«Disillusion» di Michele Perruggini, un puzzle sonoro, dove le tante tessere del mosaico brillano attraverso i colori dell’anima (Abeat, 2024)

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Solo apparentemente fa capolino, come la punta di un iceberg, un desiderio innato di «terza corrente», quale conseguenza dell’apparato orchestrale, tra ottoni, archi, tasti e percussioni che si inseguono e si compensano. In verità, siamo alla terza dimensione o alla quadratura del triangolo tematico del jazz contemporaneo.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Ricchezza strumentale e varietà di stili, una formula dilatata di jazz del terzo millennio, che afferma un suo desiderio di diversità innescato dalla globalizzazione della musica che non significa dispersione, magastore delle idee a buon mercato messe negli scaffali in bella vista per attirare un pubblico indistinto pur di far accomodare alla cassa più gente possibile. Nella nostra epoca la musica è spesso come il volantone pubblicitario di un supermercato, di quelli che troviamo nella cassetta delle poste, dove c’è di tutto, ma senza una logica. Il jazz contemporaneo, talvolta produce una sensazione simile ad una mera «illusione», un’offerta speciale che riempie il carrello ma non di intime suggestioni, arrestandosi un attimo prima che cuore e cervello possano entrare in contatto. Fortunatamente, non è così quando i vari reparti merceologici della musica sono giustapposti in maniera razionale e confluisco intorno al nucleo centrale di un’idea che dispensa emozioni e non bollini per la raccolta punti. È il caso del terzo capitolo discografico di Michele Perruggini, pubblicato dalla Abeat Records. «Disillusion» opera al contrario rispetto alla vendita al dettaglio, parcellizzata e frantumata di illusioni in confezione spay, ma si dipana sull’asse di una concretezza melodico-armonica che trae linfa vitale da molti snodi cruciali dello scibile sonoro evitando, pero, accuratamente il copia e incolla dei sentimenti in streaming o dell’assortimento all’ingrosso. Di voluminoso c’è soltanto l’ensemble strumentale che garantisce un variegato percorso che si muove con agilità spostando il timone del jazz in varie direzioni, ma senza mai perdere la rotta.

Al netto di ogni metafora, il titolo dell’album assume un carattere prettamente metaforico riflettendo la «disillusione» legata al mestiere del vivere in un mondo intrappolato in un centro commerciale basato sull’effimero. E mentre i tredici brani, tutta farina del sacco di Perruggini, passano in rassegna si avverte la consapevolezza dello svanire di talune certezze tradotte perfettamente in musica, dove intricato corredo cromatico esprime dolore, rabbia, sopportazione, resilienza, tenacia, sogni e desideri. E come quasi in tutti in concept, dove il band-leader è un batterista, si verifica il miracolo della perfetta collegialità, in cui le forze di prima linea devono dare man forte alle idee della retroguardia: i batteristi pensano alle melodie come ad una liberazione e ad una fuga – che il gioco delle sole bacchette non consentirebbe – ed al ritmo come un propellente che apre la melodia come ali fatte per volare e trascinarla lontano. Perruggini, alla batteria, guida un folto line-up di musicisti che conoscono bene le regole auree della sinergia di gruppo: Roberto Olzer pianoforte, Yuri Goloubev contrabbasso, Guido Bombardieri sassofono soprano e clarinetto, Gilson Silveira percussioni, Fausto Beccalossi fisarmonica (tracce 3, 9), Pino Mazzarano chitarra elettrica (tracce 2, 6, 11), Peo Alfonsi chitarra classica (tracce 7, 13), Cesare Carretta violino, Silvia Maffeis violino, Vincenzo Starace viola, Nicolò Nigel Nigrelli violoncello e, ciliegina sulla torta, la partecipazione sull’ultima traccia dell’album di Agostino Marangolo, nome omen, alla batteria.

