Vercelli

di Guido Michelone

D Duccio, quando nasce in lei la passione per il jazz?

R Risale agli anni tra il 1949 e il 1950, ai tempi del Ginnasio e poi del Liceo. Mike Bongiorno, che allora teneva una rubrica sul jazz alla radio e da lui ho sentito parlare per la prima volta di bebop. All’epoca i rari appassionati di jazz erano divisi in due fazioni i tradizionalisti (che ascoltavano i generi hot, dixieland e swing) e i modernisti (affascinati dalla musica introdotta da Charlie Parker e Dizzy Gillespie). Poi io e altri decidemmo di fondare un Jazz Club a Vercelli nel 1953: come sede usavamo una sala sotterranea nei locali del Cinema Astra, dove facevano riunioni soprattutto per ascoltare i dischi e dove partecipavano semplici appassionati e anche giovani futuri jazzisti come i fratelli Memo e Angelo Cattaneo e poi altri due fratelli: Sergio e Renzo Rigon (entrambi sassofonisti ed estasiati dall’ascolto dei dischi di Lee Konitz).

D Può descriverci cosa accadeva di solito al jazz club o come si svolgeva un tipico incontro?

R Il bello di questi incontri, pomeridiani o serali, erano le discussioni fra noi ragazzi; non ci si fossilizzava su Louis Armstrong o Duke Ellington, ma si guardava avanti, anche se a convincerci di passare decisamente al moderno fu uno studente molto più giovane di noi, Pier Benedetto Francese, che ci fece ascoltare Lennie Tristano: con lui andammo nel 1956 a un concerto del “Birdland All-Stars in Europe Tour”, con nientemeno che Miles Davis, Lester Young, Bud Powell, il Modern Jazz Quartet, il René Urtreger Trio il 22 Novembre 1956 al Teatro di via Manzoni di Milano; un’esperienza indimenticabile.

D Suppongo che quello non fu l’unico concerto di quegli anni per voi del Jazz Club…

R Spesso noi giovani soci fondatori ci recavamo a Milano o a Torino ad ascoltare grandi concerti e ci accompagnava sulla sua automobile, una Topolino, il professor Nino Marinone, allora insegnante di Greo e Latino al Liceo Classico, in seguito un illustre docente universitario e per noi era un grande motivo di orgoglio avere ‘in compagnia’ un personaggio importante come lui che era pure un appassionato di jazz.

D Mi racconta esattamente chi erano i protagonisti di quello che dunque risulta il primo Jazz Club di Vercelli?

R I soci fondatori eravamo io e Giuse Bianzino, clarinettista, forse il primo jazzman vercellese in assoluto a registrare un disco jazz, però a Pavia con una formazione lombarda chiamata. Poi altri due, Pier Mario Vallaro, futuro avvocato, ottimo disegnatore, che disegnò il manifesto del Club, con le rane musiciste, quindi Edo Roy in seguito imprenditore di successo. Ma c’era pure un quinto personaggio, pure lui giovanissimo, che a Vercelli pochi ricordano, perché si trasferì quasi subito a Milano, diventando una figura notissima nell’ambito dell’estrema destra: Toni Staiti.

D Ma si tratta di Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, detto “il barone nero”?

R Sì, lui, nato appunto nel 1932 a Vercelli e morto a Milano sei anni fa [2017]. Vero dandy, sempre elegantissimo, persino Susanna Agnelli restò impressionata dalla sua eleganza: fu parlamentare del Movimento Sociale tra il 1979 e il 1992. Celebre perché riteneva Giorgio Almirante troppo tiepido, Toni era amabile conversatore con Giovanni Agnelli sul tema Juventus, ma assurse ai fasti della cronaca per u a forte inimicizia con il democristiano Giovanni (a sua tempo Presidente del Consiglio) al quale il 20 luglio 1989 molla due schiaffoni nel Transatlantico di Montecitorio, apostrofandolo come ‘bancarottiere, peculatore, falsario, massone, verme’.

D Suona strano che un fascistone potesse amare il jazz, ma tornando al jazz club, si parlava di destra o sinistra al proprio interno?

R Nel 1953 noi i soci fondatori, tutti giovanissimi, non parlavamo di politica, perché eravamo totalmente concentrati ad ascoltare il jazz su parecchi dischi grazie al signor Belli, titolare di un negozio che vendeva 78, 45, 33 giri: appassionato e competente ci riforniva delle novità, che gli arrivavano ogni settimana: a volte un disco era così bello che lo sentivamo anche per sei-sette ore filate, manche per poterlo imparare a suonare.

