Nell’incastro delle opposizioni: «Two Minuettos» di Paolo Fresu e Uri Caine (Tŭk Music)

Questo album, scolpito con la perizia di un intarsiatore fiammingo, è non un manifesto ma un’eredità: da leggere non con le orecchie, ma con l’intelligenza sensibile di chi, nella musica, cerca l’invisibile, come uno spartito aperto sul leggio della storia, che attraversi in filigrana i territori mobili della convergenza tra jazz e musica colta, facendosi narrazione critica e flusso di pensiero.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Nel prisma cangiante del linguaggio musicale, «Two Minuettos» si erge quale emblema raffinato di un dialogo bifronte, sottilmente orchestrato tra la linearità araldica del minuetto classico e la fluidità metamorfica dell’improvvisazione jazzistica. Non v’è traccia, in quest’opera, della consueta dicotomia tra forma e ispirazione: qui si assiste piuttosto a una coalescenza sinergica che pare rievocare gli esercizi di ammirazione di Emil Cioran, ove l’incontro tra due menti generative non produce sintesi, ma tensione creativa perpetua. Fresu e Caine – architetti sonori di provata tempra – non si limitano a spartirsi la scena: la colonizzano con pudore ma determinazione, instaurando quella che potremmo definire una grammatica della reciprocità. È una partitura fatta di pieni e vuoti, di diafani sussurri fiati e diluviali armonie tastieristiche, che trasformano il palco (quello del Teatro dell’Elfo, nella Milano del 2015) in un palinsesto narrativo, in cui ogni brano è capitolo e frammento di un discorso più ampio sull’identità della musica come teatro dell’anima estrinsecato attraverso un perpetuo by-play.
Il termine byplay, mutuato lessicalmente dal teatro, dove indica l’insieme di gesti, sguardi, sottintesi e reazioni non verbali che accadono tra attori mentre un’azione principale si svolge in primo piano, trova nella musica d’ensemble – e nel duo in particolare – una corrispondenza estremamente evocativa. In ambito sonoro, e specialmente nel contesto improvvisativo, il byplay designa quell’insieme di micro-interazioni quasi invisibili, ma decisamente essenziali, che si sviluppano tra due musicisti durante l’esecuzione: respiri sincronizzati, mutamenti agogici sottili, – quegli elementi subliminali che nella musica danno il senso del ritmo (adagio, allegro, andante) – cesure condivise, anticipazioni telepatiche. Non è semplice interplay, ovvero dialogo strutturato e reciproco; è piuttosto un gioco di ombre emotive e cenni sotto voce, un fitto reticolo di indizi performativi che trascendono la partitura. Nel caso di Fresu e Caine, il byplay si manifesta come una danza delle intenzioni, una coreografia intuitiva che non ha bisogno di dichiarazioni formali per farsi comprendere. È una prossemica sonora, una geografia del sottinteso in cui ogni accento, ogni inflessione timbrica suggerisce all’altro una possibilità, un varco, una complicità. Esattamente come accade tra due attori esperti che sanno trasformare una pausa in un lampo drammatico, anche qui i silenzi, i ritardi impercettibili, le inflessioni timbriche diventano veicolo di significato. Se l’interplay è il corpo, il byplay è il respiro. È ciò che consente alla musica di acquisire quella densità comunicativa che la rende non solo arte dei suoni, ma linguaggio incarnato. Una musica che non solo si ascolta, ma si legge negli occhi, si intuisce tra le righe, come la tensione in una pagina di Robert Musil o i chiaroscuri in un dipinto barocco di Rembrandt Harmenszoon van Rijn.
