Keith Jarrett con «The Old Country», registrati dal vivo al Deer Head Inn (ECM, 1992)

1.90.0-T5SP2JCVY5PCGRDUUDYO7MOFJI.0.1-8
Keith Jarrett è un nome su cui tutti concordano, poco divisivo, anzi oserei dire per niente divisivo, ma la casa che produce questo disco l’ECM, con il perfido (si fa per dire) Manfred Eicher alla guida, è altamente divisiva.
// di Marcello Marinelli //
Fedele alla rivista Musica Jazz, di cui compro interrottamente i numeri dal lontano 1977, il primo amore non si scorda mai, decido di abbonarmi e scelgo tra gli album in regalo questo disco di Keith Jarrett, con cui si va sempre a botta sicura. Sono passati tanti anni da allora, dopo aver pensato, in talune circostanze che il jazz fosse morto, mi ritrovo a parlarne pensando che non morirà mai, forse si reincarnerà sotto mentite spoglie e saranno tempi duri per quelli che non scorgeranno il jazz reincarnato.
Era il lontano 1992 anno nefasto per le vicende italiche perché la mafia fa saltare in aria a Capaci in Sicilia Giovanni Falcone, ma per l’alternanza tra le cose positive e quelle negative, quello stesso anno, in un altro continente, qualche mese dopo, il pianista suona in questo locale a me sconosciuto. La musica serve, tra le altre cose, a metabolizzare il negativo che le vicende umane offrono, a rendere tollerabile quello che l’umanità nella sua versione balorda esprime. Il locale, il Deer Head Inn, dove è stato registrato questo disco, è la prima volta che lo sento nominare, dove cavolo starà, della serie non si può sapere tutto e vado a indagare. Si trova in Pennsylvania, Delaware Water Gap è un comune (borough) degli Stati Uniti d’America, nella contea di Monroe. La mente vola e tra le associazioni libere si va a posare su una vecchia canzone di Guccini “La strada dalla Pennsylvania Station sembrava attraversasse il continente come se non tornasse più all’indietro, ma andasse sempre avanti ad occidente”. È il locale dove il grande pianista ha avuto il suo primo ingaggio, quindi un dolce ritorno a casa, da dove tutto era partito. Il mondo dei miei amici jazzofili è particolare, un mondo di nicchia ma ci si accapiglia per un nonnulla o per presunte grandi questioni teoriche o pratiche. Seguo interessato il dibattito, a volte divertito, altre sconcertato per le posizioni che il dibattito assume in certe suo forme. Keith Jarrett è un nome su cui tutti concordano, poco divisivo, anzi oserei dire per niente divisivo, ma la casa che produce questo disco l’ECM, con il perfido (si fa per dire) Manfred Eicher alla guida, è altamente divisiva. Se fosse vero come qualcuno sostiene, per me a torto, che sia espressione del nulla cosmico (esagerando un pochino) e della élite borghese occidentale: io sono una prova provata del contrario, come cantavano i Vianella “Semo gente de borgata” o forse sono l’eccezione che conferma la regola. Certo questa premessa non serviva se il disco l’avesse prodotto la Blue Note ma tant’è, che c’è del marcio in Danimarca, pardon in Germania.