D Come in una bellissima esilarante scena di Festa di laurea di Pupi Avati dove l’orchestrina cerca di imparare a memoria un brano jazz ascoltandolo e imitandolo ripetutamente su un vecchio grammofono, facevate così anche voi?

R Tentavamo di ripetere le note dei dischi, a l’unico che sapeva suonare in modo passabile uno strumento, il clarinetto, era non a caso il Bianzino, il quale sapeva anche leggere la musica. Vallaro suonicchiava il pianoforte grazie un orecchio eccezionale. A me affidavano la batteria, che era poi un tamburello. Per fortuna trovammo Giorgio Nascimbene che era molto bravo alla chitarra.

D Oltre suonicchiare, ascoltare dischi, andare a Milano o Torino , riuscivate a organizzare concerti?

R Ne organizzammo uno, pochi giorni dopo la fondazione del Jazz Club, al Salone Dugentesco di Vercelli, che già ospitava veneti musicali come il Concorso Viotti: chiamammo la Milan College Jazz Society, tra i massimi esponenti del dixieland revival italiano. Poi avremmo voluto il Basso Valdambrini Sextet che allora rappresentava il top del jazz moderno in Italia e forse anche in Europa. Ma Gianni Basso, Oscar Valdambrini e Rodolfo Bonetto – che avevamo contattato – avevano dei cachet insostenibili per il Jazz Club. Per fortuna potevamo contare su amici come il citato Sergio Rigon, allora giovanissimo come noi, che avrebbe poi intrapreso una bella carriera, al sax baritono e al flauto, suonando sia il traditional ad esempio con Joe Venuti nei suoi passaggi italiani sia il free all’interno di una big band di Giorgio Gaslini.

D Ci sono stati incontri con altri musicisti di grande livello?

R Un inverno io e Francese andammo a Grindelwald, in Svizzera, per sciare, dormendo nell’hotel dove la sera suonava il nostro amico Cattaneo alla batteria, in un complessino che faceva canzonette e dove al basso c’era un sedicenne appassionato di musica e tecnologia: una seria ci mostrò un suo Revox a otto piste, una rarità per quei tempi, un registratore con cui in camera faceva esperimenti, sovrapponendo voci e inventando collage sonori. E chi era questo ragazzo? Giorgio Moroder che pochi anni divenne un’autorità nella pop music internazionale, vincendo addirittura tre Oscar a Hollywood. Ma già a Grindelwald con questa band chiamata Chorafas, di cui tra l’altro era il capogruppo, intuivamo che c’era qualcosa di nuovo (e di geniale nel manipolare i suoni).

D Al di fuori dei jazz club come veniva vissuto il jazz in Italia, in quel periodo, grosso modo tra gli anni Cinquanta e Sessanta?

R Era l’epoca in cui il jazz era qualcosa di esotico; c’era una parte di pubblico che lo considerava raffinato, un’altra che lo ascoltava solo perché stava diventando qualcosa alla moda, che faceva moderno e un ‘altra parte ancora che voleva l’assolo di batteria e a ogni concerto gridava ‘battery’. Per me il jazz, con il passare del tempo, rappresentava qualcosa di classico. Considero Parker un genio alla stregua di Vivaldi. E quando non dovevo studiare perdevo anche sei ore al giorno ad ascoltare i dischi con Charlie Christian, quasi con il fascino dell’incunabolo.

D Perché, a un certo punto, il Jazz Club si sciolse?

R Per l’età, incominciavamo a lavorare e a mettere su famiglia e non avevamo più molto tempo per stare assieme. Per tutti gli anni Cinquanta ha funzionato benissimo, nel decennio successivo ognuno è andato per la propria strada. Ma ancora durante gli anni Sessanta compravamo i 33 giri tutti insieme, poi a turno ciascun o di noi li registrava. Ricordo ancora di un Chet Bakre d’importazione pagato tremila lire, quando un pranzo in trattoria costava quattrocento lire.

D Chi dei membri del Jazz Cklb Vercelli è rimasto più vicino al jazz?

R Come musicista Giuse Bianzino, anche se poi ha fatto l’insegnante all’ITIS: tuttavia già all’epoca entrò in contatto con Mike Bongiorno e con il musicologo e compositore Livio cerri che abitava a Pavia, dove faceva il dentista; Cerri scrisse le note di copertina per l’album omonimo della Blue River’s Jazz Band (1958) una formazione tutta pavese dove lui era l’unico di Vercelli. E quale collezionista di dischi direi Pier Benedetto Francese, il quale, grazie alla sua professione di ambasciatore, è riuscito a raccogliere in giro per il mondo migliaia di vinili: ogni volta che vado a trovarlo resto stupefatto da tanta ricchezza musicale!

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