«Telamon» di Mauro Patti, un’esperienza d’ascolto polisensoriale, ma soprattutto di elevato valore musicale (Dodicilune, 2024)
…gli arrangiamenti a maglie larghe (curati dallo stesso Mauro Patti) offrono l’opportunità ai singoli musicisti di esprimere la propria vaglia, pur operando in maniera circolare, al fine di giungere sempre al nucleo gravitazionale del costrutto melodico-armonico.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Senza scomodare illustri precedenti nell’ambito della storia del jazz mondiale, possiamo tranquillamente affermare che, quasi tutti i dischi in cui il capo struttura è un batterista, esprimano una visione dello scibile sonoro più espansa, aperta e collegiale. L’uomo dei tamburi, generalmente, ha necessità di trovare validi alleati di prima linea a cui affidare la narrazione tematica del concept. Lo sa bene Mauro Patti, giovane batterista, percussionista, compositore e arrangiatore agrigentino, che è riuscito fare di necessità virtù e l’album «Telamon», pubblicato dalla Dodicilune, ne è una dimostrazione aurale e tangibile. Un primo tratto saliente dell’album è costituito dalla regola d’ingaggio adottata in fase di registrazione, ossia il desiderio del batterista leader di volere catturare l’humus del luogo e l’interplay tra i musicisti e mantenere elevato il livello di sinergia fra le singole parti, riprendendo l’ensemble attraverso una sorta di studio/live senza metronomo, overdubbing, post-produzioni, tagli, effettistica, rimaneggiamenti o editing vari. Tale approccio ha permesso la ripresa di un’opera «viva» basata su una performance a sangue caldo, sorgiva e spontanea, a sottolineare l’importanza del collettivo, metaforicamente, simboleggiato dalla figura di Telamone.
Ad ispirare il progetto è proprio la figura di Telamone, rappresentato da un imponente gigante di tufo con i gomiti alzati presente nel tempio di Zeus ad Agrigento. Indicato anche con il nome di Atlante, esso era posto, insieme ad altri figure mitologiche della medesima stazza, a sostegno del tetto del tempio, quale segno visibile della forza che scaturisce dell’unità d’intenti. Il secondo elemento distintivo di «Telamon» è dato proprio dalla ricchezza e dalla coesione strumentale, nonché dagli arrangiamenti a maglie larghe (curati dallo stesso Mauro Patti) che offrono l’opportunità ai singoli musicisti di esprimere la propria vaglia, pur operando in maniera circolare, al fine di giungere sempre al nucleo gravitazionale del costrutto melodico-armonico. Il terzo punto di eccellenza è il frutto dalla scelta compositiva e dalla perfetta amalgama delle partiture, nonostante talune mostrino apparenti diversità di conio: otto componimenti originali, tutta farina del sacco di Mauro Patti, «Caravan» di Duke Ellington, Juan Tizol e Irving Mills e un tributo a John Coltrane con testi di Fabio Leone, il quale appone la sua firma anche sui tre brani della suite d’apertura «Kalós» e su «Chiantu» con le musiche di Patti ed Eugenio Di Stefano.
Mauro patti condivide il lavoro con un valido e affiatato line-up: Giovanni Benvenuti (sax tenore), Pierpaolo Zenni (piano), Matteo Bonti (contrabbasso) ampliato da Francesca Bongiovanni (voce), Lorenzo Simoni (sax alto), Alessandro La Neve (sax baritono), Matteo Bonti (contrabbasso), Andrea Liotta (percussioni cubane) e allargato a due guest, Giovanni Falzon (trombone) e Luca Tapino (Tromba), nella traccia numero sette. La ricchezza strumentale produce un efficace melting-pot sonoro che spazia dall’afro-cuban-jazz all’afro-beat, fino a intrecciare filamenti rock e suggestioni mediterranee e medio-orientali, tutti elementi di confluenza che si coagulano nelle antiche costumanze popolari di una Sicilia, da sempre, aperta ad assorbire umori, suoni e colori provenienti dai quattro punti cardinali della musica. Tutto ciò diventa il retroterra ideale per un progetto identitario, che narra la storia millenaria di Agrigento, tramite l’epica in musica di personaggi storici, figure mitologiche ed il fascino di luoghi incantati ed avvolti in un misticismo antico, dove «ci sono cose che hanno quasi tremila anni, ma se le tocchi sono ancora calde», come diceva quel personaggio di un romanzo di Sciacia.
