Vinile sul Divano: dilatazioni spazio-temporali

// di Gianluca Giorgi //
Duke Ellington, Masterpieces By Ellington (1951 ristampa mono Pure Pleasure 2017)
Masterpieces di Duke Ellington è uno degli album più emblematici realizzati in quel brevissimo lasso di tempo che vide l’industria del disco raggiungere due dei traguardi più importanti della sua storia, vale a dire l’introduzione del nastro magnetico e il lancio del disco a 33 giri, passato alla storia con il nome di long playing (LP). Con questo disco Duke Ellington fu catapultato nell’era dell’LP e il Duca sfruttò benissimo questa occasione. Il grande compositore-arrangiatore-pianista e la sua impareggiabile orchestra, infatti, sfruttano appieno le possibilità offerte dalla registrazione su nastro magnetico e dall’ancora nuovo LP a 33 giri per catturare, per la prima volta, arrangiamenti da concerto non tagliati dei loro brani più famosi. Improvvisamente, per la prima volta nella sua carriera, Ellington poté rinunciare alle limitazioni di 3 minuti imposte dalla scarsa durata dei dischi a 78 giri. Ellington e la sua band colsero l’occasione per registrare gli “arrangiamenti integrali da concerto di lunga durata” (oltre 11 minuti) di tre dei loro brani più famosi, “Mood Indigo”, “Sophisticated Lady” con l’evocativa voce di Yvonne Lanauze e “Solitude”, oltre alla nuova vigorosa e sorprendente “The Tattooed Bride”. “Masterpieces” è una rivelazione e un ritorno all’epoca d’oro della registrazione ma è anche il canto del cigno di tre giganti ellintoniani di lunga data: il batterista Sonny Greer, il trombonista Lawrence Brown e il sassofonista contralto Johnny Hodges (questi ultimi due sarebbero poi tornati all’ovile). Un disco veramente speciale che sprigiona ottima musica e tanta storia.
Matthew Halsall, Oneness (2019 3lp)
Oneness triplo vinile di registrazioni d’archivio di profondo spiritual-jazz meditativo in un’edizione deluxe, disegnata da Ian Anderson di The Designer’s Republic. Il titolo dell’album, Oneness, si riferisce alla convinzione di Halsall che il pianeta debba essere condiviso equamente con tutti i suoi abitanti ed è anche il modo di operare nella costruzione della sua musica, in cui tutti i musicisti partecipano in parte uguale. Le registrazioni di Oneness risalgono al 2008 e sono nate in un periodo di sperimentazione di Halsall in cui ha iniziato ad esplorare la musica che avrebbe fornito l’ispirazione per i suoi dischi di spiritual jazz Fletcher Moss Park e When the World Was One e offrono anche un’istantanea della nascita della Gondwana Orchestra di Halsall. Presentano molti musicisti che sarebbero diventati parte fondamentale del percorso musicale di Halsall, come l’arpista Rachel Gladwin, il bassista Gavin Barras e il sassofonista Nat Birchall. Queste registrazioni sono rimaste negli archivi della Gondwana Records per oltre un decennio prima che Halsall ritenesse che fosse il momento giusto per condividerle. Le bellissime composizioni del disco sono tutte costruite attorno a un semplice suono di tanpura, strumento che Halsall ha sentito nell’album “Journey In Satchidananda” di Alice Coltrane. Le sessioni che compongono Oneness riprendono Halsall nel processo di costruzione di un nuovo suono con una nuova band, una specie di esercizio meditativo, in cui musicisti con background diversi, provenienti dalle scene musicali di Manchester, Liverpool e Leeds, interagiscono fra loro con il tanpura drone box che li unisce tutti molto bene. Approfondendo l’ascolto si possono sentire richiami agli Oregon o a i Codona, influenze di McCoy Tyner e la tecnica del pianoforte fluido, atmosfere esotiche grazie all’uso di tabla, sitar, ma ciò che colpisce è la tromba di Halsall con il suo suono morbido e puro.


