«The Jazz Giants» di Lester Young, un esempio di resilienza del jazz alle urgenze del mercato di ogni epoca (Jazz Images)
// di Francesco Cataldo Verrina //
Lester Young, insieme a Coleman Hawkins, ed altri musicisti poco sponsorizzati dalle cronache jazzistiche, quali Don Byas e Lucky Thompson, fu tra gli inventori del cosiddetto «sassofono moderno». In un periodo di transizione, ossia nel passaggio dalle grandi orchestre della Swing Era al piccolo combo bebop, alcuni musicisti ebbero la capacità di traghettare il sax in un contesto più dinamico e di progressivo dominio, grazie ad un miglioramento della gamma espressiva e della tecnica strumentale, tanto che il sassofono suonato in maniera schematica e rudimentale, era stato per lungo tempo marginale rispetto alla tromba ed al clarinetto. Tra l’inizio e la fine della seconda guerra mondiale, il sassofono iniziò la sua ascesa che culminerà con l’affermazione di alcune delle figure più importanti per l’evoluzione della sintassi jazzistica della seconda metà del Novecento: da Bird a Rollins, da Trane a Ornette Coleman, da Dexter Gordon a Wayne Shorter.
Lester Young è stato (e continua ad essere) un personaggio universalmente amato, in maniera quasi ecumenica, a causa anche di talune «stranezze» comportamentali e di certe fragilità manifestate in maniera preponderante nell’ultima fase della carriera; in particolar modo nella seconda metà degli anni Cinquanta, in cui nevrastenia ed etilismo ne condizionarono soprattutto la resa sotto il profilo esecutivo. In verità, critici e studiosi a vario titolo ascrivono molta importanza alla produzione lesteriana antecedente, specie quella legata al periodo pre-bellico, lasciando cadere quasi nel vuoto molti dischi che il sassofonista pubblicò durante gli ultimi anni di vita, in cui il suono del suo sax era diventato più stridulo, mentre il Presidente appariva insicuro, affaticato ed in preda all’alcolismo, tanto da far pensare ad uomo piuttosto avanti negli anni. Pandemica per un’intera generazione di jazzisti più bravi che fortunati, la mala sorte era sistematicamente appostata dietro l’angolo pronta a servire il conto con tanto di interessi maturati: l’amaro destino di Lester Young che si compirà anzitempo.
Il sassofonista muore a soli 49 anni, 15 marzo del 1959, quasi a voler lasciar libera la ribalta per una nuova generazioni di artisti e sassofonisti che stavano cambiando il corso della storia del jazz. Il 1959 fu un anno epocale in cui vennero pubblicati dischi seminali, determinanti al punto da cambiare per sempre il senso di marcia del jazz moderno: «The Shape Of Jazz To Come» di Ornette Coleman, «Kind Of Blue» di Miles Davis, «Ah Um» di Charles Mingus, mentre a dicembre dello stesso anno verranno registrati «Giant Steps» di John Coltrane e «Portrait In Jazz» del Bill Evans Trio. È pur vero che i dischi pubblicati da Lester Young nella seconda metà degli anni ’50 potrebbero sembrare datati e legati ad una sorta di operazione nostalgia, garantiti più dalla passata nomea del sassofonista di Woodville che non da un reale valore artistico; ci sono delle eccezioni come i precedenti lavori con l’Oscar Peterson Trio. Ad esempio, l’album «The Jazz Giants» del 1956, prodotto da Norman Granz, personaggio astuto e capace di resuscitare perfino i morti. Metaforicamente, Granz riuscì a rivitalizzare uno stanco e svogliato Lester Young, affiancandogli degli ottimi compagni di merende: Roy Eldridge tromba, Vic Dickenson Trombone, Teddy Wilson pianoforte, Freddie Green chitarra, Gene Ramey contrabbasso e Jo Jones batteria, i quali operarono in maniera enzimatica, accelerando il processo produttivo del Presidente che, in «In Jazz Giants», appare in splendida forma.
