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Christophe Ylla-Somers

// A cura di Guido Michelone //

Conosciuto in Italia nel 2018 per il volume illustrato Siamo noi la storia, l’autore pubblica in Francia – dove vive e lavora – nell’ottobre 2024 Le son de la révolte. Une histoire politique de la musique noire américaine (letteralmente Il suono della rivolta, Una storia poltica della music nero-americana), cercando di rispondere alla storica domanda su come e perché la musica afroamericana sia inseparabile dalle lotte contro il sistemativo razzismo statunitense. Per farlo Christophe Ylla-Somers parte dal 1619, data dello sbarco dei primi deportati africani nelle colonie inglesi (futuri Stati Uniti) per giungere al recente movimento Black Lives Matter. Classe 1972, con un master alla Sorbona in storia medievale, Christophe Ylla-Somers, da vent’anni propone la propria collezione di vinili originali nelle serate in club parigini quali Baron, Bus Palladiuym, Mellotron, Radio Meuh, spostandosi anche a Bruxelles, Tunisi, New York o a Cannes per il festival del cinema. Nel Le son de la révolte l’autore parte dal presupposto che la musica sia da sempre un potente strumento nella lotta contro le ingiustizie strutturali, testimoniando altresì diverse realtà sociali oltre che celebrare più o meno consapevolmente l’identità nera. Benché invitino alla danza o a comprare i dischi, blues, jazz, soul, funk, hip-hop esprimono soprattutto l’aspirazione al cambiamento sociale; e per esempio Bessie Smith, Nina Simone, Odetta, Marvin Gaye, John Coltrane, Public Enemy sono figure emblematiche della lotta degli afro-americani per uguaglianza, giustizia, dignità.

D In tre parole chi è Christophe Yila-Somers?

R Sono un DJ e uno storico di formazione.

D Il tuo primo ricordo musicale da bambino?

R Dovevo avere circa 5 anni. Uno dei miei cugini, allora quindicenne, era un fan del gruppo Genesis. A quel tempo, ascoltava più e più volte l’album The Lamb Lies Down On Broadway. Doveva essere il 1977… Una sera, a casa dei nostri nonni, lo trovai disteso per terra con un altoparlante premuto su ciascun orecchio. Ho subito amato l’atmosfera della canzone che stava suonando sul giradischi in quel preciso momento. L’ho scoperto solo anni dopo, ma si trattava di Carpet Crawler.

D E i tuoi primi ricordi legati alla musica nera?

Avevo 7 anni. Ho condiviso la mia stanza con mio fratello maggiore. Ogni settimana comprava un 45 giri. Ha attinto dai titoli della hit parade radiofonica di Europe 1. Era il periodo in cui John Lennon era in cima alle classifiche di vendita con la sua canzone Woman. Tra le canzoni in cima alla classifica c’era I Ain’t Gonna Stand For It di Stevie Wonder. Era così diverso e molto più intenso e toccante di qualsiasi cosa avessi sentito prima. Ogni volta che mio fratello ascoltava la hit parade, aspettavo con ansia il momento in cui sarebbe andata in onda, con la speranza che prima o poi la comprasse per poterla ascoltare il più spesso possibile. Sfortunatamente non era uno dei 45 giri scelti e ho dovuto aspettare diversi anni prima di acquistare l’album Hotter Than July su cui troviamo la canzone. Ancora oggi, I Ain’t Gonna Stand For It rimane una delle mie canzoni preferite di Stevie Wonder.

D Come riesci a conciliare la tua attività di esperto di storia medievale con quella di dj ed esperto di musica nera?

R La mia attività principale oggi è quella del DJ, ma sì, dopo la fine dei miei studi universitari, non rinuncio mai alla ricerca storica. Ho lavorato una dozzina d’anni presso la Basilica di Saint-Denis dove ho tenuto conferenze sul periodo medievale del monumento. In seguito ha collaborato alla stesura di due opere per ragazzi con mio suocero, l’autore e illustratore Yvan Pommaux: “Nous, notre histoire”, un bozzetto della storia dell’umanità, e “La Commune” qui si rivolge ai moti parigini della rivoluzione del 1871.

