Charlie

// di Guido Michelone //

Una breve bio del web magazine «N.d.T. La nota del traduttore» informa: “ Marco Bertoli è nato nel 1964 a Milano, dove abita. Ha tradotto dall’inglese e dal francese saggistica e narrativa per Mondadori, Nutrimenti, minimum fax, 66th and 2nd e altri. Scrive di jazz, fra l’altro quotidianamente sul blog «Jazz nel pomeriggio» (pomeriggio-jazz.blogspot.it). A lui vanno ovviamente chiesti ulteriori approfondimenti sulla sua attività nel mondo jazzistico per quanto riguarda i ‘mestieri’ all’attività diretta del suonatore (o musicista). Ed ecco l’intervista esclusiva per ‘Doppio Jazz’-

D In tre parole, chi è Marco Bertoli?

R Un appassionato di musica, un grande appassionato del jazz, un traduttore editoriale. Rispetto a quella nota, di nuovo c’è solo che da anni vivo a Genova.

D Cosa ascoltavi da piccolo, a che età hai scoperto il jazz e attraverso quali musicisti?

R Ascoltavo un po’ quello che capitava; manifestai verso i dieci anni una certa inclinazione verso la musica e così i miei genitori ebbero la buona idea di farmela studiare. Prima del jazz, tuttavia, cioè fin verso i dodici anni, la musica non era un mio interesse preminente. L’incontro avvenne nel 1976 con le cinque audiocassette Mondadori della “Storia del jazz” di Arrigo Polillo, prestatemi da un compagno di scuola, e subito dopo con la lettura appassionata del suo libro e quella regolare di Musica Jazz, di cui molti anni dopo sarei stato collaboratore. Per via di quegli audiolibri, che, alternando narrazione e musica, componevano una storia del jazz dalle origini grosso modo fino agli anni Settanta, esordii nell’ascolto del jazz non in modo casuale, ma secondo un indirizzo storico, potendo farmi subito un’idea del percorso della musica. I primi jazzisti che hanno acceso la mia fantasia, ascoltati in quelle audiocassette o alla radio (le trasmissioni seminotturne di Radiotre e una trasmissione trisettimanale di Franco Fayenz su una radio milanese), sono stati Ellington, Armstrong, Parker, Coltrane e Mingus, e loro anche i primi dischi che ho comperato. Il primo concerto jazz a cui abbia mai assistito, nel 1977, fu di Lee Konitz e Martial Solal, più Giorgio Azzolini e Gilberto Cuppini, al Capolinea di Milano. Vorrei aggiungere un’osservazione che ritengo possa valere per altri appassionati della mia generazione: il jazz per me è stato, in tutti i sensi, la porta sul mondo. È stato ascoltandolo e leggendo libri, articoli, liner notes (le mie prime, stentate letture in inglese) che ho aperto gli occhi sulla storia, la politica, la letteratura, l’estetica, cose che sono state oggetto degli studi di tutta la mia vita. Ti faccio un esempio: in un articolo di Nino De Rose che lessi su Musica Jazz nel 1977 o ’78, De Rose paragonava Conversations with Myself di Bill Evans a Finnegans Wake. Incuriosito, cercai Joyce sull’enciclopedia e poi provai a leggerlo. Avevo tredici anni. Amo e ho studiato la musica classica, seguo con passione l’opera, ma prima di tutte queste cose per me c’è stato il jazz.

D In cosa consiste la tua principale attività nel jazz? Traduttore? Critico? Giornalista? O altro?

R Oggi il jazz lo ascolto e ne scrivo su un mio blog e sulla pagina Facebook “La pagina del jazz”, che amministro insieme con Alberto Arienti Orsenigo, e continuo ad approfondirne lo studio come posso (“accademicamente” ho seguito molti anni fa a Prato i corsi di Stefano Zenni, traendone immenso profitto). Nella mia attività di traduttore mi è capitato sovente, e spero mi ricapiterà, di tradurre libri di argomento jazzistico. Dal 2001 e per una dozzina di anni ho scritto di jazz per la rivista Musica Jazz: saggi, interviste – Ahmad Jamal, Bad Plus, Tom Harrell, Django Bates, altri – , recensioni di dischi, concerti e libri; al principio degli anni Duemila ho collaborato anche con la testata online AllAboutJazz. Dunque non sono più né critico né giornalista. Sono, quando ho fortuna, un traduttore di materie musicali e un appassionato di jazz a cui fa piacere condividere il suo interesse sul web e sui social.

