Afroamericana. Tre nuovi libri per chi ama il jazz quale musica multietnica

…nelle cosiddetta Era Moderna, con le scoperte geografiche, conducono a un inedito assetto politico, dove la schiavitù, come appena vista, è un asse portante della vita economica nelle colonie delle grandi potenze europee.
// di Guido Michelone //
Le origini della storia del jazz, come pure di quella assai più lunga (circa quattro secoli) della musica afroamericana curiosamente assomigliano alle radici delle prime civiltà: di tutte si sa poco nulla, ma, mentre di Egizi, Sumeri, Greci, eccetera, esistono leggende e mitologie che ne raccontano la nascita, mescolandosi spesso a cosmogonie, poemi, religioni, favole, per il jazz ciò viene a mancare in considerazione del fatto che la genesi o la primogenitura vanno cercate nella storia delle popolazioni africane deportate nel Nuovo Mondo: si tratta di una realtà vergognosa che già all’epoca, dal XVI secolo, nessuno vuole o sa raccontare. Da quando interi popoli vengono prelevati nell’Africa Subsahariana e ridotti in schiavitù nelle Americhe fino al 1776 con l’Indipendenza degli Stati Uniti dalla Gran Bretagna e con l’abolizione della schiavitù – ambiguamente citata nella pur innovativa costituzione repubblicana federalista – ben poco si conosce di quelli che verranno poi chiamati afroamerican (oggi, con il politically correct per esteso african-amereican). Molti dei 13 Stati originari dell’Unione – soprattutto nel New England democratico e antischiavista – non fanno nulla per studiare la cultura dei neri, intesa antropologicamente in quanto condizioni di vita, usi e costumi e in particolare prassi artistico-intellettuali dei protagonisti della più violenta diaspora nell’intero percorso umano.
Nel Sud, poi, agli schiavisti non interessa fare né teoria né la cronaca della quotidianità dei loro lavoratori forzati, perché potrebbe indurre il nero a ribellarsi oppure (e questo vale anche per il Nord) risultare un atteggiamento controproducente nell’opinione pubblica europea da tempo contraria a queste modalità disumane, ma di fatto tollerate nelle più lontane colonie. Gli schiavi da parte loro non possono raccontare o esprimersi, perché vengono negati gli strumenti culturali per farlo (scrittura in primis) a causa di una feroce censura che si riflette persino nell’attività in teoria di per sé è più libera e spontanea: la musica. Nelle colonie inglesi, di rigida educazione cristiana protestante, viene infatti proibito agli schiavi l’uso delle percussioni, impartendo un’evangelizzazione in cui la parte musicale si rifà ai severi corali luterani, che, però, tra XVII e il XVIII secolo, le genti di colore, che ormai possono definirsi schiavi americani, riescono a ribaltare esteticamente, sino a farne la loro musica. In tal senso lo spiritual – primo in ordine di tempo rispetto a gospel, blues, ragtime, jazz – non è un’invenzione afroamericana perché l’innodia religiosa viene a posteriori chiamata white spirituals, in contrapposizione a quello che già da metà Ottocento è definitivamente consolidato quale negro spiritual, poi semplicemente spiritual, a connotare da lì poi il cammino di un’autentica esperienza sonora afroamericana, in alcuni punti ancora tutta una scrivere.
