MPSRecords

Quando Oscar Peterson, nel 1961, si recò a Zurigo per un concerto, Brunner-Schwer lo invitò nella sua dimora, per il primo house-concert nella Foresta Nera. Il canadese rimase talmente impressionato dalla qualità della registrazione del concerto da parte di HGBS («Non mi ero mai sentito così prima…»), tanto da decidere di tornare ogni anno per una nuova sessione.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Per alcuni l’MPS potrebbe sembrare un tesoro nascosto fra gli ombrosi crepuscoli e nella fitta vegetazione della Foresta Nera tedesca. Hans Georg Brunner-Schwer, fondatore dell’MPS, raggiunse presto fama mondiale come creatore della prima etichetta jazz tedesca riservata al jazz, la quale divenne una Mecca per alcune figure di primo piano del jazz mondiale come Oscar Peterson e George Duke, nonché per una serie di giovani talenti europei. Situata a Villingen, nella regione tedesca della Foresta Nera, per circa due decenni l’MPS Records e i suoi studi analogici riscrissero la storia del jazz moderno, grazie ad una tecnica di registrazione di alto livello, ad un particolare posizionamento degli strumenti e dei microfoni, un’estetica ed un sound inconfondibile. Oggi il «suono più perfetto», così veniva indicato all’epoca, prodotto nella Foresta Nera, continua a solleticare la fantasia e le orecchie degli audiofili e degli appassionati di analogico di tutto il mondo.

L’imprenditore Hans Georg Brunner-Schwer (HGBS), co-proprietario dell’azienda elettronica SABA, era un raffinato ingegnere del suono ed un pianista dilettante appassionato di musica jazz, al punto che, nel 1958, decise di allestire una sala di registrazione all’interno di uno spazio situato sopra il soggiorno della sua villa. Lo studio disponeva delle apparecchiature audio più sofisticate disponibili all’epoca. Quando Oscar Peterson, nel 1961, si recò a Zurigo per un concerto, Brunner-Schwer lo invitò nella sua dimora, per il primo house-concert nella Foresta Nera. Il canadese rimase talmente impressionato dalla qualità della registrazione del concerto da parte di HGBS («Non mi ero mai sentito così prima...»), tanto da decidere di tornare ogni anno per una nuova sessione. Nel frattempo, a partire dal 1963, HGBS iniziò a produrre dischi con il marchio SABA che, nel 1968, lasciò per dare vita all’MPS (Musik Produktion Schwarzwald Trans: Black Forest Music Productions). Le registrazioni di Peterson furono le prime ad essere immesse sul mercato come MPS: fortuna volle che il contratto del pianista canadese con la Verve fosse appena scaduto. Furono questi i primi gioielli di un superlativo catalogo che, nel 1982, contava più di 500 album.

Alla fine lo studio si trasferì in un altro edificio all’interno della fabbrica, in Richthofenstrasse, a pochi passi dalla villa di famiglia. HGBS continuò a impegnarsi nella registrazione, tanto che ben presto l’MPS possedeva un caveau con centinaia di registrazioni, piccoli tesori provenienti da ogni angolo d’Europa, studi ed eventi live. Infatti, le riprese non si tennero più solo a Villingen, ma cominciarono ad effluire sessioni realizzate in studio a New York e registrazioni dal vivo, fissate su nastro dal Festival Jazz di Berlino o altri eventi locali. Lo stretto lavoro di squadra, supportato da ingegneri del suono come Willi Fruth e Rolph Donner, garantì un’estetica sonora di alta qualità. Molti nuovi talenti furono introdotti all’interno del roster dell’MPS grazie alla mediazione del Guru del jazz tedesco, Joachim-Ernst Berendt. Nel 1983 Brunner-Schwer cedette la maggior parte dei diritti MPS alla Polygram, per dedicarsi alla sua nuova etichetta, la HGBS Music Production indirizzata essenzialmente alla musica classica. Dopo la morte del fondatore, avvenuta nel 2004, le macchine a nastro di Villingen si fermarono per un breve periodo. Negli ultimi anni, il figlio di Brunner-Schwer, Matthias, da sempre appassionato di jazz, ed il collega Friedhelm Schulz, hanno ridato vita agli studi della Foresta Nera con nuove registrazioni, molte delle quali analogiche.