D E per quanto riguarda il tuo libro, come potresti definire la tua attività? Critico, sociologo, storico, politico o altro?

R Il mio approccio è storico. Questa è la formazione che ho seguito.

D Puoi raccontarci brevemente come è nata l’ispirazione del tuo libro ‘musicale’?

R L’idea di scrivere Le Son de la Révolte mi è venuta alla fine del 2016. La storia e la musica hanno avuto un ruolo centrale nella mia vita per più di vent’anni. È stato naturale che unissi le mie due passioni. Senza contare che devo il mio risveglio politico tanto alle canzoni di Marvin Gaye, Curtis Mayfield e Gil Scott-Heron, quanto alla lotta di Angela Davis e a quella dei fondatori di Black Lives Matter.

D Parole come spiritual blues, jazz, soul, r’n’b, funk hanno ancora un significato per te oggi?

R Penso che abbiano un significato storico dovuto al loro ancoraggio al contesto socio-politico che li ha visti nascere, anche se a livello musicale i confini tra questi diversi stili sono e sono sempre stati difficili da tracciare. Niente illustra meglio la loro porosità del caso James Brown. Nel corso della sua lunghissima e prolifica carriera ha composto, eseguito e prodotto brani dir’n’b, gospel, soul, jazz, funk e perfino hip hop.

D E si può parlare di “musica nera europea”? C’è qualcosa per te che progressivamente possa essere definito “jazz francese”, “blues inglese”, “bebop italiano”, ecc.?

R Per me la musica nera europea evoca soprattutto quella dei musicisti delle diaspore caraibiche e africane. Ciò non impedisce in alcun modo che in Europa esistano scene jazz, hip hop o funk. Ognuno di essi ha le sue particolarità a seconda dei paesi, delle regioni, delle città e dell’origine socio-culturale dei musicisti, ma sono tutti ispirati al patrimonio musicale nero americano. Due esempi tra tanti altri: John Lennon amava dire che senza la musica afroamericana i Beatles non avrebbero mai visto la luce, e il French Touch semplicemente non sarebbe potuto esistere senza la house di Detroit.

D Cosa pensi che distingua l’approccio alla musica nera di americani, afro-americani ed europei?

R In generale, tenderei a pensare, come lo storico Nelson George, che “negli Stati Uniti i neri creano e poi vanno avanti. I bianchi documentano e riciclano”. Per quanto riguarda il rapporto tra i musicisti europei e la musica nera americana, non credo di poter rispondere, non avendo fatto alcuna ricerca sulla questione.

D Nei tuoi libri hai sempre scelto un approccio sociologico (marxista?). Perché la critica odierna non è più militante o combattiva come una volta?

R Non credo che la critica sia meno militante o combattiva rispetto al passato. Ciò è dimostrato dalla straordinaria lotta condotta dal 2014 dalle donne nere all’origine del movimento Black Lives Matter. La loro critica, tanto rilevante quanto documentata, al sistema capitalista, razzista e sessista in vigore, così come il loro investimento in questo campo, hanno smosso le linee e risvegliato la coscienza di molti bianchi. Questi ultimi sono quindi infinitamente più numerosi ad aver manifestato nel 2020 per denunciare l’omicidio di George Floyd e la violenza sistematica della polizia contro la comunità nera rispetto ai loro anziani durante Civil Rights. Tuttavia, non dobbiamo minimizzare il fatto che il sistema dominante stesso ha migliorato nel tempo i mezzi di controllo della popolazione. Ciò spiega perché i movimenti che la mettono in discussione sono oggi invisibili

D Perché pensi che non ci sia ancora un Jacques LeGoff che racconti la storia della musica afroamericana?

