// di Francesco Cataldo Verrina //

Nella prima metà degli anni ’60, il desiderio d’innovazione in casa Blue Note divenne non tanto un grido di battaglia troppo conclamato o strombazzato, ma una vera e propria esigenza dello spirito. L’idea di innovazione è una manifestazione basata sempre su polarità contrastanti e che si completano a vicenda. In altri termini, le idee lungimiranti e all’avanguardia possono essere apprezzate solo se paragonate a quelle tradizionali. L’idea di innovazione rende «Search For The New Land» ancora più interessante, poiché in contrasto con un capolavoro commerciale come «The Sidewinder», che costituisce l’emblema dell’hard bop in tutto il suo splendore, ma sigillato in un involucro sonoro più conservativo. Per esempio, una qualsivoglia forma di espressione artistica tesa all’innovazione non potrebbe essere apprezzata e compresa pienamente senza un termine di paragone o un punto di riferimento, quale una cornice storico-ambientale preesistente o uno stile precedentemente praticato dall’autore o dai suoi simili.

Ad un certo punto il free jazz sfondò il muro delle convenzioni, ma già dalla metà degli anni ’50 in poi si poteva intuire un desiderio di liberazione leggendo i titoli di alcune composizioni. In precedenza, i musicisti jazz al massimo dedicavano un pezzo ad una donna o ad un collega scomparso, progressivamente cominciarono ad intitolarli alle nuove nazioni africane indipendenti, per decretare i loro sentimenti afro-centrici, oppure a località dell’Estremo Oriente, al fine di sottolineare un crescente interesse per certe filosofie, le problematiche politico-religiose medio-orientali ed i sistemi ritmici latino-americani. «Search For The New Land» potrebbe essere letto come l’inno generico ad una terra ideale; un titolo che, in maniera implicita, si lega ai concetti del movimento di liberazione già presenti in «India» e «Africa» di John Coltrane, mentre la struttura ritmico-armonica aperta tenta di svecchiare il vernacolo jazzistico in maniera radicale come «Ascension» di Coltrane o «Free Jazz» di Ornette Coleman, pur usando concetti e lemmi sonori differenti. Diceva Sun Ra: «Ci sono altri mondi (di cui non vi hanno mai parlato)». A parte il riferimento del Santone ad altre galassie, il jazz di quegli anni tentava di scoprire soprattutto altri universi sonori.

È difficile immaginare un sestetto più coeso ed adatto per il costrutto sonoro di «Search For The New Land»: Lee Morgan tromba, Wayne Shorter sax, Grant Green chitarra, Herbie Hancock piano, Reggie Workman basso e Billy Higgins batteria, i quali misero in scena una delle performance più riuscite della loro carriera. L’album evidenzia, in primis, un’impeccabile sincronizzazione come ensemble, attraverso la caparbia esplorazione di concetti armonici e ritmici senza soluzione di continuità e l’invenzione di frasi melodiche che si riversano come oro colato nei solchi, in ogni momento e in tutte le tracce. «Search For The New Land» fu tenuto in naftalina per due anni. La Blue Note era in cerca d’altro per assecondare i distributori ed i negozi di dischi che chiedevano il follow-up di «The Sidewinder», tentando di reiterare la formula hard bop a presa rapida di Morgan, dando così la precedenza alla pubblicazione di altri due album: «The Rumproller» e «Cornbread», i quali non sortirono comunque l’effetto sperato.