L’incipit con i due minuetti bachiani funge da prologo ed epilogo di un viaggio tutt’altro che lineare: Bach non è qui ornamento filologico, bensì terreno di scavo archeo-jazzistico, affioramento di memorie che si sublimano nella contemporaneità. La tromba di Fresu – strumento che in tale contesto si fa animale ctonio e uccello diurnale al tempo stesso – agisce per osmosi sul pianismo tentacolare di Caine, il quale pare citare idealmente Glenn Gould e Bill Evans, con un tocco che si attarda, indugia, talora scivola come se accarezzasse la memoria dell’ascolto. Nell’alternanza tra repertori e mondi, da Gershwin a Mahler, da Strozzi a Dalla, Fresu e Caine delineano una cartografia sonora affrancata da ogni vincolo di genere: ogni pezzo diventa così un affresco musicale sospeso tra l’archetipo e l’azzardo, tra la nostalgia e la reinvenzione. In «I Love You Porgy», il duetto tocca vette di struggente interiorità, con un Fresu che scolpisce il silenzio e un Caine che lo cesella come un orafo tardo barocco. «Symphony No.1», mahleriana, si trasfigura in danza liquida, mentre la lettura di «Almeno tu nell’universo» riporta la canzone italiana a un’ancestrale dignità emotiva, prossima al lied. Il gusto per la «conflagrazione tonale», direbbe forse Pierre Boulez, si fa costante, eppure mai ridondante. L’arrangiamento de «La Travagliata» è lezione di contrappunto emozionale, mentre «Nature Boy» è un madrigale sospeso tra crepuscolo e aurora, animato da un crescendo pianistico che si spegne, infine, in quieta commozione.
Nel corso del Novecento, il duo jazzistico ha assunto una funzione quasi oracolare all’interno del laboratorio sonoro globale: sede di tensioni dialettiche, di simmetrie imperfette e di metamorfosi linguistiche. Se il jazz ha rappresentato per molti versi l’ultima grande invenzione musicale dell’Occidente moderno, la sua osmosi con la tradizione classica ha costituito, in alcuni casi esemplari, una forma di rifondazione del linguaggio stesso, un’epifania del possibile. Non sorprende, dunque, che due sponde così apparentemente inconciliabili – quella della prassi improvvisativa afro-americana e quella della scrittura notazionale europea – abbiano trovato la loro zona franca proprio nel dialogo cameristico, nel cerchio ristretto di due interpreti, dove ogni nota è al tempo stesso esposizione e ascolto, affermazione e riflessione. Pensiamo, ad esempio, al sodalizio tra Chick Corea e Friedrich Gulda, un duello cortese e scintillante, dove l’architettura viennese si lasciava scalzare, con ironia e rigore, dal flusso iridescente della tastiera jazzistica. La loro complicità, scolpita nei solchi del live The Meeting, è un testamento dell’irriducibilità della musica a compartimenti stagni. Allo stesso modo, le collaborazioni tra John Lewis e Gunther Schuller o tra Bill Evans e Claus Ogerman non furono semplici esperimenti di contaminazione, ma vere e proprie cesure epistemologiche: Symbiosis, nel caso di Evans, è una partitura sinfonica che accoglie il pianoforte come un viandante in cerca di casa, mentre Jazz Abstractions di Lewis e Schuller è un tractatus sul «terzo corso» musicale, tra dodecafonia e swing. Nel panorama europeo, la parabola di Jacques Loussier è esemplare per continuità e audacia: le sue riletture bachiane non sono pastiche né esercizi stilistici, ma momenti di innesto genetico, in cui il contrappunto si piega al gioco della variazione ritmica con la naturalezza di un respiro antico. Eppure, a fronte di tanta esibita sintesi, alcuni duetti scelgono la strada opposta: quella della frizione, della divergenza fertile. È il caso di Uri Caine e Paolo Fresu, in cui il classicismo è materia elastica, memoria da torcere e reinventare, e dove l’arte del byplay – quel gioco sottile, quasi impercettibile, di sguardi sonori e gesti non detti – diventa la grammatica segreta della loro musica. In questo orizzonte si situano anche le sofisticate intese tra Brad Mehldau e Anne Sofie Von Otter, capaci di accostare Schumann a Nick Drake, rilevando nel tessuto emozionale del Lied lo stesso filamento melodico che alimenta il moderno songwriting. In Italia, infine, la congiunzione visionaria tra Stefano Bollani ed Enrico Rava ha costituito un vero teatro dell’imprevisto. In quel dialogo imprevedibile, tra Satie e Nino Rota, jazz e surrealismo, si manifesta l’essenza più autentica della commistione: non una fusione accomodante, ma una continua messa in discussione dei linguaggi.
