critica che riconosce in Urbani non una semplice cometa, bensì una costellazione interiore ancora da decifrare. La sua voce – irregolare, impetuosa e profetica – permane, come le cose eterne, nei solchi del vinile e nella mente di chi ancora sa ascoltare con l’anima.
