Van Morrison, il jazz come catalizzatore di emozioni
// di Bounty Miller //
Van Morrison With Georgie Fame & Friends – «How Long Has This Been Going On» (Verve, 1995)
Parlando di Van Morrison si pensa subito ai mitici tempi dei Them, quando la sua voce “nera” e graffiante conquistava le classifiche di mezzo mondo. Naturalmente, vengono subito alla mente album iconici quali «Astral Weeks» o, in epoche successive, «Beautiful Vision». Lavori eseguiti su zone di confine, come «Tell Me Something», hanno probabilmente ricevuto meno attenzione e scarsa considerazione, specie dalla critica. Nello specifico «How Long Has This Been Going On» avrebbe meritato maggiore risalto anche negli ambienti jazzistici. Van Morrison, è sempre stato un musicista dai talenti molteplici, purtroppo etichettato, sic et sempliciter, come musicista rock tout-court. Le sue radici indubbiamente affondano nell’humus di un rock adattivo dalle tante sfaccettature, ma tutti i suoi dischi hanno sempre distillato una discreta dose di blues e jazz. Per tutta la lunga carriera, Morrison ha sempre cercato di integrare il fraseggio e le tecniche del jazz nel suo canto, riuscendovi in modo esemplare. Tuttavia, fino al 1995, non aveva mai dato alle stampe un album jazz nella forma e la sostanza. Il disco in oggetto, pubblicato dalla Verve, già dalla copertina rivela che trattasi di un lavoro che richiama la grande epopea del jazz degli anni Quaranta-Cinquanta. Registrato insieme a Georgie Fame ed un manipolo di «amici», la session evidenzia che, anni prima, Fame aveva già suonato il piano e le tastiere in molti lavori del compositore irlandese pur non essendo mai stato citato nelle note di copertina. «How Long Has This Been Going On» venne ripreso del vivo e fissato su nastro al Ronnie Scott Jazz Club di Londra il 3 maggio 1995. In quei giorni, le critiche all’album furono contrastanti, prevenute ed ingiuste, non riuscendo a mettere d’accordo né i jazzofili e né i rockettari ma, a distanza di quasi trent’anni, se ne può riscoprire il fascino e l’intensità esecutiva: la sola «Moondance», implementa dai fiati, vale il prezzo della corsa; Pee Wee Ellis al sax è un superlativo assoluto: trascinantissimo, caldissimo ed energizzantissimo. Tutte le cover contenute nel microsolco, comprese le composizioni di Morrison, sono arrangiate e proposte in maniera inedita, certamente insolita rispetto alle originali; soprattutto il vecchio Van canta con voce nera e convincente. Tra le chicche dell’album va segnalata, un’insolita versione di «Heathrow Shuffle», che Morrison aveva eseguito al Montreux Jazz Festival del 1974 ed in cui traspare il senso del divertimento e la forte collegialità del line-up. Non siamo di fronte ad una struttura di jazz ortodosso e ligio al vernacolo della musica improvvisata africano-americana, soprattutto per il cantautore irlandese, il swing è un forte catalizzatore di emozioni: Morrison canta spesso come i Blues Brothers (quelli del film), ma «How Long Has This Been Going On» è il classico disco fatto da un outsider che potrebbe avvicinare al jazz molte persone, anche quelle che magari non ne sopportano neppure l’odore.
Van Morrison – «What’s Wrong With The Pictures» (Blue Note, 2007)
In quel periodo vivevo tra Montreal e New York e seguivo la stampa USA: Jim De Rogatis e Greg Kot, critici rock rispettivamente del Chicago Sun Times e del Chicago Tribune, recensirono questo album stroncandolo. I due audaci giornalisti definirono Van Morrison essenzialmente insipido, slavato e piagnucoloso. Grazie ad un amico che lavorava al Post seppi che entrambi i recensori erano due testimonial della Amplifon. In verità, «What’s Wrong With The Pictures», pubblicato dalla Blue Note nell’agosto del 2007 appartiene a quella componente del catalogo morrisoniano votata al jazz. Anni addietro si diceva che Van avesse inventato una sorta di genere para-jazzistico tutto suo e definito Celtic Swing. Come da copione il cantante-compositore irlandese si avvale di una rocciosa sezione fiati. Ad abundantiam diciamo che lo stesso Morrison ogni tanto non disdegna di imbracciare il sassofono che suona discretamente; presente nell’album anche uno dei migliori organisti di sempre al seguito dell’ex-leader dei Them, Richard Dunn, il quale da lucentezza adamantina a molti brani, ma in «Goldfish Bowl» raggiunge il climax tracciando le regole per una modalità del tutto nuova di suonare il piano in ambito soul-jazz. I testi sono mediamente efficaci e pungenti, specie quelli in cui Van se la prende con il mondo della musica («Fame», «Goldfish Bowl», «Get On With The Show, Too Many Myths»); In «The Meaning Of Loneliness» cita finanche Albert Camus, mentre in «Stop Drinking» la sua voce raggiunge vette altissime a livello interpretativo, infine, nella title-track, ridacchia lasciando ad intendere una sorta di intimo divertimento ed una sottile ironia satirica, alla faccia di quanti pensano che il cantautore sia privo di umorismo. In sintesi, parliamo di un album di notevole struttura musicale e letteraria, e al diavolo i critici americani. Basta citare il testo di «Goldfish Bowl» in cui Morrison canta: «i baroni dei giornali sono la feccia del più basso grado / e predano tutti / predano te e me». Purtroppo, Van Morrison non viene più da tempo programmato da quelle che io chiamo “radio aziendali in franchising” ma, fortunatamente, jazz, rock, folk o blues che sia, ha accumulato nel corso di cinquant’anni un zoccolo duro di seguaci che gli tributa onori e gloria a prescindere da quanto sostiene una certa informazione a cottimo.