Dexter Gordon – «A Day in Copenhagen» (MPS, 1969)

Il soggiorno in Europa di Dexter Gordon costituisce una parte non meno importante della sua carriera rispetto a quella consumata sul patrio suolo. Ci sono una serie di album realizzati nel vecchio continente nel corso degli anni ’60 che meriterebbero sicuramente maggiore attenzione. Fra i tanti «A Day in Copenhagen» ha certamente una marcia in più e qualche merito va anche ai sodali che il geniale Dexter scelse per condividere la prima linea: il trombettista giamaicano Dizzy Reece e il trombonista Slide Hampton, quest’ultimo fu anche responsabile degli arrangiamenti. I tre creano una sezione fiati omogenea compatta e circolare, sostenuta da una sezione ritmica che ne segue e ne favorisce il cammino: Kenny Drew al piano, Niels-Henning Orsted Pedersen al basso e Art Taylor alla batteria. Gli assoli, mai prevedibili e ricchi d’inventiva, sono alquanto ispirati, caratterizzando una scelta di brani non banale, sia pure legata al bop classico, ma alquanto hard-driving: sei memorabili tracce tre standard e tre originali a firma Slide Hampton. Per i sostenitori di Gordon i riflettori vanno puntati su «The Shadow Of Your Smile», eseguita in quartetto, da cui scaturisce una superba performance del sassofonista tenore e che da sola vale il prezzo della corsa. Registrato nella capitale danese il 10 marzo 1969 presso il Metronome Studio e finalizzato in Germania, «A Day In Copenhagen» è certamente uno dei migliori album «europei» di Dexter Gordon: eccellente per qualità artistica e sonora come tutte le registrazioni MPS.

Milt Buckner – «Birthday Party For H.G.B.S» ( MPS, 1970)

«Birthday Party For H.G.B.S» è un album del 1970 registrato in Germania, in cui traspare tutta la genialità compositiva ed interpretativa di Milt Buckner. Nella seconda fase della sua carriera l’Europa fu un terreno assai fertile per l’estroso organista-pianista. Con Milt Buckner al piano, anche il bassista J.A. Rettenbacher ed il batterista Kenny Clare alle prese con alcuni componimenti originali ed una manciata di standard. Tenendo conto delle coordinate spazio-temporali di quegli anni e della geo-localizzazione del progetto, registrato in presa diretta e poi editato nel solito studio della Foresta Nera dalla MPS di Villingen, non è che Milt Buckner si curasse troppo di quanto stesse accadendo nel mondo di jazz. Qui, in barba alle avanguardie ed ai movimenti di rottura con la tradizione, sciorina ad imperitura memoria una serie di swing-swing ad alta gradazione e di moduli blues up-tempo, ricreando con un semplice trio l’atmosfera di una big band, sottesa da un filo di ironia ed accompagnata dai soliti urli durante il live act. Sotto le sue mani, i tasti del piano non dormivano mai sonni tranquilli, perfino quando suonava l’organo, ebano e avorio subivano le conseguenze dalla sua furia. L’album è un agitato contenitore di hard-bop senza troppe pause di riflessione. Incursioni veloci e riff reiterati creano uno stato di agitazione permanente, mentre dalla retrovie i due sodali fornisco al belluino Buckner armi e viveri a getto continuo. Come tutti i dischi della MPS l’album risulta di specchiata qualità sonora e la caratteristica è quella di riprodurre il suono caldo dei reel a bobine della BASF, collegata all’etichetta discografica e produttrice dei famosi nastri magnetici. Un disco diretto ed immediato, ideale per i nuovi arrivati al banchetto del jazz e fortemente carico di energia propulsiva, tanto da non far rimpiangere la mancanza di uno strumento a fiato.

Ben Webster & Don Byas – «Ben Webster Meets Don Byas» (MPS, 1973)

Registrato il primo e il due febbraio del 1968 a Villingen / Foresta Nera, in Germania presso l’MPS Tonstudio, l’album uscì solo nel 1973. Quando questo disco venne concepito, la «new thing» era in piena deflagrazione. Il jazz era stato travolto dal ciclone del cambiamento, la sua sintassi veniva stravolta da elementi contaminanti e da additivi sonori di diversa provenienza. Era appunto, l’anno di grazia 1968, quando tutto faceva rima con rivoluzione; eppure Ben Webster e Don Byas, alfieri della tradizione, pur nelle loro diversità timbriche e tonali, distillarono un l’album bebop in purezza, incuranti del fatto che il mondo, dovunque, stesse saltando in aria. Lontani da casa ed in esilio volontario, i due giganti del sax tenore, entrambi all’epoca residenti in Europa in maniera permanente, alimentarono un set incontro-scontro che consegnerà alla storia piccoli e memorabili momenti di jazz mainstream. Gli stili di Ben Webster e Don Byas forniscono un ricca gamma di sfumature sonore, talvolta in netto contrasto, ma non sfuggono all’arte della perfetta mescolanza. Entrambi maestri di blues e di swing, perfettamente consapevoli del gioco delle alternanze, dello scambio e del cambio, della fuga e dell’inseguimento, del botta e risposta, i due si misurano su un fertile terreno bop. L’arte dell’improvvisazione regna sovrana già all’abbrivio con «Blues For Dottie Mae», lo swing ridondante di Webster tende a dominare, anche se le linee taglienti di Byas sfrecciano alla velocità della luce, come lampi di genio da cogliere al volo; il pianoforte di Tete Montoliu, ricco di sangue blues, diventa il sostegno perfetto, come una terza gamba. I ruoli si riequilibrano e s’invertono in «Sunday». Mentre la giostra cavalleresca a colpi di tenore riprende con «Perdido» e continua in «Caravan». Il bassista Peter Trunk introduce «Lullaby To Dottie Mae» di Byas, una rielaborazione disinvolta del classico «Body And Soul», con un assolo a combustione rapida, dove il vecchio Don dimostra di avere ancora riflessi pronti e nervi saldi. Webster segue a ruota, posizionandosi sotto la luce dei riflettori ed ottenendo il pieno possesso di «When Ash Meets Henry», una flessuosa ballata in cui è accompagnato solo dalle riconoscibili linee di basso di Trunk. Perfetto il lavoro del batterista Albert “Tootie” Heath, un ottimo sostegno dalle retrovie. Per un triste gioco del destino, questo LP divenne il canto del cigno per entrambi i sassofonisti: Byas morì un anno prima che venisse pubblicato, ossia nel 1973; mentre Webster si spense l’anno seguente. Un album immediato, senza complicazioni cervellotiche o compiti da svolgere. Soprattutto i neofiti dovrebbe sguazzarci dentro come bimbi in un parco acquatico.

