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Il Capolinea non fu soltanto un locale jazz: fu un crocevia di storie, suoni e incontri irripetibili. La sua importanza storica si misura non solo nella qualità degli artisti che vi si esibirono, ma anche negli eventi che vi si svolsero e nei dischi che vi furono registrati.

// di Irma Sanders //

Il Capolinea fu molto più di un locale notturno: fu un’istituzione culturale, un laboratorio di sperimentazione musicale, un rifugio per anime affini. La sua storia ci ricorda quanto i luoghi possano incidere nella costruzione dell’identità collettiva e quanto la musica, quando vissuta in comunità, possa diventare rito, memoria e mito. Nel panorama culturale e musicale del secondo Novecento italiano, pochi luoghi hanno saputo incarnare lo spirito del jazz come il Capolinea di Milano. Situato in via Ludovico il Moro 119, al termine del percorso del tram 19, il locale non fu soltanto un club musicale, ma un vero e proprio epicentro di esperienze artistiche, sociali e affettive. Fondato da Giorgio Vanni, il Capolinea rappresentò per decenni un crocevia di culture, un laboratorio sonoro e un rifugio per musicisti e appassionati. Il locale era noto per la sua atmosfera familiare ed informale, dove artisti e pubblico condividevano lo stesso spazio, spesso anche lo stesso tavolo. Era consuetudine che, dopo i concerti ufficiali nei teatri cittadini, i musicisti si ritrovassero lì per jam session notturne che si protraevano fino all’alba.

Negli anni ’70 e ’80, Milano visse una stagione musicale straordinariamente vivace, eclettica e profondamente trasformativa. Era una città in fermento, dove il jazz, il rock, la canzone d’autore, la disco e la musica sperimentale convivevano in un ecosistema culturale unico, alimentato da locali iconici, festival, radio libere e un pubblico curioso e partecipe. Negli anni ’80 poi, Milano divenne la capitale della cosiddetta “Milano da bere”, un’espressione che sintetizzava il boom economico, l’edonismo e la nascita di una nuova borghesia urbana. In questo contesto, nacquero locali come il Plastic, regno della notte e dell’avanguardia, frequentato da Andy Warhol, Freddie Mercury, Prince, Elton John. Era un luogo dove la musica si fondeva con la moda, l’arte e la provocazione. Milano fu anche la città di Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Ivan Della Mea, figure che seppero fondere teatro, satira, poesia e musica. Nei piccoli teatri e nei cabaret, come il Derby Club, si sperimentavano nuove forme di spettacolo, spesso in dialogo con le tensioni sociali e politiche del tempo. Una città che suonava ovunque: Dai Navigli a Brera, da Lambrate a Porta Genova, Milano era un mosaico di suoni. Ogni quartiere aveva il suo locale, il suo pubblico, la sua scena. La musica era ovunque: nei bar, nei centri sociali, nei cortili delle case di ringhiera. Era una città che suonava, e che faceva della musica un linguaggio comune, trasversale, inclusivo.

Il Capolinea si configurava come un luogo liminale, al confine tra la città e l’ignoto, tra la notte e l’alba, tra la musica scritta e l’improvvisazione pura. La sua posizione geografica – in fondo ai Navigli, quasi a segnare un confine simbolico – rifletteva la sua funzione culturale: un punto di arrivo e di partenza, un capolinea esistenziale per chi cercava nella musica un senso di appartenenza. Il prestigio del Capolinea si consolidò grazie alla presenza di autentiche leggende del jazz mondiale. Tra i nomi che calcavano il suo palco figurano Chet Baker, Miles Davis, Gerry Mulligan, Dizzy Gillespie, Steve Lacy, Chick Corea e Bill Evans. La loro presenza non fu episodica, ma parte di un dialogo continuo tra la scena americana e quella europea, in cui Milano – e il Capolinea in particolare – giocava un ruolo di snodo fondamentale. Accanto ai giganti internazionali, il Capolinea fu anche fucina e vetrina per i protagonisti del jazz italiano. Figure come Nando De Luca, Paolo Tomelleri e Lino Patruno contribuirono a definire un’identità musicale autoctona, capace di dialogare con le influenze d’oltreoceano senza rinunciare alla propria originalità. Il legame tra Patruno e Joe Venuti, ad esempio, testimonia la profondità delle relazioni artistiche che si sviluppavano in quel contesto.

