1180 Filippo Poletti

Filippo Poletti

di Guido Michelone

Filippo Poletti non ha certo bisogno di presentazione: la sua fama attraversa diversi settori del sapere contemporaneo. Il nuovo libro poi – L’arte dell’ascolto: musica al lavoro. 120 interviste a grandi personaggi con playlist di 34 ore su Spotify (Edizioni Guerrini Next) – appare già un punto fondamentale per discutere La musica quale fenomeno culturale che coinvolge davvero tutti. E l’intervistare, in circa mezzo secolo, ben 120 ‘luminari’ in ambito artistico, industriale, giuridico, scientifico, letterario, musicale, umanistico, sportivo – ad esempio da Ernesto Illy a Giorgio Armani, da Franco Tatò a Gae Aulenti, da Rita Levi-Montalcini a Norbetto Bobbio, da Tiziano Sclavi a Piero Angela, da Alda Merini a Paolo Villaggio, da Enzo Jannacci a Beatrice Venezi, da Mike Bongiorno a Walter Bonatti – conduce il lettore a porsi mille interrogativa sul senso ultimo della musica stessa, qualunque essa sia.

D In tre parole chi è Filippo Poletti?

R «Un raccontatore di storie di vita. Da sempre sono affascinato dai racconti delle persone. Una vita, infatti, non basta per conoscere il mondo: attraverso il racconto di altri possiamo, in qualche modo, aumentare il nostro raggio di conoscenza. Se non vedo e non incontro, non riesco a scrivere. Per questo, dico che sono un raccontatore “alla Monet”. Hai presente il grande pittore? Si trasferì a nord di Parigi per dipingere ninfee quotidianamente: le vedeva e le dipingeva. Allo stesso modo faccio io: incontro persone, vedo, ascolto e racconto».

D Il tuo primo ricordo della musica da bambino?

R «Un disco di mio papà, un LP di Enzo Jannacci con incisa una raccolta delle sue canzoni in dialetto milanese. Anni dopo ho voluto andare a intervistare il grande medico, pianista jazz e autore, proprio in memoria di mio papà e di avermi, per così dire, introdotto a canzoni come “El portava i scarp del tennis”».

D E hai un primo ricordo del jazz in assoluto?

R «Rispondo facendo parlare “la memoria delle mie dita”. Quando ero uno studente di chitarra classica, all’inizio degli anni Novanta studiai “Maple leaf rag”, il ragtime di Scott Joplin, il re del ragtime classico. Era una rivisitazione della musica da ballo delle comunità nere americane, che contribuì a consolidare la musica jazz. “Maple leaf rag” è un “Presto” in tempo binario che, come tutti i ragtime, presenta accordi di settima e diverse modulazioni di passaggio: un brano non facile da eseguire per chi, come me, era cresciuto a “pane e Fernando Sor”. Da ascoltatore, poi, ricollego la passione per il jazz alle interpretazioni degli Swingle Singers, il gruppo a cappella francese nato in Francia nel 1962 e formato da due soprani, due contralti, due tenori e due bassi. Me ne parlò in un’intervista anche Piero Angela, fine pianista jazz, che adottò la loro esecuzione di “Aria sulla quarta corda” di Johann Sebastian Bach per la sigla della trasmissione “Superquark”. Li sentì dal vivo nel 1967 a Bruxelles, dove si era trasferito per la Rai, e se ne innamorò».

D Tra l’altro, ti chiederei subito che rapporto hai con il jazz. Quali stili e quali jazzmen ami di più? E cosa pensi dell’improvvisazione quale identità costitutiva di questa musica?

R «Amo la chitarra jazz di Pat Metheny e il pianoforte jazz di Stefano Bollani: il primo perché ha un fraseggio inarrivabile, asimmetrico, inquieto; il secondo, perché – come me – viene dalla musica classica, essendosi diplomato nel 1993 in pianoforte al Conservatorio Luigi Cherubini sotto la guida del maestro Antonio Caggiula. Pensando all’arte dell’improvvisazione, prima ancora che al jazz, mi viene in mente Johann Sebastian Bach, autore delle splendide “Variazioni Goldberg”. Non è un caso che i grandi jazzisti amino Bach».

D Come definiresti la tua attività? Critico, studioso, docente, organizzatore o tutto insieme o altro ancora?

R «Mi sono laureato in musicologia, a Cremona, nel 1996 e, dopo un’esperienza come docente di musica alla scuola media, ho iniziato a scrivere di musica per il quotidiano “Il Giorno”. È grazie al giornalismo, e in particolare alla cronaca di cui mi sono occupato successivamente per anni, che ho affinato la scrittura. C’è una cosa che mi è rimasta dalla musica: il rigore. Chi fa musica sa che la parola “successo” viene dopo il “sudore”. Credo che questo sia uno dei segreti del lavoro, qualunque esso sia. E, oggi, faccio il giornalista assieme all’autore e al docente. Ma se mi si chiede la cosa di cui vado più orgoglioso, per quanto riguarda la mia formazione, sono gli studi di composizione sperimentale al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, accanto all’executive MBA al Politecnico di Milano: questo corso mi ha permesso di “educarmi alla creatività”, perché la creatività va indirizzata, affinata, sviluppata. E ogni giorno cerco, in tutti i lavori che faccio, di farne tesoro».