D Possiamo parlare di te come jazz-traduttore o traduttore-jazz?

R Ho colto il senso della tua domanda, anche perché conosco il tuo interesse per le scritture jazzistiche; ma mentre penso che ci siano stati degli scrittori jazz, cioè scrittori il cui stile sia stato ispirato dal jazz o addirittura mimetico del jazz, non penso che si possa essere dei traduttori jazz, a voler essere dei traduttori onesti; anche se ad alcuni miei colleghi la definizione dà fastidio, io sono convinto che la traduzione sia un’attività di servizio (servizio al testo, servizio al lettore) e che quindi non possa lasciare spazio a estri che eccedano i confini del testo stesso.

D Ci racconti anche le tue ‘avventure’ nel riportare dall’inglese all’italiani alcuni testi assai noti?

R Quanto alle avventure… Il lavoro del traduttore, che siede al tavolino, da solo, per uno straordinario numero di ore al giorno, credo sia fra i meno avventurosi al mondo. Ho al massimo qualche aneddoto: traducendo dieci anni fa la biografia di Charlie Parker di Stanley Crouch, Kansas City Lightning, laddove l’Autore usava la parola “Negro”, con l’iniziale maiuscola, così io la volli mantenere nella mia versione, superando (devo dire senza problemi) qualche perplessità dell’editore, che era la minimum fax. Mi domando se oggi avrei vita altrettanto facile. In quell’occasione l’editore mi fornì l’email di Crouch, al quale scrissi due volte per avere dei chiarimenti su certi passi. Non ebbi mai risposta; invece, quando tradussi la ponderosa biografia di Thelonious Monk di Robin Kelley, tenni una corrispondenza utile e gradevole con l’autore, un importante storico dell’UCLA che, devo dire con mia sorpresa, si dimostrò sempre con me molto sollecito e paziente.

D Com’è tradurre un libro di jazz rispetto ad altri testi di saggistica o narrativa?

R Le caratteristiche di un buon traduttore di testi sul jazz o sulla musica in genere sono in primo luogo le stesse che si richiedono a qualunque traduttore editoriale: ottima conoscenza della lingua di partenza e soprattutto di quella di arrivo e delle rispettive letterature, sensibilità alle gradazioni e ai registri linguistici (per questo è indispensabile che un traduttore abbia letto tanto e che abbia anche pratica dell’uso parlato della lingua da cui traduce), “orecchio” nel rendere il testo di partenza privandolo il meno possibile delle sue qualità, cioè comprendendo come le si possa rendere in un’altra lingua conservandone il senso espressivo, e nel massimo rispetto del senso. Di più, come per tutte le traduzioni specialistiche, il traduttore jazzistico dovrà provvedersi di uno strumentario apposito: essere ferrato nell’inglese americano, nel gergo jazzistico, sia musicale sia extramusicale, e, nell’affrontare testi che contengono analisi musicali, essere ferrato anche in teoria musicale, tradizionale e jazzistica, e possibilmente possedere almeno i rudimenti dell’armonia. È necessario, va da sé, che conosca bene la storia del jazz per poter cogliere e rendere allusioni o riferimenti che nel testo possono essere impliciti. Poi, più se ne sa meglio è, com’è vero sempre di ogni cosa. Essendo il jazz così implicato con la cultura e la storia degli Stati Uniti, quelli sono altri ambiti in cui il traduttore non dovrebbe andare sprovvisto. La traduzione di ogni libro fa storia a sé e questo è vero anche dei libri di jazz: per riprendere due esempi fatti sopra, una cosa è stata tradurre la prosa di Kelley, il biografo di Monk, che è uno storico di professione e scrive come spesso gli storici, senza soverchi scrupoli di stile, con una sintassi a volte non chiarissima; un’altra cosa tradurre Crouch, che è uno scrittore, dotato di uno stile personale e che infatti è autore anche di romanzi (uno dei quali, dico il vero, non sono riuscito a leggere fino in fondo).

R Ci sono libri sul jazz che vorresti tradurre (e che ancora non si trovano in italiano? E quali invece tra quelli importanti avresti voluti tradurre tu?

