Francesco De Gregori, il trucco e la verità: anatomia di «Rimmel» cinquant’anni dopo

Francesco De Gregori
Oggi «Rimmel» non è solo un disco: è un classico. Ma è soprattutto una forma aperta, capace di parlare ancora, diversamente, a ogni ascoltatore. La sua modernità non è nelle parole che usa, ma in quelle che sottrae
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nel gennaio del 1975, mentre l’Italia era attraversata da tensioni ideologiche e promesse irrisolte, Francesco De Gregori registrava in solitudine un disco che avrebbe cambiato per sempre la canzone d’autore: «Rimmel». Cinquant’anni dopo, quel lavoro resta un punto fermo nella narrazione musicale e civile del Paese. La domanda sorge spontanea: «Ma cosa rimane oggi tra le sue pagine, chiare e scure?»
Lo Studio A della RCA, lungo la Tiburtina, diventa rifugio silenzioso. De Gregori incide tutto da solo, senza testimoni, senza commenti. Una scelta estetica, quasi monastica. Il risultato? Nove canzoni, ventinove minuti, e la trasformazione di un cantautore promettente in simbolo di una nuova stagione espressiva. «Rimmel» rimane in classifica per sessanta settimane, vendendo oltre mezzo milione di copie. Mezzo secolo dopo, è evidente quanto «Rimmel» abbia incarnato una svolta epocale. La critica ideologizzata dell’epoca, come quella di Giaime Pintor, si mostra oggi datata, «ultimo spasmo della critica post-sessantottina». Al contrario, il disco di De Gregori era già allora un oggetto moderno, postmoderno, innovativo, introducendo per la prima volta nella canzone italiana il concetto di trasfigurazione: piccoli film senza trama lineare, che risuonano in un «enigmatico altrove». De Gregori scrive canzoni d’amore senza le parole dell’amore, con una lingua spregiudicata e una metrica visionaria. È una sintesi personalissima tra Dylan ed Elton John, segnando la definitiva mutazione del «menestrello del Folkstudio» in Principe.
È nella title track che questa disillusione lirica si fa manifesto. «Rimmel» è un commiato stracciato e consapevole, che rifiuta il sentimentalismo per rifugiarsi nella cronaca interiore. Non c’è consolazione, solo sarcasmo e immagini affilate: la «dolce venere di rimmel», il collo di pelliccia, il trucco che incornicia la vanità. La voce narra un addio attraverso frammenti, come fotogrammi sfocati, e la musica – tra Hammond e chitarre acustiche – avvolge tutto in un folk notturno alla Dylan. E poi «Buonanotte Fiorellino», dolce in apparenza, ma intrisa di malinconia. Dietro il valzer musette si nasconde un’altra fine, ancora una volta raccontata per sottrazione, per immagini dissonanti. Una delle canzoni più fraintese di De Gregori, che il cantautore continuerà a reinterpretare in mille modi, come per liberarsene e possederla al contempo. La critica dell’epoca non comprende. «Buonanotte Fiorellino» è accusata di sdolcinatezza, «Rimmel» di disimpegno. Ma quella apparente leggerezza è, in verità, una scelta politica: resistere alla retorica militante con la forza del linguaggio poetico. De Gregori rifiuta la militanza imposta, e proprio per questo sarà processato dal pubblico. Il 2 aprile 1976, al Palalido di Milano, il pubblico lo accusa: «Quanto hai preso stasera?». L’artista, spiazzato, risponde sussurrando. Seguiranno anni di silenzio, un addio alle scene, ma da quel trauma nascerà il mito. «Rimmel», nel frattempo, continua a vivere, a ispirare, mentre De Gregori diventa il simbolo di una canzone civile che non ha bisogno di slogan.