D Possiamo parlare di te come di uno dei protagonisti del giornalismo italiano?

R «Con modestia, direi una delle voci del racconto giornalistico su LinkedIn. Nel 2017, dopo aver scritto per tante testate giornalistiche, decisi di iniziare un racconto quotidiano dedicato alle buone notizie. Su LinkedIn ero e sono l’“editore” di me stesso. E, da editore, ho scelto di raccontare il lato positivo della realtà. Come ripeto spesso, una buona notizia al giorno toglie il cattivo umore di torno».

D Per te ha ancora un senso oggi la parola “musica”?

R «Eccome se ha senso, perché noi siamo “musica”. Il primo senso che il feto sviluppa è quello dell’udito e, ancora, siamo anzitutto ritmo, ossia il ritmo binario del nostro cuore. Il grande sviluppo dell’intrattenimento musicale dimostra, ai tempi dei social media e dell’intelligenza artificiale, come l’incontro tramite la musica dal vivo sia insostituibile».

D E come ti è venuta in mente quest’idea geniale che si è tradotta nel libro “L’arte dell’ascolto: musica al lavoro”?

R «A un concerto, nel 1999, incontrai il professor Umberto Veronesi, il celebre oncologo: allora collaboravo con Alberto, suo figlio, direttore d’orchestra. Mi venne l’idea di intervistarlo. Ciò che vedevo, allora, era una grande attenzione nei riguardi dell’oggetto musicale, ossia del brano musicale, ma non della relazione tra l’oggetto e l’ascoltatore. Con il libro “L’arte dell’ascolto: musica al lavoro”, più che una “storia della musica” ho cercato di fare una “storia dell’ascolto della musica” attraverso la voce di grandi italiani. Dal 1999 al 2024 sono andato a caccia delle loro testimonianze».

D Molti ormai gridano alla morte della musica, pensando a certe “ricerche” dal dopoguerra agli anni Ottanta del secolo scorso (alea, elettronica, concretismo, free jazz, eccetera): cosa ne pensi?

R «Certa sperimentazione è morta. Ho studiato composizione sperimentale e credo che quel tipo di corso storico sia finito, abbia fatto la sua storia. La Prima e la Seconda Guerra non potevano che portare a certe “ricerche” musicali estreme. Non hanno attecchito, però. Come diceva Giuseppe Verdi: “Torniamo all’antico e sarà un progresso”. Facendo la tara a questa affermazione, diciamo che l’eccesso è sempre eccessivo».

D Ma come sta oggi la musica impegnata e/o sperimentale: ma esiste ancora la politica e/o l’avanguardia negli ambienti colti europei e nordamericani?

R «Esiste, ma vive all’interno di cerchie ristrette. Sono, oggi, per una musica aperta a tutti: non mi piacciono le élite musicali».

D Passando al tuo libro in cosa si distingue l’approccio alla musica da parte di scienziati, artigiani, avvocati, scrittori, sportivi, gente di spettacolo (ovvero le categorie dei tuoi intervistati)?

R «Chi ha una formazione scientifica ha un approccio, spesso, più razionale. Prendiamo il caso del Nobel per la medicina Renato Dulbecco: per lui, così come ciascuna specie possiede molti genotipi, nell’arte esiste un gran numero di varianti, tali per cui una stessa forma musicale appare diversa a seconda che si ascolti una delle fughe dal “Clavicembalo ben temperato” di Bach, la fuga dalla “Petite messe solennelle” di Rossini sulle parole “Et vitam venturi saeculi” o, ancora, la fuga nella seconda parte della “Sinfonia di salmi” di Stravinsky. Dulbecco amava molto “First Construction” di John Cage, brano scritto per un gruppo di musicisti impegnati a percuotere oggetti disparatissimi, dalle tazzine da riso ai cerchioni di automobili, alle latte di petrolio. Mi confidò un paragone tra la musica e la biologia, dicendo che questa composizione era a suo avviso un organismo formato da unità molto piccole, le “cellule ritmiche” appunto, presenti in gran numero. Come si vede, in Dulbecco, fine pianista classico, prevaleva un approccio analitico alla musica. Poi, ciascuno dei grandi personaggi intervistati racconta di cercare, a seconda dei momenti della vita, una musica che lo rispecchi: Mike Bongiorno, ad esempio, amava molto i tempi “Allegri” di Vivaldi così come le esecuzioni del violinista Stéphane Grappelli, compagno di duo di Michel Petrucciani. Il metereologo Mario Giuliacci mi dichiarò il suo amore per il lento del tema di Jill del film “C’era una volta il West”, perché, mi confidò, lo commuove ogni volta che l’ascolta, scatenando in lui una vera “tempesta passionale”».