R Non penso che dovremmo ridurre la ricerca storica a una figura tutelare, sia per il Medioevo europeo che per la musica nera americana. La storia è un’avventura collettiva e, a partire dagli anni Sessanta, lo studio della musica nera americana ha continuato ad arricchirsi e svilupparsi in seguito alla creazione dei Black Studies nelle università degli Stati Uniti. Rickey Vincent, Eileen Southern, Leah Wright Rigueur, Greg Tate e Nelson George sono tutti brillanti ricercatori sull’argomento. La stessa Angela Davis ha svolto un lavoro notevole sulle cantanti blues e già all’inizio del XX secolo l’antropologa Zora Neale Hurston raccoglieva canzoni di varie culture afro-discendenti. Non dimenticheremo inoltre Amiri Baraka e il suo lavoro fondamentale Il popolo del blues. Senza il loro lavoro il mio libro semplicemente non esisterebbe.

D Quali jazzisti – secondo te – hanno evocato, attraverso i suoni, temi sociali, politici, ambientali e filosofici?

R John Coltrane, Charlie Parker, Charles Mingus, Sonny Rollins, Alice Coltrane, Sun Ra, Archie Shepp, Pharoah Sanders. Ce ne sono così tanti…

D Qual è il rapporto tra musica e politica? Vuoi darci un esempio storico e, se possibile, anche attuale?

R Dipende di quale epoca, di quale musica e di quale cultura stiamo parlando. Per quanto riguarda la musica nera americana, è intrinsecamente politicizzata, a causa della sua storia. Uno degli esempi più recenti è sicuramente la canzone Alright di Kendrick Lamar divenuta l’inno del movimento Black Lives Matter.

D Il jazz ha un’ideologia? Dovrebbe essere “politicizzato”? L’album jazz più impegnato o politico che hai ascoltato?

R Storicamente, il jazz era originariamente una musica impegnata e radicale perché non poteva essere altrimenti nell’America dei primi due terzi del XX secolo. Oggi non è più necessariamente così a causa della sua appropriazione da parte della cultura dominante. Per quanto riguarda gli album politicizzati, possiamo citare Attica Blues e Fire Music di Archie Shepp, We Insist Freedom (Now) Suite di Max Roach o Freedom Suite di Sonny Rollins… Ovviamente l’elenco è lungi dall’essere esaustivo.

D Come vivi la musica come DJ? Suoni i dischi di artisti come James Brown, Ray Charles, Aretha Franklyn o Horace Silver, Art Blakey, Jimmy Smith?

R Per i miei mix tendo a privilegiare il soul, il funk, la disco o l’hip-hop piuttosto che il jazz, anche se a volte passo ad esso in certe occasioni. Tutto dipende dal tipo di serata. Ma se ci penso, il jazz è la musica che ascolto soprattutto a casa, da solo o con la famiglia. Sebbene l’album di Coltrane A Love Supreme appaia regolarmente sul giradischi in vinile del soggiorno, non è mai entrato nella mia borsa dei dischi.

D Cosa pensi della situazione attuale in cui si trova oggi la cultura europea (di cui ovviamente lo studio della musica nera fa parte da anni)?

R Ammetto che non so veramente cosa sia la cultura europea. Per me esistono culture europee, ma nessuna cultura europea in quanto tale. Il problema con la cultura in generale è che dal momento in cui viene istituzionalizzata, perde inevitabilmente il suo potenziale rivoluzionario e creativo. E se nell’Europa di oggi la cultura sembra essere l’ultima preoccupazione dei governi in carica (la stragrande maggioranza dei quali tende a diventare di destra e quindi ad adottare una visione della cultura retrograda, mummificata e il più delle volte fantasticata) ciò non significa non impediscono in alcun modo alla creazione musicale di fiorire nelle numerose scene underground. Ad esempio, nella regione parigina dove vivo, esiste una scena jazz caraibica molto prolifica, sebbene sia completamente invisibile ai media dominanti.

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