Oscar Peterson Trio – «Great Connection» (MPS, 1974)

«Great Connection», mai titolo fu così azzeccato, infatti questo album sancisce il proficuo incontro tra il pianista Oscar Peterson, il bassista Niels-Henning Ørsted Pedersen e il batterista Louis Hayes. Il pianista appare molto più brillante del solito, quasi illuminato da una luce nuova e sospinto dal basso fortemente presente di Pedersen, in grado di fortificare la struttura melodica dei pezzi, oltre che a garantire un perfetto sostegno ritmico. Siamo negli anni ’70 e presto si aprirà una fase nuova della carriera di Oscar Petersoncon l’etichetta Pablo. Il trio si misura sulla lunghezza di sei standard tra cui «Soft Winds» e «On The Trail», insieme ad una celebre composizione di Peterson, «Wheatland». I risultati ottenuti porteranno Oscar Peterson a chiedere, con una certa frequenza, la collaborazione del geniale Ørsted Pedersen per molte registrazioni. Per uno strano gioco del destino, i loro cognomi, Peterson e Pedersen, in inglese e danese hanno lo stesso significato, ossia figlio di Pietro. La «grande e futura connessione», porterà il pianista ad avere nei suoi album un suono più vivo e moderno, determinato dalla presenza del geniale contrabbassista scandinavo. «Great Connection» fu registrato nel 1974 in Germania presso l’MPS-Studio di Villingen nella Foresta Nera. Come tutti i dischi pubblicati dell’etichetta MPS-BASF la qualità è eccellente e ricorda il suono caldo ed avvolgente dei nastri a bobine.

Lionel Hampton With Milt Buckner – «Alive & Jumping» (MPS, 1977)

Gli album anni ’70 e ’80 della MPS documentano in massima parte eventi live, eppure hanno una qualità d’ascolto superiore a quella di molti dischi registrati in studio. La MPS – come raccontato – fu fondata da Hans Georg Brunner-Schwer a Villingen nel cuore della Foresta Nera. L’abilità tecnica ed il livello delle apparecchiature germaniche usate hanno fatto del suono MPS un punto di riferimento per i cultori dell’analogico. La MPS ha raccontato, specie negli anni ’70 e ’80, la musica dei grandi protagonisti alle giovani generazioni. Musicisti attempati, che non avrebbero ottenuto altra collocazione, trovavano ospitalità presso questa etichetta europea che, a suo modo, ha riscritto la storia del jazz, ricollocandolo spesso nella dimensione live, in cui anziani musicisti danno ai giovani leoni lezioni di jazz e di stile. Lionel Hampton personaggio emblematico, feudatario del jazz pre-bellico, signore assoluto del metallofono, con la complicità di un debordante Milt Buckner piano ed organo, cerca di tenere alte le insegne del casato. In questo frammento di un suo live set, registrato a Villingen in Germania nel maggio del 1977. il vibrafonista tenta un adattamento ai «tempi moderni» accompagnato da Cat Anderson alla tromba, Paul Moen al contralto, Eddie Chamblee al sax tenore, Billi Mackel alla chitarra, Barry Smith al basso e Frank Dunlop alla batteria. Un disco seducente per i nostalgici, che amano i brani compatti contenuti con struttura a canzone e l’immancabile 1-2-3-4 swing. Certamente un album attrattivo ed in pronta consegna per i neofiti alla ricerca del gancio melodico immediato e di qualche brano cantato. In fondo il jazz è anche questo. Forse, per alcuni è solo questo.

0 Condivisioni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *