Chet Baker, un enigma avvolto in un mistero
l rapporto tra il jazz e Chet Baker è sempre stato funzionale alla sua sopravvivenza, per la quale era bravissimo a cooptare pubblico, amici e belle donne, attraverso un languidume studiato ed un basso profilo da sofferente genetico, nonché un aplomb da bel tenebroso e da scontroso seriale.
// di Francesco Cataldo Verrina //
La vita e la carriera di Chet Baker sono il festival delle contraddizioni con una serie di misteri ancora irrisolti. Molti si sono spesso domandati dove fosse Chet Baker, quando afro-americani ed operosi americani bianchi cambiavano il corso del jazz, inventavano nuovi stilemi, sperimentavano nuove possibilità espressive, metre gente come Mingus, Ornette, Coltrane, Miles faceva rivoluzione e rivoltava la sintassi dell’idioma jazzistico. In quel periodo il trombettista dell’Oklahoma era in carcere o era inseguito dalla polizia di mezza Europa per uso ed abuso di narcotici e tresche con medici compiacenti e farmacisti.
I suoi occasionali rientri in USA furono quasi tutti fallimentari, per contro continuò ad ammannire le platee europee ed italiane, quelle più credulone e disinformate, con l’ennesima versione cantata o suonata di «My Funny Valentine» ed una decina di standard ripetuti all’infinito, accompagnato da una modesta formazione locale di turno. Il rapporto tra il jazz e Chet Baker è sempre stato funzionale alla sua sopravvivenza, per la quale era bravissimo a cooptare pubblico, amici e belle donne, attraverso un languidume studiato ed un basso profilo da sofferente genetico, nonché un aplomb da bel tenebroso e da scontroso seriale. Un modo di agire ostentato ad libitum e che, talvolta, rasentava i limiti del mellifluo, dello stucchevole e della strafottenza, la quale lo portava a trattare male tutti con l’intento di volersi sentire sempre al centro dell’universo (Gerry Mulligan racconta molto in proposito). Mentre nel mondo del jazz mondiale, quello vero, rullavano tamburi di guerra, Chet era acclamato nei night club romani, milanesi e toscani fra droghe, alcool, meretrici e spacciatori. In molti casi se la svignava all’estero senza pagare i collaborato italici, i quali gongolavano di gioia, «cornuti e mazziati», solo per il fatto di aver suonato con «il mito» americano, o semplicemente per averlo ospitato a sbafo, prestandogli soldi e auto, mai più ritornati al mittente.
Per lungo tempo, molti ebbero in testa solo l’idea che Chet Baker suonasse in una data maniera, (forse il ricordo dei vecchi dischi), quasi un’illusione: nella parte finale della sua carriera, la sofferenza c’era sul serio, poiché il trombettista aveva grosse difficoltà a suonare, rovinato dalle droghe, dalla vita dissoluta e dalla violenza che aveva subito, con conseguente danneggiamento dell’imboccatura. La voce era flebile, a tratti afona, il suono della tromba disturbato dall’aria e dalla necessita di dover trovare continuamente il giusto assetto labiale, mentre la dentiera scivolava fra un fraseggio e l’altro. I dischi dell’ultimo periodo, realizzati per la svedese SteepleChase, forieri di un pathos più sincero, furono avvalorati dalla presenza di musicisti di vaglia, come Paul Bley nel caso dell’album «Diane», o altri lavori realizzati per la ENJA tedesca, in cui Baker ebbe l’umiltà di imparare le sequenze accordali. Il periodo migliore della carriera di Chet Baker, organicamente legato ad un’idea di jazz simil-West Coast, fu quello degli anni Cinquanta, prima che il demone del vizio e delle droghe s’impossessasse di lui. Da lì in avanti, Chet si disinteressò alle vicende del jazz come forma d’arte evolutiva, divenendo un abile intrattenitore al servizio dei cuori infranti e proponendosi con un mood da sfigato che spesso suscitava non tanto un interesse artistico, ma un’umana pietas.
La dimostrazione di quanto affermato viene da un ottimo album del 1956, originariamente uscito per la Pacific Jazz come «Quartet», Russ Freeman & Chet Baker, quindi ripubblicato in epoche più recenti come Chet Baker & Russ Freeman «Quartet», che non è proprio la stessa cosa, poiché il vero motore mobile del progetto fu il pianista Russ Freeman, musicista e compositore di vaglia, nonché autore di sette dei nove brani contenuti nell’album, eccetto «Lush Life» di Billy Stayhorn e l’iniziale «Love Nest», in cui è possibile ascoltare un Chet Baker in overclocking, veloce come una lepre inseguita da una muta di cani, mentre l’incantesimo del trombettista aitante e risoluto si ripete più volte nei solchi del disco. Per il Baker, ventiseienne nell’anno di grazia 1956, fu davvero un dono del cielo l’aver incontrato musicisti di quella tempra, capaci di modulare la sintassi jazzistica in maniera dinamica, attraverso ripetuti cambi di passo e di mood, perfino quando il trombettista si ammansisce inebriandosi fra le morbide spire si «Summer Sketch» o si esalta nella brillante e dinoccolata impostazione swing di «An Afternoon At Home» , dopo che il sangue blues di «Fan Tan» ne aveva risvegliato gli ardori. Il giovane Baker, pie’ veloce come il Pelide Achille, trova ampia soddisfazione sulla B-Side a partire da «Say When»; per non parlare dei giochi d’acqua, schizzi compresi, con saltelli ritmici di «Amblin’», dell’atmosfera da fiesta di «Maid In Mexico» o del limaccioso blues di «Hugo Urwhey», mentre in «Lush Life» c’è forse il primo tentativo serio» da parte di Chet di essere un provetto balladeer per tromba, anche se questa versione appare distante anni luce, per intensità e pathos, dall’ambrosia degli Dei distillata nell’album omonimo da John Coltrane, che Baker ha sempre criticato, come molti beoti italici emissari della carta staccia, pur non avendo mai visto il sassofonista suonare dal vivo.
Nel progetto di Russ Freeman, Baker diede un valido contributo con la sua tromba ancora limpida, incontaminata e per nulla ripiegata su stessa, ma brillante, veloce, e scattante, secondo quelli che erano gli input provenienti dal bop newyorkese, quel suono che anni prima aveva incantato Charlie Parker. Nell’album sono presenti anche altri due jazzisti di notevole spessore, sempre di area californiana: Leroy Vinnegar al contrabbasso e Shelly Manne alla batteria. Un disco consigliato a coloro che si sciolgono e se la menano mentalmente ascoltando la solita «My Funny Valentine», al fine di comprendere quali fossero le premesse del primo Chet Baker, che a causa di una vita dissoluta non riuscì a preservare. Le droghe ed una dipendenza, da cui non fu mai in grado di affrancarsi, fecero del trombettista dell’Oklahoma una sorta di bottegaio costretto a vendere un vino insipido, annacquato, addolcito con additivi posticci, ma inebriante, specie per i consumatori bianchi ed europei di jazz da intrattenimento. Chet Baker è attualmente il jazzista più venduto in Italia in termini discografici. Tutto ciò la dice lunga sul nostro paese, dove il mito bakeriano ha partorito un pletora di emuli di piccolo cabotaggio: per non parlare del rapporto malato degli italiani con jazz che, in massima parte, non ha superato la soglia dell’approccio ludico, del magiaballa e degli eventi modello jazz e baccalà. (Chet Baker & Russ Freeman – «Quartet», 1965).