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Nel corso di questa sessione il trombettista di Filadelfia intercettò alcune intuizioni che saranno sviluppate, purtroppo in un futuro tardivo, quando egli era già logorato dagli eccessi e prematuramente precipitato in una fossa a causa di eventi non del tutto estranei al suo caotico e sregolato stile di vita.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Un album di Lee Morgan che non sempre compare nelle classifiche di gradimento e nelle segnalazioni di critici ed esperti: «City Lights» è il primo disco in cui egli cerca un elemento diversificatore o sperequativo rispetto al più tradizionale asset bebop. Non si dimentichi che mentre il trombettista di Filadelfia era proiettato all’interno di una erigenda carriera come solista, faceva ancora parte dell’entourage di Dizzy Gillespie. Qualche settimana più tardi, nel settembre dello stesso anno, la collaborazione con Coltrane rafforzerà in lui taluni convincimenti, almeno un desiderio di cambiamento, che rimarrà sempre in nuce: Lee Morgan resterà per tutta la sua carriera mirabilmente intrappolato – e sottolineo mirabilmente – nel tipico schema di gioco bebop-hard-bop, su quell’asse cartesiano che univa in maniera ortogonale Gillespie e Blakey. Specie in tale circostanza, fu assai difficile per il diciannovenne Morgan svincolarsi dall’idea di essere, sempre e comunque, il Charlie Parker della tromba deciso a suonare come Clifford Brown.

Nel corso di questa sessione il trombettista di Filadelfia intercettò alcune intuizioni che saranno sviluppate, purtroppo in un futuro tardivo, quando egli era già logorato dagli eccessi e prematuramente precipitato in una fossa a causa di eventi non del tutto estranei al suo caotico e sregolato stile di vita. Una prima linea con tre strumenti a fiato, Lee Morgan (tromba), Curtis Fuller (trombone) e George Coleman (sax tenore e contralto), fecero di «City Lights» un piccolo case study accomunandolo ad un’idea che lo stesso Clifford Brown aveva accarezzato, ma che non riuscì a realizzare compiutamente; un proposito che aveva sedotto lo stesso Coltrane in «Blue Train» e di cui Benny Golson, in varie circostanze, era stato l’autentico propugnatore. Perfino Miles Davis, in un particolare momento della sua carriera, aveva subito il fascino di un attacco a tre punte con due sassofoni (Coltrane al tenore e Cannonball al contralto) quali fiancheggiatori della sua tromba. Ovviamente, la presenza di un trombone assume un significato diverso nel tentativo di costituire una mini-orchestra con le varie sezioni fiati; in questo caso rappresentate da almeno uno strumento e supportate da una retroguardia ritmica. Nello specifico: Ray Bryant (pianoforte), Paul Chambers (basso) e Art Taylor (batteria).

Fu proprio il prolifico Benny Golson a fornire tre componimenti originali su cinque ed a curare gli arrangiamenti di questa sessione che, in quanto tale, non fu però contemplata nelle successive registrazioni con la medesima configurazione. Come vederemo più avanti nel successivo «The Cooker» i fiati saranno solo due e addirittura in «Candy» toccherà alla sola tromba di Morgan operare a tutto campo in prima linea. Per metafora, «City Lights» fa pensare all’omonimo film di Charlie Chaplin, in cui un errabondo Lee Morgan cerca il suo riscatto girovagando per la città di notte, dove le luci fanno da cornice ad un viaggio senza un precisa meta. L’impatto è immediato e descritto in maniera mercuriale dalla title-track che funge da opener, in cui l’effetto cinematico spalanca le porte alle urgenti invenzioni della tromba del band-leader, sempre su di giri, come se volesse portare il sonoro della pellicola ad una velocità superiore rispetto a quella consentita da una normale proiezione. Al contempo il walking del basso di Chambers, che descrive una figura a due note, s’innesta nella progressione di Ray Bryant impostata sul registro superiore, mentre i fiati assumono toni drammatici scivolando perfettamente sulle diminuite e sull’incessante lavorio del kit percussivo. Il sax tenore di George Coleman spazza improvvisamente l’aria come un tornado, mentre Morgan, come un lanciafiamme, sputa fuori un assolo di tromba spostandosi sul registro acuto, foraggiato dalle retrovie dall’apporto ritmico di un attentissimo Taylor, la cui interazione non lascia aria ferma.

Il trombettista diventa il vero anfitrione in «Tempo De Waltz», a firma Golson, mentre Coleman si rifugia, nelle sue linee fluide, già sperimentate, sicure e più convenzionali, tirando fuori gli attrezzi del mestiere che guardano nello specchietto retrovisore inquadrando lo stile del «vecchio» Benny Carter al contralto. Il trombone di Fuller aggiunge un sapore ancora più retrò. Tuttavia, nihil sub sole novi. «You’re Mine You», con la sua struttura lignea da salice piangente ed un’aura vagamente luttuosa, sembra non trovare un punto di confluenza collettivo, nonostante l’abilità delle singole forze in campo. Per paradosso, Lee Morgan avrebbe potuto suonare anche da solo. «Just By Myself», srotolato sulla lunghezza di oltre nove minuti e una moderna rapsodia composta da Golson, che costringe Morgan a cavalcare a briglie corte ed a mantenersi su un tempo medio, mentre il trombone di Fuller ricama gli interstizi dell ‘ampia tessitura sonora.

Sul finale fa capolino «Kin Folks», composizione che reca in calce la firma di Gigi Gryce, la quale si sostanzia come un blues limaccioso, fluidificato dall’intervento di Golson sulla partitura, dove Chambers e Bryant trovano l’humus giusto per innestare un fertile substrato ritmico-armonico, tale da consentire a tutti i solisti di portare a casa un frammento di gloria. Va da sé che la lunghezza rende il costrutto complessivo piuttosto dispersivo: dopo un superbo inizio, caratterizzato dai riff degli ottoni, ad un certo punto l’impianto melodico inizia a perdere le coordinate trascinandosi stancamente, specie verso la fine. Se solo fosse stato più compatto, «Kin Folks» sarebbe stato il climax di un album che in ogni momento certificava l’atteggiamento di Lee Morgan di essere (o voler essere) il genius loci, ma gli accordi erano questi. Nonostante l’eccellenza delle forze in campo, il protagonista avrebbe dovuto essere lui. Per intenderci, così fu scritto e così fu fatto. Al netto di ogni considerazione ex-post, calandosi nell’atmosfera di quello scorcio di fine anni Cinquanta, «City Lights» rappresenta, comunque, un lavoro degno di attenzione, se non altro per comprendere l’evoluzione dell’allora giovanissimo trombettista di Filadelfia.

Lee Morgan

Tratto Da «Lee Morgan. La Tromba insanguinata», Kriterius Edizioni, 2024

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