Che cosa accomuna dunque queste esperienze? Non una semplice «ibridazione», termine ormai abusato e spesso svuotato di senso, ma piuttosto un’etica della porosità. Il duo, ridotto all’osso della relazione, permette a ciascun interprete di esporsi in pieno, di farsi specchio e attrito, risonanza e sfida. È il luogo del rischio, ma anche della grazia: là dove la musica si fa filosofia incarnata, fragile teatro delle possibilità. «Two Minuettos» significa inoltrarsi nel cuore stesso del laboratorio poetico in cui Paolo Fresu e Uri Caine manipolano la materia sonora come se fosse argilla aurale: la timbrica non è qui semplice risultato estetico, ma elemento strutturale del discorso musicale, il volto nascosto attraverso cui la musica pensa sé stessa. Fresu fa della tromba e del flicorno un ventaglio di identità sonore, ora crepuscolari, ora scorticanti. Il suo timbro non è mai uniforme né prono alla levigatezza stilistica: si muove per chiaroscuri, elude la brillantezza per addensarsi in vapori sonori, come se il metallo vibrasse di memorie ancestrali. Fresu suona spesso «di lato», sfruttando armonici obliqui, accenni di «growl» controllato, soffi parziali e sussurri che ricordano la vocalità antica, persino quella del canto liturgico sardo. Nei momenti lirici – si pensi a «I Loves You, Porgy» o «Caruso» – il suono si fa vellutato, impalpabile come seta stropicciata, ma mai manierato. Il timbro si costruisce dunque come un palinsesto di intenzioni, in cui ogni attacco porta con sé una semantica affettiva. Caine, dal canto suo, impiega il pianoforte come fosse un’orchestra miniaturizzata. Il suo gioco timbrico si basa su un contrappunto di densità, sull’alternanza calibrata tra registri e pesi, tra attacchi netti (quasi percussivi, da prepared piano senza preparazione effettiva) e sospensioni eteree. L’estensione dinamica è totale: sa passare da pianissimi filigranati, quasi appena udibili, a forti esplosivi, ma sempre evitando il gigantismo teatrale. Talvolta il tocco assume una qualità liquida, come se le note gocciolassero, affiorando senza gravità; altrove diventa granuloso, sabbioso, in un fraseggio che suggerisce l’eco più che l’enunciazione.
Fresu non si traveste mai da solista sinfonico; al contrario, «corrompe» consapevolmente il timbro per restituire ai brani una contemporaneità vissuta. Caine, invece, si avvale spesso di registri dispari, scegliendo tessiture che sfuggono alla verticalità barocca, preferendo invece slittamenti armonici che sfruttano i pedali per creare chiaroscuri armonici continui. Il sipario si apre con «Minuet in G Minor», traslato dalla classicità bachiana a una dimensione incantata e disallineata, quasi metafisica. Fresu non cita, evoca: il suo flicorno è voce remota che si insinua tra le pieghe del tempo, mentre Caine, con un tocco che è insieme ascetico e febbrile, distilla l’essenza del minuetto trasformandolo da danza galante in liturgia interiore. L’incipit non introduce, ma fonda. Il disco non comincia, è già in corso quando l’ascoltatore vi accede. Segue «I Loves You, Porgy», che s’inabissa subito nei registri della melanconia. Qui il duo si pone in ascolto reciproco, evitando l’autocompiacimento. Caine tesse una trama armonica fatta di trasparenze e dissolvenze, mentre Fresu vi ricama sopra un canto che sembra avanzare su un filo teso sopra il vuoto. È Gershwin spogliato di Broadway, inabissato nei silenzi tra le note. Il paesaggio muta con «Symphony No.1, 3rd Movement» di Mahler: non trascrizione, ma distillazione. Il sinfonismo è ridotto ai suoi gesti primigeni. Il piano danza con leggerezza impalpabile e Fresu, quasi sfiorando l’atonalità, gioca tra pathos e ironia. È un minuetto di marionette, sospeso tra ebbrezza viennese e abisso esistenziale. «Almeno tu nell’universo» è il primo gesto pienamente lirico. Non c’è patetismo ma un’intensità trattenuta: Fresu intona la melodia con pudore, lasciando che l’eco della voce di Mia Martini aleggi tra le pieghe dell’interpretazione. Il brano acquista una verticalità spirituale, come una preghiera laica disegnata sulle braci di un amore assoluto. Poi, l’intarsio