D Nel tuo libro scegli un approccio diretto (e al contempo, giustamente, assai dotto): come hanno reagito i diretti interessati?

R «Ho cercato di alzare la palla a ciascuno degli intervistati, limitandomi a concordare la tonalità. Con l’imprenditore Pietro Gussalli Beretta ho parlato di “musica disarmante”, con il fondatore della Chicco, Pietro Catelli, del gioco della musica, con il cardinale Gianfranco Ravasi della musica divina, e via dicendo. A ciascuno ho posto le domande che pensavo potessero accendere i loro ricordi musicali».

D C’è qualche personalità che non sei riuscito a intervistare?

R «Avrei voluto intervistarne tanti altri, ma 120 intervistati mi sembravano un buon numero per una prima edizione della “storia dell’ascolto della musica”. Tra i tanti “papabili”, mi sarebbe piaciuto incontrare il pianista Benedetto XVI».

D E qualcuno che di proposito hai voluto escludere?

R «Se potessi, intervisterei tutte le persone, per il semplice fatto che è difficile trovare qualcuno che non abbia un racconto musicale da condividere».

D Il libro, come già detto, è bellissimo: come mai, però nella sezione “Musica & Musica” hai privilegiato soprattutto rockmen poco noti?

R «Volevo dare voce ad alcuni musicisti, alcuni noti, altri meno noti, come il manager Massimo Scaccabarozzi, vero rockettaro, la cui intervista è una delle più toccanti».

D Anche nel settore sportivo manca lo sport preferito dagli Italiani. Il calcio! Una scelta obbligata o voluta?

R «Diciamo così: sono cresciuto giocando a tennis. Per questo ho chiesto a Sergio Tacchini di raccontare come si ascolta la musica e, in particolare, il Debussy di “Jeux”. E come si faceva a non parlare di tennis in un libro che usciva nel 2024, anno di Jannik Sinner?».

D Altra assenza (comprensibilissima): i politici. Ma in che modo la musica si rapporta alla politica? Vuoi/puoi fare esempio storico e, se possibile, anche presente?

R «C’è un’eccezione, il magistrato e politico Antonio Di Pietro. Di politica mi parlò, ad esempio, il giornalista Indro Montanelli, che mi disse: “Nella Prima Repubblica dominarono i tromboni, in alcuni casi mattatori. Nella Seconda Repubblica si sentono soltanto pifferi, dall’intonazione piuttosto precaria: strumenti modesti, per di più “dotati” di un timbro poco gradevole”. Anche il regista Antonio Ricci parla di politica, dicendo: “D’Alema Fu-Fu potrebbe essere il clarinetto, Berlusconi il fagotto, anche perché molti vorrebbero farglielo fare. Bossi la grancassa, mentre il flauto potrebbe essere Casini anche se forse sarebbe rappresentato molto più efficientemente dal piffero. Gli archi potrebbero essere benissimo Mastella per la sua capacità di sviolinare a destra e a sinistra. Il compositore? Naturalmente, Cuccia».

D Come vivi tu oggi la musica in Italia anche in rapporto alle tue esperienze professionali? Potrebbe cambiare qualcosa dopo l’uscita del libro (destinato magari a diventare un long seller)?

R «Ti ringrazio per l’augurio: incrocio le dita. Come vivo la musica? Come il bilanciamento della frenesia della vita. L’ascolto della musica mi permette di abbassare il livello dei pensieri. Sotto questo aspetto, è una medicina che consiglio a tutti. Accanto al bilanciamento vita-lavoro suggerisco il bilanciamento vita-musica».

D Cosa pensi, infine, dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui la musica “ovviamente” fa parte a pieno titolo?

R «Vedo un grande fermento per quanto riguarda, come dicevo, la musica dal vivo. Che bello sapere che sempre più persone si ritrovano per ascoltarla. Faccio mie le bellissime parole dell’Oscar Nicola Piovani: “La musica non è mai bella quando suona da sola. È bellissima quando c’è davanti un pubblico intento ad ascoltarla, a ballarla, a cantarla dentro di sé (o anche fuori di sé), ad applaudirla, o ad amarla in silenzio raccolto. Quando ascolto un disco a casa, da solo, in silenzio, mi piace immaginare altri, tanti altri che hanno fatto o stanno facendo la stessa cosa, commossi allo stesso passaggio dell’oboe o allo stesso attacco di tromba”. Avanti tutta, dunque, con la condivisione della musica e, aggiungo, anche con la pratica della musica: non occorre essere grandi esecutori per divertirsi a cantarla o a suonarla. La musica, almeno tra amici, è clemente con tutti gli esecutori».

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