LLOYD MILLER, Oriental Jazz (1968, ristampa del 2019)
Negli ultimi anni c’è stato un forte ritorno di interesse per Lloyd Miller, come successe con Mulatu Astatke, grazie alla collaborazione con il gruppo degli Heliocentrics. Personaggio non molto conosciuto ma estremamente rilevante per la storia e lo sviluppo del cosiddetto “ethno-jazz”, rare le pubblicazioni e le registrazioni originali. Nato nel 1938 e cresciuto a Glendale, in California, Lloyd Miller ha avuto una delle carriere più insolite di tutto il jazz, già all’età di 12 anni aveva dichiarato l’intenzione di guadagnarsi da vivere come musicista jazz. Scelta questa che creò una relazione tumultuosa con i suoi genitori che alla fine lo avrebbe portato ad un periodo in un ospedale psichiatrico, prima di riunirsi con loro per trasferirsi in Iran, suo padre aveva accettato un lavoro per lo Scià. Le fermate ad Hong Kong, in Giappone e in Pakistan sulla strada per l’Iran hanno permesso a Miller di approfondire altre culture. Miller trascorse un anno in Iran con la sua famiglia, per poi andare in Europa e provare a vivere con la musica jazz. È stato prima in Germania, poi in Svizzera, Svezia e Bruxelles, per poi collaborare ed esibirsi al fianco della leggenda del jazz degli anni ’60 Jef Gilson, avendo la possibilità di sperimentare con la strumentazione esotica prima di tornare in America per riprendere i suoi studi alla Brigham Young University nello Utah. Nella concezione di Miller la musica per avere valore doveva avere una profonda connessione con una tradizione, specificamente il jazz doveva collegarsi alla tradizione africana. La svolta artistica di Miller avviene nel 1968 con la pubblicazione dell’album Oriental Jazz. Il disco, originariamente stampato in una quantità di 300 copie, cercava di combinare uno stile cool e modale con le gamme esotiche di strumenti e stili che Miller aveva raccolto durante i suoi viaggi, infatti, oltre agli strumenti del classico jazz combo, troviamo molti strumenti etnici, brani ed arrangiamenti della tradizione etnica. Nonostante l’avversione di Lloyd alla modernità, c’è qualcosa di sorprendentemente nuovo in questa musica, che si inserisce in sorprendenti giustapposizioni, con tracce di Bill Evans, Stan Getz e Jimmy Giuffre che si incontrano con il santur persiano, l’oud arabo e la musica saz turca. Gran bel disco!
Tumi Mogorosi, Project Elo (2014)
Ascoltando questo album si potrà ritrovare la spiritualità che ha reso gli esperimenti degli anni ’60 i classici amati che sono oggi, ma sorprendentemente, la suite di Tumi non risente solamente dell’influenza dai capolavori di questi grandi dischi. Tumi, nato nel 1987 e già affermato batterista sulla scena di Johannesburg, all’epoca studiava musica all’Università Tshwane di Pretoria, dove divenne amico dei cantanti d’opera che lavoravano nello stesso campus. Quindi, a differenza di alcuni dei suoi coetanei statunitensi, le credenze di Tumi non sono “religiose”. Tumi non appartiene a nessun gruppo religioso. Questo album non è né una messa jazz, né una compilation di pezzi devozionali. Project Elo sta per Project Elohim, le entità angeliche delle scritture spirituali che nella filosofia del batterista sono un simbolo per gli esseri umani realizzati. La spiritualità che l’album trasmette è in sintonia con una visione sincretica e non dogmatica del XXI secolo, infusa di esoterismo. Registrato dal vivo senza sovraincisioni in due giorni da un gruppo di amici, questo album cattura un momento di “Eternità” e ci da un’idea di cosa sia il jazz sudafricano. La musica di Tumi trascende le etichette e gli stili. Splendido jazz spirituale contemporaneo dal Sudafrica.

