// di Irma Sanders //

Molti duetti fra decani del jazz, in quegli anni, apparivano come mere operazioni commerciali. Sovente si mettevano insieme personalità con differenti schemi mentali. L’incontro tra Duke e Hawk, favorito dalla grandi manovre di casa Impulse!, mise in luce due personalità marcate ma, per certi aspetti, simili e piuttosto confluenti. Duke Ellington e Coleman Hawkins non avevano mai suonato insieme prima: «Duke Ellington Meets Coleman Hawkins» sarebbe stato il loro vero ed unico incontro al vertice. Il padre del tenore moderno era sempre stato un ammiratore del Duca, ma non aveva mai suonato nelle sue grandi orchestre. Secondo Amiri Baraka (LeRoi Jones) Ellington non amava molto i solisti troppo caratterizzanti nelle sue big band; aveva un’idea più collettivistica dell’orchestra, lo spazio al «solismo» era sempre molto contenuto e limitato, forse anche per tema che qualcuno potesse insediare la sua leader-ship. Lo stesso Amiri Baraka sostiene in linea di massima, e mi trova del tutto concorde, che l’evoluzione della musica afro-americana passi più attraverso l’opera di Count Basie, che offriva maggiore spazio espositivo ai solisti e all’improvvisazione personale, anticipando alcuni assunti basilari del bop, piuttosto che attraverso il lavoro di Duke Ellington, certamente più complesso negli arrangiamenti e nella stesura, ma teso ad un sinfonismo orchestrale che si distanziava molto da quella che sarebbe stata l’essenzialità più diretta, asciutta e semplificata delle piccole combo bop.

«Duke Ellington Meets Coleman Hawkins», registrato il 18 agosto del 1962 al VanGelder Studio, documenta un momento di grazia per Duke Ellington, il quale aveva scritto già pagine memorabili della storia del jazz ante-guerra, ma che ora si misurava in una dimensione «semplificata», dimostrando di saper giocare anche su un terreno diverso. Nello stesso periodo, il 26 settembre del 1962, unirà le proprie forze a quelle di John Coltrane per un altro album dalle finalità simili, ma dove il break even point artistico risulterà meno equilibrato rispetto al sodalizio con Hawkins. Il terreno di confronto e di scontro, metteva in luce due personalità assai pronunciate e regole d’ingaggio differenti, dovendo agire in maniera orizzontale ed garantire uno spazio di condivisione maggiore anche al resto dei gregari, assottigliando ed adombrando l’idea di una leader-ship assoluta o l’idea di un uomo solo al comando. Ray Nance alla cornetta e al violino, il trombonista Lawrence Brown, l’altoista Johnny Hodges, il baritonista Harry Carney, Aaron Bell al contrabbasso e Sam Woodyard alla batteria ebbero la loro fetta di torta ed una parte in causa determinante per lo sviluppo del progetto.

Al netto dell’estrema professionalità degli attanti sulla scena, il rapporto con Hawkins, rispetto alla collaborazione con Coltrane, appare meno distaccato ed asettico, per ovvie ragioni anagrafiche, ma anche per affinità elettive. Pare che Hawkins, da giovane, avesse sempre desiderato suonare in una delle big band del Duca. Di certo, l’aver unito queste personalità, prima Hawkins e poi Coltrane con Ellington, fu soprattutto una manna dal celo per la Impulse! che pubblico entrambi gli album nello stesso anno e con una copertina decisamente simile. Parliamo di due impeccabili set, importanti più sotto un profilo commerciale che artistico, i quali fecero la felicità degli amanti del jazz mainstrem, che non apportarono nulla alle singole carriere dei tre musicisti coinvolti, ma soprattutto all’evoluzione stilistica del jazz moderno, che nel 1963 parlava un linguaggio già assai differente.

«Duke Ellington Meets Coleman Hawkins» è un piacevole album d’intrattenimento basato su alcune nuove costruzioni sonore di Ellington, tra cui spiccano però un’esuberante versione di «The Jeep Is Jumpin ‘» ed un intelligente remake di «Mood Indigo». Un disco che, per immediatezza e facilità di fruizione, è diventato un cult ed un must have intergenerazionale.

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