D Sono molti i libri che vorrei vedere tradotti, o da me o da qualcun altro. Ti rispondo con i primi titoli che mi vengono alla mente: The Birth of Bebop di Scott DeVeaux, uno studio fondamentale e innovativo; qualunque dei molti libri di Martin Williams, di Nat Hentoff, di Gary Giddings; Jazz People di Dan Morgenstern; Swing to Bop di Ira Gitler; American Popular Song di Alec Wilder; Cats of Any Color: Jazz Black and White di Gene Lees e Lost Chords di Dick Sudhalter, due libri che affrontano in modo diverso il contributo dei bianchi al jazz; Lush Life, la bellissima biografia di Billy Strayhorn scritta da David Hajdu; Lennie Tristano, His Life in Music di Eunmi Shim o, sempre su Tristano, Jazz Visions di Peter Ind; Saxophone Colossus, l’appena uscita biografia di Sonny Rollins di Aidan Levy; A Power Stronger than Itself, la storia dell’AACM scritta da George Lewis; un’antologia degli articoli di Whitney Balliet, forse il miglior scrittore fra tutti i jazz writer. Sono tutti, o quasi tutti, libri che ho proposto senza esito agli editori, così come per circa vent’anni, prima di stufarmi, ho proposto Straight Life, l’autobiografia di Art Pepper, che non è solo un grande libro di jazz ma una delle grandi autobiografie americane, un libro che oltretutto ha l’appeal di un noir losangelino à la Ellroy. Sembra che negli ultimi anni gli editori italiani abbiano perso interesse nel jazz: so per esempio che finora non si è riusciti a “piazzare” la recentissima autobiografia di Brad Mehldau, che io non ho ancora letto ma che sono certo possa avere mercato in Italia come l’ha trovato altrove, dal momento che Mehldau non è solo un grande musicista, ma uno dei jazzisti più popolari del momento. Tutto questo mi dispiace, soprattutto quando vedo uscire in italiano libri sul jazz a mio giudizio di scarso valore. Libri che avrei voluto tradurre io? La maggior intrapresa editoriale italiana, in ambito di traduzione jazzistica, sono certamente i volumi del Jazz di Gunther Schuller pubblicati dalla EDT negli anni Novanta. Se dicessi che avrei voluto tradurli io sarebbe pura vanità, perché non sarei mai riuscito a fare quello che ha fatto Marcello Piras.

D Hai qualche aneddoto o curiosità sui libri che hai tradotto?

Una curiosità personalissima non riguarda un libro di jazz. Anni fa ho tradotto una biografia di Prince (gli esperti l’hanno giudicata scadente) e mi ero accinto al lavoro con interesse, perché pensavo che, avendo l’occasione, o meglio trovandomi sotto l’obbligo di approfondire la musica di Prince, avrei finalmente capito perché sia da molti considerato un genio. Anche a lavoro fatto e dopo molti ascolti, ho continuato a non capirlo.

D Trovi differenze, a livello di scrittura o linguaggio, nell’approccio fra un critico americano e uno britannico?

Trovo minori differenze fra un americano e un britannico che fra un critico anglofono e un francese o un tedescoo. Istituendo un paragone fra i migliori, perché ci sono critici scadenti anche in USA e UK, direi che i jazz writer statunitensi sono più disinvolti, più inclini a uno stile idiosincratico rispetto ai britannici, e anche più attenti all’aspetto umano dei musicisti di cui trattano. Fra i tanti esempi possibili, si paragoni il libro su Mingus di Brian Prestley, inglese, con quello dell’americano Krin Gabbard.

D E nella saggistica si può parlare di critica jazz italiana rispetto a quella francese, belga, spagnola, tedesca, scandinava?