«Everything I love»è il primo brano in scaletta, un classico di Cole Porter. Si parte subito col botto e si sottoscrive subito il CID perché siamo tutti assicurati. Subito la testa comincia a ciondolare per accompagnare da ascoltatore il ritmo canonico del jazz senza se e senza ma (chissà chi avrà coniato questa frase per primo, «Senza se e senza ma», forse comincio ad abusarne). Il trio è composto da leader, dal fidato Gary Peacock al contrabbasso e da Paul Motian alla batteria che non è un semplice sostituto di Jack DeJohnette, ma molto di più. Una vecchia conoscenza del leader per aver fatto parte di un altro stratosferico trio di Jarrett, quello con Charlie Haden al contrabbasso e per aver fatto parte del celebre quartetto americano con l’aggiunta di Dewey Redman al sax tenore, e per aver partecipato a un altro celebre trio quello con Scott La Faro e Bill Evans, (tanta robba!). Lo swing è incalzante e portentoso e le vocine di Jarrett che accompagnano il suo tocco magistrale al piano non mettono inquietudine, anzi avvallano la maestosità della musica, fuori contesto potrebbero spaventare, qui rassicurano. Dopo uno splendido assolo del leader e di Peacock e uno scambio di battute finali con Motian, il pezzo si conclude in bellezza come era iniziato. Come non sottoscrivere che la musica è una parte integrante di «tutto ciò che amo», (Everything I love). «I Fall In Love Too Easily», celebre canzone di Jule Styne e Sammy Cahn, è una ballad e Jarrett sprigiona tutto il suo lirismo assecondato dai compagni di viaggio. Il pubblico del locale ascolta in religioso silenzio e anch’io mi calo nella parte del religioso silenzio, quando religioso è bello. Qui Jarrett si produce in un assolo efficace e tira fuori una delle sue prerogative, le cosiddette note a grappolo, raddoppia e triplica il tempo per poi rallentare, amo quando usa le note a grappolo che fanno bene all’anima mentre le bombe a grappolo uccidono: l’ambivalenza del termine «a grappolo».
«Straight no Chaser». Non poteva mancare un omaggio al grande Thelonious Monk, l’autore di questo pezzo. Anche qui il trio prosegue il cammino martellante dello swing del piano trio con Peacock e Motian che si ritagliano spazi significativi, ritornano le vocine del pianista che si dà la carica con la voce, estensione fisica delle mani, qualcosa deve uscire anche dalla bocca, forse Jarrett è un cantante mancato. Tra le pieghe del brano avverto, non so se a torto o a ragione, reminiscenze di Lennie Tristano. È il mio subconscio che parla, potrei dire inesattezze, ma d’altronde al subconscio non si comanda. Il pubblico della Pennsylvania apprezza e applaude. «All Of You», altro standard di Cole Porter, inizia con il solo piano di Jarrett che fa faville e fa anche scintille immaginarie sui solchi di questo CD. Quanta inventiva e quanto feeling esprimono questa musica e questo trio delle meraviglie. Gary Peacock si alterna agli assoli con Jarrett e la musica va. «Someday My Prince Will Come», altro standard di Larry Morey e da Frank Churchill, venne resa famosa dall’essere stata la colonna sonora del film di Walt Disney Biancaneve e i sette nani. La grandezza dei musicisti jazz è quella di utilizzare la melodia e la struttura armonica di canzoni popolari per esprimere il talento improvvisativo. In questo Keith Jarrett, al pari di altri grandi musicisti, è un maestro di rielaborazione e di svisceramento di una struttura armonica che è risucchiata, rivisitata e vivisezionata. Alla fine dell’esecuzione, con un tocco di magia, viene estratto un coniglio, non da un cilindro, ma dalla cassa di un pianoforte a coda per avvalorare la grandezza dell’interpretazione: il principe è arrivato.
«The Old Country», il brano che dà il titolo al disco, è un pezzo di Nat Adderley, fratello del grande Cannonball. «Il vecchio paese» mantiene le promesse e il vecchio swing si fa eterno, nei secoli dei secoli, forever and ever. Con «Golden Earrings» continua la carrellata di standard. Suonato mirabilmente, con un’ispirazione fuori dall’ordinario e con le immancabili vocine che fanno da spezie alla progressione melodica armonica del leader e all’accompagnamento sublime di Peacock, il quale si ritaglia un bell’assolo, e di Motian impeccabile nel suo drumming efficace e discreto. «How Long Has This Been Going On?» di George e Ira Gershwin chiude il disco. «Per quanto tempo è andata avanti?» recita il titolo del brano tradotto, è andato avanti per il tempo necessario per esprimere al meglio la musica di questo magnifico trio, in quel lontano 1992, in quel locale della Pennsylvania chiamato Deer Head Inn. Applausi finali del pubblico pagante.