Tra i documenti più preziosi della storia del locale vi sono le registrazioni dal vivo, che catturano l’energia e l’intimità delle esibizioni. Il più celebre è senza dubbio: Chet Baker, «At Capolinea» (Red Records, 1983) Registrato durante una serata memorabile, questo disco è considerato uno dei vertici del lirismo bakeriano. Accompagnato da una formazione italo-francese di altissimo livello (Nicola Stilo al flauto, Diane Vavra al sax soprano, Michel Grailler al piano, Riccardo Del Fra al contrabbasso, Leo Mitchell alla batteria), Baker regalò una performance intensa e struggente. Il brano d’apertura, una versione di «Estate» di Bruno Martino, è diventato un classico. Frequentatore abituale, Baker suonò anche nella stanza privata di Giorgio Vanni, al piano superiore del locale, in un momento di intimità musicale e umana. D’importanza storica anche il live del Banco del Mutuo Soccorso, «Capolinea», (Ricordi, 1979), un’incursione del progressive rock italiano nel tempio del jazz. Questo album, registrato dal vivo, testimonia la versatilità del locale e la sua apertura a linguaggi musicali diversi, pur mantenendo una forte identità jazzistica. Il Capolinea non fu solo un club: era una casa, una sorta di rifugio. Giorgio Vanni e la sua famiglia seppero creare un ambiente accogliente, dove il pubblico si sentiva parte di una comunità. La convivialità era palpabile: dalla musica alla bruschetta a prezzi popolari, ogni dettaglio contribuiva a costruire un’esperienza immersiva e autentica. Il locale divenne così un luogo della memoria, scolpito nel cuore di chiunque lo abbia vissuto. Come già raccontato, Chet Baker era uno di famiglia. Pochi giorni prima della sua tragica morte ad Amsterdam, era tornato ancora una volta al club Milanese – come un presagio – quasi a salutare un luogo che sentiva come casa.

Nel luglio del 1980, dopo un concerto al Castello Sforzesco, Bill Evans si recò al Capolinea per salutare gli amici. In un momento di rara intimità, confessò di avere solo poche settimane di vita. Morì due mesi dopo. Quel gesto, quel passaggio finale in un luogo amato, è rimasto scolpito nella memoria collettiva come un addio struggente e dignitoso. Gerry Mulligan, altro gigante del jazz, incontrò al Capolinea quella che sarebbe diventata sua moglie. Non fu solo un incontro musicale, ma umano, affettivo. Il Capolinea era anche questo: un luogo dove la musica intrecciava i destini. Una sera irripetibile vide salire sul palco Art Blakey con i suoi Jazz Messengers, tra cui un giovanissimo Wynton Marsalis. Il pubblico, ignaro di trovarsi davanti a una futura leggenda, fu travolto da un’energia primordiale. Marsalis, appena diciottenne, lasciò tutti senza parole. Dopo la chiusura nel 1998, il pianoforte Yamaha CS del Capolinea è stato restaurato e oggi si trova nella storica Palestra Visconti, dove continua a suonare durante concerti jazz, mantenendo viva la memoria del locale. Fecero storia anche la bruschetta, la sciura Maria ed il fonico che serviva birre. Denis Cancino, tecnico del suono e cameriere improvvisato, racconta di come una sera, durante un concerto di Chet Baker, si ritrovò a servire ai tavoli ed a gestire il mixer contemporaneamente. Il palco era piccolo, il mixer vecchio, i cavi un disastro. Ma l’atmosfera era magica. La sciura Maria, moglie di Giorgio Vanni, usciva dalla cucina urlando per il caos, ma tutto funzionava. Era il caos organizzato del jazz. Dal 1973, il maestro Enrico Lucchini tenne lezioni di batteria al piano superiore del locale. Gli allievi arrivavano da tutta Italia. Di giorno si studiava, di notte si suonava. Il Capolinea fu una sorta di accademia informale dove s’imparava ascoltando e vivendo, dove potevi trovare un personaggio televisivo con una modella seduto accanto a quattro operai. Si mangiava tutti insieme alle sette di sera: musicisti, camerieri, amici e famiglia. Era un luogo dove le classi sociali si annullavano, unite dalla musica e dalla convivialità. Il Capolinea non fu soltanto un locale jazz: fu un crocevia di storie, suoni e incontri irripetibili. La sua importanza storica si misura non solo nella qualità degli artisti che vi si esibirono, ma anche negli eventi che vi si svolsero e nei dischi che vi furono registrati, autentiche testimonianze sonore dell’epoca d’oro del jazz in Italia. Oggi, al posto del Capolinea, si trovano abitazioni e studi professionali. Il ristorante adiacente è chiuso, e il silenzio ha preso il posto delle note.

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2 thoughts on “Il Capolinea di Milano: Storia, Memoria e Mitologia di un Tempio del Jazz Italiano

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