R Della critica spagnola o scandinava non posso dire niente. La critica francese ha, credo, il primato storico in Europa e ha prodotto, soprattutto in passato, autori notevoli e notevolmente discussi: agli estremi dello spettro, Hugues Panassié e Carles & Comolli, entrambi con forti e opposti connotati ideologici; ma inframmezzati da autori preziosi come Boris Vian, fra gli esempi migliori di scrittore jazz, e André Hodeir, il cui libro Hommes et problémes du jazz, pur superato metodologicamente, ancora merita lettura perché fra i primi ad applicare criteri analitici al jazz. Io oggi seguo poco la critica; spesso anzi mi sono domandato se ancora ve ne sia che meriti il nome, o addirittura se abbia ancora un posto e un senso, come del resto le riviste musicali, in un mondo in cui l’azione grassroots dei social ha cambiato le carte in tavola. Comunque riconosco delle eccellenze, soprattutto in lingua inglese, e sul web io seguo con molto interesse Ethan Iverson, che oltre a essere un eccellente pianista è un jazz writer acutissimo sul suo sito Do the Math, e Marc Myers del blog JazzWax, autore una decina d’anni fa di un’interessante, originale considerazione sociologica del jazz, Why Jazz Happened (a proposito, ecco un altro libro che mi piacerebbe vedere tradotto). Trovo poco significativi autori acclamati, e tradotti anche in italiano, come Ashley Kahn, Nate Chinen, Ted Gioia. In generale la mia impressione è che non sia un buon momento per la critica, non solo nel jazz, non solo nella musica, ma nella letteratura, nel cinema. Non mi chiamo certo fuori: io ho smesso di praticare la critica anni fa anche perché, appunto, non mi pareva proprio che il mondo e i jazzisti in particolare avessero bisogno di un critico come Marco Bertoli.

D Il jazz deve essere affrontato dalla critica, in un’ottica politica, filosofica, ideologica?

R Il jazz, è ovvio, dev’essere affrontato dalla critica in primo luogo in un’ottica musicale. Fatto questo primo passo, imprescindibile se non a costo di disastri, potrà essere esaminato poi nelle ottiche che hai detto e in altre ancora: storica, sociologica, psicologica, spirituale, economica, di genere… Importa che queste ottiche non diventino il classico martello che fa vedere a chi lo brandisce ogni problema come se fosse un chiodo. Ritengo inoltre che oggi una critica valida debba tener conto dei risultati della ricerca musicologica.

D Come vivi il jazz in rapporto al tuo trasferimento da Milano a Genova?

R Genova, che è stata la sede del primo jazz club italiano, che ha un museo del jazz ed è la città di diversi musicisti importanti, oggi ha poco da offrire al jazzofilo, sicuramente molto meno di Milano, la quale oggi offre a sua volta meno di molti anni fa.

D Cosa pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?

R Quello che penso della situazione e del dibattito culturale in Italia forse l’ho espresso qui sopra, dicendo dello stato della critica. Permettimi dunque di limitare la mia risposta al jazz, e già qui mi sembra d’inoltrarmi in acque troppo profonde, perché davanti a tante manifestazioni qualificate “jazz” della contemporaneità io mi trovo sperso, non so per mancanza di strumenti o di buona volontà. Di jazz si parla molto, lo si insegna al Conservatorio, fioriscono dappertutto e in ogni stagione festival e rassegne che hanno il jazz nel nome; ma non mi pare che la cultura jazzistica, l’amore per il jazz, in definitiva il jazz siano più diffusi in Italia ora di anni fa (accetto di buon grado il ruolo del laudator temporis acti, che, in un gioco delle parti, trovo più dignitosa di quella dell’entusiasta a qualsiasi costo dell’esistente). Il fatto è che la parola jazz ricorre spesso, ma spesso come puro pretesto e per altri scopi: la faccio breve e chiudo ricordando, un paio d’anni fa, un bando di concorso per sovvenzioni “con il finanziamento del Ministero della Cultura” che aveva jazz in grande evidenza nel nome; nel presentare il bando, così si esprimevano i responsabili: “Certo, c’è ancora bisogno della schermatura della parola “jazz” (anche se in questi è declinata nel modo più progressista e meno conservativo possibile), molta strada è ancora da percorrere (…)” (sottolineatura mia).

2 thoughts on “Intervista a Marco Bertoli

  1. Non ho capito la cancellazione dei due commenti all’intervista a Bertoli. Erano offensivi, inappropriati o che altro? Non contesto il gesto in sé, visto che il proprietario di un blog pubblica a suo insindacabile giudizio il materiale che ritiene opportuno. Però, fornire un qualche criterio e soprattutto spiegare con due righe al recapito e-mail fornito in sede di inoltro del commento sarebbe motivo di apprezzamento oltre che di correttezza.

    1. E’ probabile che i commenti siano finiti nello spam, accade spesso, purtroppo arrivano migliaia di messaggi e commenti da piattaforme pericolose. In ogni caso, non censuriamo o tagliamo mai i commenti, se attinenti all’articolo o all’intervista, purché non lesivi o offensivi. Potete ripetere in coda a questa risposta i due precedenti commenti, scusandoci per quanto accaduto.

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