// di Francesco Cataldo Verrina //

Sonny Rollins non amava intrupparsi ed omologarsi, quasi tutta la prima fase della sua carriera, almeno i primi vent’anni, furono basati sulla contante ricerca di uno stile unico ed inimitabile: preferiva sbagliare, piuttosto che ripetersi; ciò lo portò ad avere sovente dei momenti di crisi e ad eclissarsi dalle scene per lunghi periodi, ma ogni ritorno fu sempre un trionfo. Per lui quelle pause erano solo motivo di messa in discussione del vissuto precedente, di studio e di rimodellamento del proprio stile; in particolare l’affinamento della sua tecnica risultò sempre migliorativo, ed ogni volta il «colosso» appariva come un «homo nuovus», rigenerato e pronto a gettarsi nell’agone con l’entusiasmo di un principiante.

All’inizio Rollins apprezzò molto il jazz di Charlie Parker, subendone una schiacciante influenza. In genere molti preferivano la velocità del bop ed il gioco armonico dilatato, a detrimento dei contenuti, finendo per creare dei lunghi e virtuosi assoli, ma privi di un senso melodico ben preciso. Al contrario, il Colosso dimostrò che l’improvvisazione poteva essere sostenuta a lungo con grande coesione, sviluppo melodico coerente, sottigliezza e persino una certa arguzia. Con un fraseggio asimmetrico e un tono potente, il suo stile era inconfondibile. Sembrava che avesse la capacità di smontare le canzoni e ricomporle in modi sempre nuovi, inediti e appetibili; una prodezza eseguita con una tale chiarezza di intenti, capace di incantare l’ascoltatore ed avviluppare il pubblico, soprattutto dal vivo. «The Bridge» fu la prima registrazione di Rollins dopo aver terminato un sorprendente periodo di latitanza durato tre anni, dal 1959 al 1962. Sonny racconta: «Beh, mi sono sempre esercitato con il sassofono per giornate intere. Lo sanno tutti: dovevo fare costantemente pratica sullo strumento. Da musicista, vivere a New York non era affatto facile. Di solito si abitava in un piccolo appartamento e non si potevano di certo disturbare i vicini. Quindi, sotto il ponte di Williamsburg potevo suonare liberamente senza essere interrotto. Questa fu una delle ragioni. Poi ce n’è un’altra: a quel tempo avevo il trio con Elvin Jones e, come dicevo, suonavamo alla grande. Ero diventato un nome importante nel mondo del jazz. Ma una sera a Baltimora mi accorsi che non andavo bene, non suonavo nella maniera che avrei voluto. Anche il pubblico se ne accorse. Così mi dissi: Ho bisogno di esercitarmi da solo. Devo allontanarmi dalla scena».

Il ritorno con The Bridge denotò che Rollins non aveva mutato stile o non aveva pensato a nuove forme espressive, ma molti colsero un miglioramento nello stile. Lo stile «Sonny Rollins», che non ma stato facile intrappolare in uno schema. In un quartetto senza pianoforte con il chitarrista Jim Hall, il bassista Bob Cranshaw e il batterista Ben Riley, Rollins esplora quattro standard (tra cui «Without a Song» e «God Bless the Child») oltre a due pezzi originali. «Where Are You» e «God Bless the Child» sono ballate dal passo morbido, dove il sassofono riempie la scena alla medesima stregua della voce di un cantante. In «Where Are You», Rollins» s’insinua dopo l’assolo di chitarra per uno splendido duetto legato proprio alle corde di Hall, la melodia è quanto mai aggraziata e la sezione ritmica si muove agilmente in retroguardia. «God Bless the Child» sembra una sagoma intagliata sulla figura musicale del leader: il suo impianto melodico è forse l’unico che può giocare alla pari con la versione di Billie Holiday. Ancora una volta, l’uso di brani lenti in duetto, legati con in questo caso alla chitarra di Hall, arrangiamenti astuti e linee melodiche accattivanti risultano assai efficaci. La frastagliata linea melodica di «S.John» mette in vetrina un assolo di sassofono da esposizione. Lo slancio prende spunto dal fraseggio di Rollins per poi diventare corale, mentre la sensazione è quella di un’accelerazione progressiva, ma il sax tenore distribuisce abilmente l’energia senza sembrare mai su di giri o alla ricerca di vie di fuga.

La title-track, «The Bridge» è il momento più up-tempo dell’album, dove l’inizio e i primi cori sono punteggiati da discese ardite e risalite, un metodo che consente al line-up di creare e rilasciare la tensione, creando un contrasto tra le parti più sostenute e quelle più contenute; la melodia è l’ingrediente scelto per il magnifico assolo che domina per l’intero pezzo. «You Do Something To Me» ha un groove molto funk ed è una raffinata performance senza eccessi, molto regolare, dove un levigato arrangiamento anticipa di vent’anni certe creazioni smooth jazz. L’interazione tra Rollins e Hall è decisamente impressionante, rendendo questo set di ritorno quasi un classico e di grande impatto emotivo. Anche se non tutti la pensarono allo stesso modo, condizionati dal fatto che Miles Davis aveva registrato «Kind of Blue»; Ornette Coleman «The Shape of Jazz to Come», dischi innovativi che aprivano nuovi fronti di guerra per il jazz. L’attesa del ritorno era stata estenuante per gli appassionati che si chiedevano come sarebbe stato il redivivo Rollins e soprattutto in che modo avrebbe affrontato queste nuove sfide. Come avrebbe riguadagnato la sua precedente posizione di preminenza?

In fondo, come già accennato, Rollins spiegò che nel 1959 aveva voluto fermarsi a riconsiderare la sua attività ed a migliorarsi. In «The Bridge» non voleva innovare ma consolidarsi e lo fece. Non c’è pianoforte e questa potrebbe essere l’unica novità, anche se relativa. Più volte abbiamo sottolineato come il colosso amasse un suono scarno e basato sulle circonvoluzioni del suo tenore senza troppi pretendenti con cui condividere la scena. Da sottolineare, come autentica novità, la presenza di una chitarra, all’epoca strumento assai inusuale nel jazz. Anche qui i suoi assoli appaiono come proposizioni ed invenzioni cerebrali che suonavano come se potessero essere trascinati all’infinito. «Sottolineo sempre che la musica non finisce mai, continua sempre, non c’è mai un vero taglio netto», diceva. Le sue improvvisazioni erano sempre governate tanto dalla sequenza armonica sottostante quanto dallo sviluppo e dalla variazione tematica di un’idea melodica. Quando fu pubblicato «The Bridge» molti capirono che non c’era nulla di così innovativo rispetto a Miles Davis che improvvisava sulle modalità esecutive o Ornette che ripudiava quasi tutto quello che era successo prima. Forse, però, la lezione da apprendere è che Rollins sarebbe sempre andato per la sua strada, seguendo una direttrice di marcia da lui fissata e avvalendosi di una bussola sonora ed orientativa del tutto personale. Dopotutto, questo è ciò che ha continuato a fare e che continua a fare lungo tutto l’arco della sua carriera. Più tardi, quello stesso anno, Rollins tese lo sguardo e l’orecchio verso la «nuova musica» e collaborò con Don Cherry, proveniente dal gruppo di Ornette Coleman, producendo un album di notevole impatto creativo ed evolutivo, «Our Man In Jazz». ma anche in quel caso dimostrò quanto il suo fosse più che un jazz «libero», una sorta di stile libero alla Rollins, stravolgendo ed innovando a sua immagine e somiglianza ciò che a molti sembrava già un punto di innovazione irraggiungibile.

Sonny Rollins

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