La title-track, nonché brano di apertura, è un’odissea di quindici minuti che viaggia sulla sospensione e imprevedibilità, ma sorretta da un sostanzioso e stabile costrutto armonico, risucchiando continuamente l’ascoltatore in un’atmosfera introspettiva, con paesaggi sonori mutevoli che alimentano la riflessione. Il line-up sembra inizialmente trattenuto come un cavallo che si muove agilmente al passo, ma con le redini corte, progressivamente gli strumenti iniziano a liberarsi dall’imbrigliatura, eseguendo dapprima un piccolo trotto, per poi giungere ad un elegante galoppo: si parte da una vibrazione di basso di Reggie Workman che si fonde al tintinnio dei piatti di Billy Higgins, mentre Herbie Hancock tesse un ordito di trame modali. Tra un assolo e l’altro il tema ritorna al punto di partenza, lasciandosi alle spalle la pulsazione complessiva, come se l’ensemble tentasse di dilatare il tempo e lo spazio. In fondo «Search For The New Land» è imperniato su pochi semplici cambi di accordi, sui quali gli strumentisti improvvisano modalizzando le melodie, mentre l’arrangiamento a maglie larghe fornisce loro la licenza di esplorare in maniera radicale. Ad esempio, il chitarrista Grant Green si sofferma su piccole figure e le ripete ossessivamente e, quando enuncia il tema principale, si allontana dalle sue note come se fosse alla ricerca di un altrove. Le soluzioni musicali proposte, se pur coperte da una patina di hard bop tradizionale, presentano una fioritura di elementi più evoluti e di trame più ricche di dettagli. L’incedere quasi divertito di «The Joker», l’aura afro-cubana di «Mr. Kenyatta», il nostalgismo cinematografico di «Melancholee» e lo spirito avventuroso di «Morgan The Pirate» nascono tutti da una forma di emotività più cruda e diretta, quasi alternativa alla prosopopea tipica dell’hard bop, sempre molto ludico, trionfale ed autocelebrativo. Morgan ed il suo ensemble tentano di lasciarsi alle spalle i cambi di accordo e la melodia con la stessa determinazione dei propugnatori del free jazz. La «nuova terra» che creano diventa un enclave democratica, dove ciascuno ha diritto di parola e nessuno resta ingabbiato nei limiti del tempo e dello spazio, ma il ruolo di ogni strumento è fluido e costantemente in lizza.

A quel tempo Lee Morgan era il più incensato trombettista dell’era post-davisiana, ma la sua esistenza ed il suo operato avevano brutalmente deragliato sul binario della droga. Per far fronte alle proprie esigenze il trombettista, tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’60, si guadagnava da vivere registrando a getto continuo, anche come sideman. Si racconta che sbattendosi da una sessione all’altra, spesso dimenticava gli spartiti sul sedile di un taxi o lo strumento in qualche studio. Come accaduto anche ad altri suoi colleghi hard bop: si potrebbe pensare a Jackie McLean, Joe Henderson e Wayne Shorter, i cui lavori più spinti in avanti e moderni, vennero congelati, rispetto ad altri che sembravano tenere vivo il fuoco dell’hard bop. I più cattivi sostengono che alla Blue Note, la quale soffocava nei debiti, non si facessero scrupolo nel consentire, ai tanti musicisti tossicodipendenti o con impellenti esigenze di denaro, di sfornare instant album, veloci e ricavati con lo stampino, al fine di trarne un profitto reciproco, sia pur modesto. Tom Perchard, nel suo saggio su Lee Morgan, «His Life, Music And Culture», racconta: «L’aria filtrava intorno al bordo del suono come un gas blu, non acceso. Alla fine del suo assolo Morgan ripeté due volte il tema principale, la prima volta così delicatamente che l’aria sembrava fuoriuscire dalla tromba e trascinare il tono verso il basso, la seconda volta soffiando in modo eccessivo al punto tale che il suono distorcesse la purezza della tonalità».

«Search For The New Land» è una perfetta sintesi di tutti gli elementi che rendono il jazz diverso da ogni altra forma di esplorazione musicale, dove ogni membro del line-up dimostra di essere non solo tecnicamente abile ma altamente maturo, dando priorità alla musica piuttosto che alla rappresentazione del proprio egocentrismo artistico. Il ripetuto cambio di passo e di umore, usando l’armonia accordale/modale, fece sì che i brani acquisissero un senso di meraviglia e suspance, mentre, in alcuni tratti, l’oscurità diventa favorevole alla creazione di un’aura spettrale ed avvolgente. «Search For The New Land» guardava oltre. Perfino la copertina dell’album suggerisce una diversità nei contrassegni salienti. Morgan veniva solitamente raffigurato come un suonatore algido e sicuro di sé, intento a suonare la tromba con gli occhi chiusi ed una sigaretta in mano o infilata nei tubi dello strumento. In tale circostanza fu colto in un momento di incertezza: mentre pone lo sguardo nell’obiettivo fotografico sembra vulnerabile e dubbioso. Come molti set con il baricentro spostato in avanti, «Search For The New Land» venne oscurato dall’implacabile giostra delle sessioni hard bop pronto-cuoci. Oggi però, con il senno di poi, potremmo considerarlo come il vero capolavoro di Lee Morgan, in cui tutto sembra in asse e perfettamente allineato, come quei pianeti che sovrintendono alla genialità umana.

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