Joshua_Redman_WFS_LP

«Words Fall Short» s’impone quale opera dall’assetto espressivo misurato ed, al contempo, audace, che travalica l’ambito della mera collezione di composizioni per assumere i tratti di una meditazione musicale sulla finitezza del linguaggio e sull’insufficienza delle forme convenzionali di rappresentazione.

// di Francesco Cataldo Verrina //

«Words Fall Short», l’ultimo lavoro discografico di Joshua Redman, sancisce non soltanto una prosecuzione organica rispetto al precedente ed acclamato «Where Are We», ma anche una riflessione estetico-filosofica sulla natura ineffabile dell’espressione artistica. Il titolo stesso, mutuato da un passaggio di Where Reasons End di Yiyun Li, non è un’ammissione di sconfitta, bensì una dichiarazione poetica: le parole, come le note, possono fallire nell’obiettivo di nominare l’indicibile, ma proprio nel loro fallimento risiede la carica umana più profonda. L’album si sostanzia come un corpus coeso di composizioni originali – molte delle quali scritte durante il periodo pandemico – che hanno trovato finalmente forma grazie all’ispirazione generata da un nuovo ensemble. Redman, giunto al suo quarto decennio di carriera discografica, dimostra ancora una volta l’attitudine a selezionare e valorizzare giovani talenti. La sezione ritmica, composta da Philip Norris (contrabbasso), Nazir Ebo (batteria) e Paul Cornish (pianoforte), rappresenta non solo un aggiornamento anagrafico ma anche un rinnovamento linguistico.

Nel quadro contemporaneo del jazz d’autore, «Words Fall Short» s’impone quale opera dall’assetto espressivo misurato ed, al contempo, audace, che travalica l’ambito della mera collezione di composizioni per assumere i tratti di una meditazione musicale sulla finitezza del linguaggio e sull’insufficienza delle forme convenzionali di rappresentazione. Joshua Redman, artista giunto alla piena maturità creativa, affida al suo quartetto rinnovato – composto da tre giovani strumentisti di spiccata intelligenza musicale – il compito di dare corpo ad un ciclo sonoro dalla cifra poetica discreta ma intensamente evocativa. Letteratura e jazz s’intersecano lungo tutto il percorso dell’album. I titoli, spesso tratti da opere di McCarthy, Sebald, Vonnegut, segnalano un’urgenza intertestuale: Redman costruisce ponti tra linguaggio verbale e sonoro, tra parola mancata e nota accennata.

I brani contenuti nell’album, otto in tutto, si articolano con la coerenza timbrica e formale non dissimile ad una suite concettuale, alternando momenti di rarefazione contemplativa a passaggi di vigorosa dialettica improvvisativa. Il concept si apre con «A Message To Unsend», microcosmo lirico in cui il pianismo arpeggiato di Paul Cornish, sostenuto dalla pastosità del contrabbasso di Philip Norris e dalla levità ritmica di Nazir Ebo, tratteggia un paesaggio sonoro intriso di sospensione elegiaca. L’intreccio tra elementi di sapore classico, accenni boleristici ed un fraseggio arioso e pastorale conferisce al pezzo una qualità quasi liturgica. Il titolo, quale evocazione del desiderio impossibile di ritrattare ciò che è già stato, fissa sin da subito la tematica dominante: il rimpianto, la parola che inciampa, la comunicazione che si smarrisce. In «So It Goes», emerge il dialogo serrato ed allo stesso tempo fraterno con il sax tenore di Melissa Aldana. Redman declina il concetto di alterità non come antagonismo, bensì come confluenza di sensibilità divergenti. Il titolo, tratto da «Slaughterhouse-Five» di Vonnegut, condensa l’essenza fatalista della comunicazione: una resa alla contingenza, alla morte, all’assurdo. Come accennato, Redman e Aldana non si affrontano in un «duello» ma intrecciano le voci in un dialogo acceso e poetico, espressione di una visione condivisa e non antagonista del mondo. Il brano rappresenta un elogio dell’ascolto e dell’interazione nel divenire incerto dell’improvvisazione. L’eponimo, «Words Fall Short» è il fulcro poetico dell’album, nato dalla lettura del romanzo Where Reasons End di Yiyun Li, si distingue per la scrittura elastica e l’eleganza formale, quale tesi estetica ed umana dell’intero disco: il metro ternario su cui si adagia Redman, ancora una volta al soprano, accompagna l’ascoltatore in una progressione melodica di delicata irrealtà, in cui ogni nota sembrerebbe suggerire la possibilità di toccare l’inesprimibile. «Borrowed Eyes», dall’andamento più malinconico, rievoca con levigata sobrietà la difficoltà di assumere lo sguardo dell’altro senza perdersi. Siamo alle prese con una ballata sospesa, costruita su una batteria leggera e su fraseggi lirici dal tenore. Il tema è quello dello sguardo riflesso, dell’esperienza vissuta attraverso l’altro, forse anche della perdita dell’autonomia percettiva. Il senso di «prestito» implica una tensione tra autenticità e mediazione, tra empatia e spossessamento.