affascinante tra «All I Want» e «Give Peace a Chance»: fusione insospettabile eppure necessaria. Mitchell e Lennon si riverberano l’uno nell’altra, in una risonanza barocca che sfugge ogni facile sincretismo. È qui che l’aspetto performativo del tandem si fa più evidente: i due non si rincorrono, ma si attraversano. Con «La Travagliata», il tempo si smargina: siamo in piena aurea barocca, ma deformata dal prisma del jazz. L’antico e il moderno si abbracciano in una spirale elegiaca. Fresu tratteggia il suo canto con intarsi rococò, mentre Caine si muove come un continuo basso ostinato che s’increspa in fugaci sortite. «Sino alla morte mi protesto / L’amante bugiardo» costituisce forse il vertice drammaturgico del disco. Il titolo stesso pare un distico teatrale: e la musica vi aderisce con un incedere dolente, appassionato, quasi un corpo a corpo sonoro. Le linee melodiche si allontanano e si inseguono, come due amanti incatenati a un destino biforcuto. In «Nature Boy», tutto si fa rarefazione. È l’istante in cui l’album trattiene il fiato, non per paura ma per intensità. Fresu scolpisce l’aria; Caine la sostiene con un andamento cullante. La melodia si piega e si distende, come un’antifona perduta nei rami del tempo. Infine, il ritorno ciclico con «Minuet in G Major», specchio variato del brano d’apertura. Come in un sogno ricorsivo, il minuetto si ripresenta, stavolta più solare, come una camera della memoria illuminata da un raggio obliquo. Ma è un rientro solo apparente, perché a sigillare tutto giunge «Caruso», celato come una ghost-track, ma che vibra come un epilogo struggente. Lì la voce mancata è quella di Dalla, ma anche quella dell’Italia, cantata con lo sguardo volto al mare.
In questa progressione di tracce, l’album non si limita a proporre riletture o omaggi: esso racconta un itinerario sonoro che attraversa l’asse del tempo e le nervature della cultura occidentale, offrendo una mappa invisibile della memoria condivisa. Ogni brano è un atto di fede nella capacità del suono di mediare tra mondi separati, una chiamata all’ascolto attento, privo di giudizi, radicato nella cura. Notevole, poi, l’uso dello spazio timbrico nella registrazione stessa. Il mixaggio curato da Stefano Amerio non cerca mai la spettacolarizzazione stereofonica: piuttosto, posiziona gli strumenti in una camera sonora intima, dove ogni sfumatura viene preservata, come se il microfono fosse un orecchio partecipe, non uno strumento invasivo. Le risonanze del pianoforte, ad esempio, sono lasciate libere di espandersi, contribuendo a quel senso di sospensione temporale che pervade l’intero album. In sintesi, la timbrica in «Two Minuettos» non è né orpello né ornamento: è la vera chiave ontologica del progetto. Essa disegna lo spazio interiore dell’ascolto, plasma la forma percepita della musica, e restituisce al duo quella specifica identità che non si lascia etichettare né dal jazz né dalla classica. È una timbrica in stato di tensione, come un tessuto che pulsa sotto il tocco degli interpreti, vivo, organico, incantato. Più che un disco, «Two Minuettos» è un trattato sull’alterità musicale. Esso dimostra che il duo non è una mera riduzione numerica dell’ensemble, ma un laboratorio acustico dove ogni gesto è reso irripetibile dalla sua stessa fragilità. Non a caso, l’interplay si fa byplay, come da acuta osservazione nel testo originario: non più semplice reazione, ma gioco di sguardi e invisibili cenni, come in un film di Kieślowski, dove il non detto plasma la narrazione. In definitiva, Fresu e Caine si attestano non solo interpreti ma demiurghi di un paradigma musicale che rifiuta la classificazione, e che proprio nella contaminazione trova la sua verità più intima. Questo album, scolpito con la perizia di un intarsiatore fiammingo, è non un manifesto ma un’eredità: da leggere non con le orecchie, ma con l’intelligenza sensibile di chi, nella musica, cerca l’invisibile, come uno spartito aperto sul leggio della storia, che attraversi in filigrana i territori mobili della convergenza tra jazz e musica colta, facendosi narrazione critica e flusso di pensiero.