«Disillusion» di Michele Perruggini è il prodotto di sintesi di una mini big band che riesce ad intelaiare un fitta trama narrativa fatta di ambientazioni soffuse e coinvolgenti, con influenze mediterranee dal marcato tratto melodico, innesti di blues, risonanze africane, reminiscenze eurodotte e variegati moduli jazzisti messi a dimora con estrema ricercatezza e spirito di squadra. Solo apparentemente fa capolino, come la punta di un iceberg, un desiderio innato di «terza corrente», quale conseguenza dell’apparato orchestrale, tra ottoni, archi, tasti e percussioni che si inseguono e si compensano. In verità siamo alla terza dimensione, o alla quadratura del triangolo tematico del jazz contemporaneo. Basta ascoltare le prime tracce dell’album come l’iniziale «Running Away» dal movimento descrittivo e quasi cinematografico, o la successiva «Out Of Dark», spaziale , aperta e segnata da una vocazione fusion con una chitarrista che «canta» sotto le mentite spoglie di una balladeer; per non parlare di «On A Cod Night», che con la sua atmosfera fiabesca e l’accordion che fa molto retrò, disegna perfettamente il terzo lato del triangolo, cosi come «I Can See The Sunrise» s’immerge uno scenario fiabesco da foresta incantata, facendo pensare a talune soluzioni tipiche del jazz nordeuropeo. Uno scandaglio più approfondito dei tredici componimenti, scritti e arrangiati dal batterista leader, ci induce a ritenere che ogni brano non sia solo una sequenza di note e di accordi virtuosistici, ma un costrutto concettuale coerente implementato su un’idea e guidato dalla forza di un pensiero mai banale. Ne è un dimostrazione tangibile «Beside You», che ammantata da una nuvola sospesa di archi, trascina il fruitore in un habitat d’altri tempi, dove sogno e realtà sembrano incontrasi: perfetto l’amalgama e l’interplay tra archi, fiati e pianoforte. «Remembering» s’inserisce sulla medesima falsariga, dove il tema introdotto dal pianoforte fa germogliare immediatamente un coacervo di sensazioni policrome. «The Call Of Nature» segna un cambio di passo con una ritmica quasi afro-gitana ed uno svolgimento tematico a vocazione new age: un encomio solenne alla chitarra acustica; per contro «Truth Comes» inizia come una ballata malinconica e si trasforma progressivamente in una danza mediterranea dal cuore antico. Muovendosi fra le varie tracce si avverte immediatamente che non mancano mai intensità, poesia e ispirazione, sempre magnificata dalla compliance tra le varie unità in campo.

«Awakening My Mind» segue ancora l’estasi del piacevole nostalgismo con una fisarmonica tanguera ed un clarinetto che si scambiano gli anelli ed eterna fedeltà al tema. «Awareness» è una potente ballata a mezza altezza che cresce ad ogni cambio di mood e di passo, comunicando, al contempo, gioia, meraviglia, entusiasmo e passione: fiati e pianoforte supportati dalla retroguardia ritmica raggiungono vette d’eccellenza, mentre una medaglia al valore va agli archi per la splendida uscita. Ogni ingranaggio è perfettamente incastrato in un puzzle sonoro, come le tante tessere di un mosaico pronte a brillare attraverso i colori dell’anima. Basta calasi nella suggestiva e struggente atmosfera della title-track, «Disillusion» che, sulla scia di un camerismo a vocazione sinfonica, sembrerebbe descrivere un insieme di emozioni che scaturiscono in un trascinate crescendo corale, su cui la chitarra disegna tutta la sua contemporaneità. «Now Embrace Me», dopo aver affidato agli archi l’apertura, si abbandona ad una piacevole melodia dai contrafforti italici e dall’alto gradiente di cantabilità. In conclusione, «It’s Time To Go Home» rappresenta l’agognato ritorno a casa in un enclave sonora tra Bari e Napoli, dove il batterista pugliese trova il suo alter ego in un signore dei tamburi, come Agostino Marangolo, con il quale crea un’atmosfera da «Black Market» alla Weather Report, ma qui il mood ed il fragore sono quelli di un chiassoso mercato del Sud Italia. «Disillusion» di Michele Perruggini è un lavoro di alta sartoria musicale, dotato di un eccellente qualità sonora, tale da sedurre anche il più esigente degli audiofili.

Michele Perruggini

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