L’opener è strutturato come una suite in tre tempi, un formato tridimensionale e multi-direzionale finalizzato a condensare le molteplici anime dell’autore: Kalós pt.1-2-3 sono composizioni in sequenza ammantate da un’aura mediterranea che si sviluppa in un crescendo emotivo e strutturale, per poi consumarsi tra melodie avvolgenti e un’orgia percussiva che evidenzia la natura afro-beat e cuban-style del concept, corroborata dalle sfreccianti improvvisazioni dei solisti, mentre il testo descrive la caducità e limiti temporali dell’esistenza umana. «Porta dei Venti», ispirato all’antico quartiere agrigentino storicamente abitato da popolazioni arabe, è un componimento legato «Bibbirría» con cui si compenetra idealmente andando a creare la «Bibbirrìa Suite», multiplex dal sapore etnico imperniato su una struttura swing alla McCoy Tyner ed arricchito da una serie di dispositivi ritmici che lo rendono simile ad una danza rituale che, nella seconda parte, si trasforma in rullo di emozioni descrittive e cinematografiche. Il testo del brano racconta di una coppia di amanti di passaggio in città soggiogati dalla luminosa bellezza di Agrigento. «Demareteion (Naima)» è un insolito tributo a Coltrane che salda insieme, in un singolare arrangiamento, «Aisha» e «Naima» del sassofonista, a cui è stata aggiunta un’uscita finale inedita. La bellezza dei temi e l’arrangiamento modulare determinano uno sviluppo quasi narrativo, mentre il testo fa riferimento a Damarete, figlia di Terone di Agrigento e moglie di Gelone di Siracusa, una donna moderna in notevole anticipo sui tempi: la prima nella storia a difendere attivamente i diritti dell’infanzia, battendosi con il crudele e primitivo rito del sacrificio di bambini. «Chiantu»a nasce da un adattamento quasi blues della marcia funebre popolare agrigentina che, a tratti, ricorda il sound sofferente e lacrimale delle marching band funerarie di New Orleans, recuperando progressivamente un piglio vitale, sostenuto dal potente apporto percussivo di matrice afro-siculo e dai fiati urlanti che s’intensificano con l’apporto di Giovanni Falzone alla tromba e Luca Tapino al trombone.
«Umbilicus pt.1», eseguita in piano trio con un finale riservato al sax tenore, è una ballata languida e crepuscolare che disegna la rottura di un legame sentimentale, la cui carica di sofferenza è ancora alimentata da «Umbilicus pt.2». Il secondo tempo del film sonoro, per contro, diventa il superamento della frattura e il diradamento delle paturnie degli ex-amanti, manifestandosi attraverso una maggiore complessità armonica e strumentale, la quale mescola i contrasti tra ritmo e melodia, quasi come un ritorno alla vita: paradossalmente, una tempesta dopo la quiete. «Caravan (Tribute to Giulio Capiozzo)» è una reinvenzione dello standard ellingtoniano secondo la versione arrangiata dal batterista Capiozzo, fondatore degli Area, dove il substrato swingin’ viene imbevuto e caricato di essenze e nuances afro-caraibiche. L’intreccio di stili determina una rigonfia tensione sulla spinta propulsiva della retroguardia percuotente, propedeutica alle fughe dei solisti, i quali dissodano e preparano il terreno ad un potente assolo di batteria. Al netto di ogni congettura, analisi filosofica, letteraria o musicologica, «Telamon» è un album che sottolinea il potere dell’unità ed il senso dell’orientamento all’interno di vari moduli jazzistici, favorendo un’esperienza d’ascolto quasi olistica e polisensoriale, ma soprattutto di elevato valore musicale.