Di analoga carica simbolica è «Icarus», reso ancor più incandescente dall’intervento trombettistico di Skylar Tang: il moto ascensionale e frenetico della composizione, scandito da un ostinato pianistico in metro dispari, diventa la metafora musicale dell’ambizione che sfida i limiti, sospesa tra slancio e disfatta. Il mito di Icaro viene reinterpretato in chiave ritmica e strutturale, incarnando l’instabilità dell’ascesa, mentre il dialogo tra sax e tromba rappresenta il desiderio febbrile di superamento e la vertigine del limite. La componente euforica della melodia contrasta con la consapevolezza del rischio implicito nel volo. «Over The Jelly-Green Sea» richiama immagini di deriva, di memoria liquida e paesaggi disgregati, derivati da Gli anelli di Saturno di W.G. Sebald, autore noto per il suo stile evocativo e malinconico in un paesaggio surreale e marcescente, suggerendo così un viaggio nella memoria o nella dissoluzione della realtà. La musica, fluida e sospesa, richiama immagini oniriche e frammenti narrativi. «She Knows», in cui Redman torna al sax soprano, è un periplo emotivo che prende avvio da un lirismo posato per poi aprirsi gradualmente a derive avanguardistiche. Redman guida il convoglio attraverso territori inizialmente melodici e prudenti che poi si aprono progressivamente a sperimentazioni d’avanguardia. Il titolo, enigmatico e assertivo, suggerisce un sapere che sfugge alla logica discorsiva e si manifesta nella corporeità del suono. L’improvvisazione diventa strumento di tacita conoscenza. La conclusione è affidata a «Era’s End», versione cantata del brano d’apertura con la voce soffusa e intensa di Gabrielle Cavassa. In tale contesto, la riflessione si fa definitiva: la musica, per quanto raffinata, non può risarcire l’assenza né riformulare il dolore, ma può offrirne una risonanza nobile, una memoria vibrante. Laddove il pensiero si arresta, sembrano dire Redman e i suoi, il suono tenta una sopravvivenza simbolica.

Nel suo insieme «Words Fall Short» diventa rivelatore di un discorso sonoro sulla fragilità come valore, sull’imperfezione come destino e principio attivo della creazione artistica. Redman, con la sua consueta sobrietà visionaria, tratteggia un’episteme musicale in cui l’enunciazione sembrerebbe andare a monte, ma il fallimento stesso – colto nella sua tensione auratica ed aurale al contempo- diviene oggetto di rara contemplazione. In conclusione, «Words Fall Short» è un lavoro di ostinata coerenza concettuale e sensibilità esecutiva. Non si tratta di un mero esercizio stilistico, bensì di un atto comunicativo profondo, che abbraccia la caducità dell’arte e sublima la fragilità dell’esperienza umana.

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