RIMMEL, SOLCO PER SOLCO
«Rimmel» è la canzone-titolo, manifesto e labirinto. L’incipit è già aforisma nazionale: «E qualcosa rimane, fra le pagine chiare e le pagine scure». Ma quello che segue non è un diario, è un mosaico. Il lessico dell’abbandono è riscritto attraverso metafore di truffa e sortilegio: «Chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente, ma uno zingaro è un trucco». Testo ellittico, volutamente non narrativo. La musica è costruita su un tappeto pianistico dylaniano, armonicamente fluttuante. Chitarre acustiche, Hammond e cori femminili sostengono un canto lirico ma affilato, immerso in un folk chiaroscurale. «Pezzi di vetro» è un brano di scomposizione e trauma. Le immagini – il vetro, l’insonnia, i demoni notturni – si susseguono senza linearità, in un flusso simbolista. È forse il pezzo più ermetico del disco, riflesso di un soggetto fratturato. L’accompagnamento musicale rispecchia questa precarietà: arpeggi di chitarra in fingerpicking, ritmica assente, vocalità trattenuta. Non c’è sviluppo melodico tradizionale, ma un lento collasso emotivo. In «Buonanotte fiorellino», Dietro l’aspetto da ninnananna da Baci Perugina, si cela un racconto amarissimo, una ballata notturna segnata da nostalgia e straniamento. Il lessico infantile («monetina», «uccellini», «fiorellino») convive con immagini di abbandono e ineluttabilità. Il valzer è quello del disinganno. Ispirata a «Winterlude» di Dylan, la ballata è costruita su tre quarti morbidi, con fisarmonica e piano, tonalità pastello e ombre improvvise. Una tra le canzoni più fraintese della sua carriera: apparentemente «leggera», ma dolente in profondità. Dylan è presente come ombra ispiratrice, ma il tocco è tutto italiano, elegante e anti-retorico. «Pablo» rappresenta una cronaca civile. Scritto con Lucio Dalla, il testo è asciutto e commosso, e racconta il destino di un emigrato spagnolo morto sul lavoro in Svizzera. Non c’è retorica, ma empatia narrativa. La musica accompagna la marcia del destino con impianto folk, ritmo costante, accenti acustici. La voce è piana, quasi narrante, al servizio del racconto. Qui De Gregori rinuncia all’allusione: si fa cronista.
«Le storie di ieri» è una riflessione storica sul fascismo e sull’Italia post-bellica, con domande implicite sull’eredità politica e morale. Scritta per De André, è il brano più didattico del disco, ma anche il più ambiguo: «La storia non si fa con i se…» è monito e resa. L’arrangiamento è sobrio, quasi cameristico: il testo guida la composizione, la voce è ferma. Nella versione di De Gregori il brano si carica di una gravità trattenuta, quasi esegetica. «Piccola mela» si sostanzia come una commovente epifania affettiva, dedicata forse ad una figlia, forse a un amore ideale. Il testo è fatto di tenerezza e di pudore. Nessuna dichiarazione esplicita, solo immagini di protezione, stupore, vicinanza. Musicalmente, la canzone si veste di armonie leggere, quasi sussurrate. Il canto sfiora il recitativo, accompagnato da chitarre leggere e qualche tocco pianistico. La poesia del non detto. «Piano bar» è il ritratto ironico e malinconico di una deriva sentimentale. Il bar non è luogo di evasione, ma prigione della ripetizione. Una dedica criptica (forse a Venditti), ma soprattutto un autoritratto generazionale. L’arrangiamento è raffinato: il piano guida l’andatura, i fiati sono accennati, la voce si muove disillusa. Jazzata e crepuscolare, è la canzone più «cinematografica» del lotto. «Il signor Hood» si basa su un’allegoria ribelle ed irriverente, una satira politica in forma di ballata medievale. Dedicata a Marco Pannella, gioca con l’epica popolare per raccontare l’assurdità delle istituzioni. Robin Hood diventa un antieroe grottesco, e la fiaba si trasforma in critica sociale. Il testo è provocatorio e surreale, una parabola «anti-autoritaria» mascherata da filastrocca. Struttura marciante, ritmo sostenuto, strumenti acustici e voce da cantastorie. Un divertissement amaro, quasi da cabaret anarchico. «Quattro cani» suggella l’album in maniera onirica e disarmante. Quattro cani che vagano diventano emblemi di libertà solitaria, marginalità, sopravvivenza. È un epilogo leggero in apparenza, ma profondamente poetico. Musica ciclica, asciutta, con un groove sottile e armonie semplici. Una parabola finale in forma di filastrocca per adulti che si chiude con un sorriso venato d’inquietudine.
Oggi Rimmel non è solo un disco: è un classico. Ma è soprattutto una forma aperta, capace di parlare ancora, diversamente, ad ogni ascoltatore. La sua modernità non è nelle parole che usa, ma in quelle che sottrae. È il racconto di un’epoca che non voleva essere raccontata, e proprio per questo continua a raccontarci qualcosa di nuovo.