I sei sodali si calano in una dimensione a-temporale: non suonano espressamente bop, non tirano fuori il naso dalla finestra per capire che cosa stia succedendo in piazza, ma non marcano neppure certe atmosfere retrò. Nonostante la track-list sia essenzialmente infarcita di vecchi standard. Lester e compagni distillano un ottimo jazz senza tempo che si mantiene attuale, proprio perché non geolocalizzabile in un specifica epoca. Tutte i componimenti sono eseguiti con estrema vivacità ed affiatamento, tanto che l’ascoltatore attento riesce a cogliere finanche un’aura di divertimento collettivo. Young si ritrova, quasi per incanto, in un ambiente costituito da musicisti-amici con cui in passato aveva condiviso esperienze varie: per esempio, Jo Jones e Freddie Greene erano la parte vitale della macchina ritmica ai tempi d’oro della permanenza di Young nell’orchestra di Count Basie; Eldridge e Young avevano partecipato entrambi ad alcune registrazioni Teddy Wilson e Billie Holiday; dal canto suo Young aveva realizzato un album in quartetto, «Pres & Teddy», con Wilson, Ramey e Jones; Jones e Young, affiancati da Eldridge, furono ospiti del famoso live-set di «Count Basie At Newport», Roy Eldridge con Lester Young si erano ritrovati insieme in numerose altre occasioni, tra cui il canto del cigno di Young «Laughin’ To keep From Cryin’».
La componente lirica e ballad-oriented prevale in questo set del 12 gennaio 1956, tanto da renderlo accessibile ad un pubblico mainstream e generalista, ma non si caratterizza con un album d’annata, nonostante il piano di Wilson suoni piacevolmente «antico», perfino la marcata presenza di Vic Dickenson al trombone, conferisce a questo disco le sembianze di un sound conservativo rispetto al mood e all’aspetto formale tipico del jazz del ’56, momento di massima deflagrazione dell’hard-bop. Una trattazione assai più approfondita meriterebbe l’affiatamento tra Roy Eldridge e Lester Young, non dissimile ed altrettanto sinergico a quello intercorreva tra Dizzy Gillespie e Charlie Parker: in «Gigantic Blues», una traccia a firma Young che apre la seconda facciata dell’album, la loro compliance è superlativa. L’opener, «I Guess I’ll Have To Change My Plan, riporta in auge tutta l magnificenza del Lester più amato, ossia quello delle ballate morbide, crepuscolari ed insanguate di blues: il suo sax scava in profondità anche se con un tono più aspro rispetto al passato. Il gioco melodico è comunque avvolgente, mentre uno straordinario Eldridge gli restituisce pan per focaccia con una sordina da mille e una notte. In oltre nove minuti, tutta la compagine ha la possibilità di esprimersi ed apportare un decisivo contributo al costrutto d’insieme. «I Didn’t Know What Time It Was» non sposta l’asse spazio-temporale di un centimetro, il sax di Young disegna una tema zuccheroso che risucchia il fruitore in una spirale di emozioni, mentre i sodali in prima linea prolungano l’effetto seduttivo e la retroguardia assicura un un cadenzato swing dal sapore moderatamente back-in-time.
Nell’edizione Jazz Images, che commentiamo, sulla prima facciata del microsolco è presente una bonus-track, «Louise», registrata in un secondo set il 13 gennaio del 1956 in formato ridotto, senza Eldridge, Dickenson e Green. È superfluo dire che l’atmosfera sia più da Cotton Club che da non Vanguard Village, ma il disco possiede un gancio attrattivo che non consente distrazioni. La B-Side si apre con la già citata «Gigantic Blues», unico momento declamato in velocità, in cui lo stesso Young si libera dei demoni creativi, seguito a ruota da tutto l’ensemble. «This Year’s Kisses» è una ballata mid-range che modella un jazz ancorato alle sue radici blues e swing, in cui Lester e la sua prima linea sguazzano felici come bambini in parco acquatico. Nella conclusiva, «You Can Depend On Me» il modulo di gioco si ripete con effetti sorprendenti, soprattutto il tridente d’attacco, tromba, sax e trombone, si alternano su uno standard dalla melodia perforante, mentre al piano di Wilson viene affidato l’intermedio, quasi una pausa prima del ritorno del sax del Presidente che non tradisce la sua nomea di insuperabile balladeer. A prescindere da ogni congettura o valutazione, un disco come «The Jazz Giants», lontano dalle mode e dalle cronache giornalistiche di quei giorni, oggi potrebbe essere riletto come un esempio di resilienza del jazz alle urgenze del mercato di ogni epoca.