Ma per capire meglio l’identità del jazz in direzione dell’africanismo e dell’afroamericanità, i musicologi dovrebbero meglio studiare le vicende internazionali che nelle cosiddetta Era Moderna, con le scoperte geografiche, conducono a un inedito assetto politico, dove la schiavitù, come appena vista, è un asse portante della vita economica nelle colonie delle grandi potenze europee. Ecco quindi tre nuovi libri – almeno per quel che concerne le uscite italiane – che possono risultare all’uopo molto utili: Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo di William E. Du Bois, Il mondo atlantico. Una storia globale (XV-XVIII secolo) di Érik Schnakenbourg, Nero. Storie mai raccontate dal Continente alla Diaspora di Amat Levin. Sulla linea del colore è di fatto un’antologia di scritti tra Fine Ottocento e primi Sixtiesda un personaggio complesso, storico e sociologo, romanziere e politologo: William Edward Burghardt Du Bois (1868-1963) non solo risulta la maggiore figura nella politica e nella cultura afroamericana del Novecento, ma a tutti gli effetti resta tra i migliori intellettuali statunitensi del XX secolo: definito un ‘gigante’ da Martin Luther King nell’ultimo discorso in pubblico, poco prima di essere ammazzato. Du Bois, da ritenersi padre nobile del movimento panafricano, risulta altresì tra i fondatori della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), grande organizzazione americana per i diritti civili; a Du Bois si devono concetti divenuti ormai d’uso corrente nel mondo anglosassone, dalla ‘doppia coscienza’ alla ‘linea del colore’, che per la prima volta sono illustrati al lettore italiano mediante un’ampia esaustiva raccolta di scritti politici a documentare l’intera parabola evolutiva di un pensiero utilissimo anche per capire la storia del jazz.
Il mondo atlantico è un saggio dello studioso francese Érik Schnakenbourg (docente all’Università di Nantes) in cui spiega come, grazie alle scoperte portoghesi del XV secolo, la terra al di qua e al di à dell’Oceano si trasformi, in progress, nell’immenso luogo in cui tre continenti (Europa, Africa e Americhe) s’incontrano e s’ingegnano a intessere relazioni spesso asimmetriche. Tale convergenza senza precedenti origina differenti fenomeni: colonialismo, sviluppo economico -commerciale, come pure storiche migrazioni, volontarie o forzate, con il formarsi di inediti scambi a livello socio-etno-culturale (basti pensare appunto al jazz). L’Oceano diventa così uno spazio unico di circolazione, di viaggi, di commerci, di interazioni tanto pacifiche quanto violente. Schnakenbourg dipinge un quadro esaustivo delle metamorfosi nel cosiddetto ‘mondo atlantico’ attraverso i quattro secoli successivi alle scoperte portoghesi (e poi spagnoli, francesi, britannici, olandesi, scandinavi), arrivando fino ai movimenti rivoluzionari della fine del XVIII secolo (sull’onda della rivoluzione francesi) che garantiranno il formarsi e l’evolversi di una nuova identità, fondamentale ad esempio negli Stati Uniti alla creazione della musica afroamericana. Nero, uscito a Stoccolma nel 2022, è opera di un giornalista, scrittore, podcaster Amat Levin, Amat Levin, svedese con origini gambiane, il quale dichiara: “I lettori più attenti avranno notato che il titolo del libro non è Storia dell’Africa. Il motivo è che voglio porre l’accento sulla storia delle persone nere, ossia su quegli elementi della narrazione del continente che tradizionalmente sono stati i più negletti”. Secoli di colonialismo rendono l’Africa irrilevante nell’opinione pubblica, mentre studiosi miopi, impreparati o superficiali da sempre tendono a negarne l’antichità, fino a pregiudizi razzisti intellettuale che addirittura ne decretano l’inesistenza: “La storia africana – continua Levin – ha sempre avuto, per usare un eufemismo, scarsissimi sostenitori. Fino alla metà XX secolo non è stato fatto alcun tentativo di studiarla: si preferiva considerare l’Africa un insieme eterogeneo di stili di vita barbari che l’Occidente si era lasciato alle spalle, uno ‘spazio vuoto’ che aveva acquistato vita solo con l’arrivo dell’uomo bianco. Quando finalmente si cominciò a frequentarla, gli storici si concentrarono solo sul periodo coloniale, per mancanza di fonti autoctone o per l’impossibilità di unificare in un quadro esaustivo elementi tanto diversi tra loro, polverizzati in una massiccia migrazione, violenta e forzata, una diaspora immensa. Ma qualcosa accomuna tutti quegli elementi: appartengono a popolazioni dalla pelle nera e sono stati sistematicamente ignorati”.
Ma è proprio ai neri, in Africa o lontano dal continente (nelle Americhe per esempio) , che Amat dedica il libro, esponendo storie, vicende e identità che purtroppo brillano per la totale assenza dalla storiografia ufficiale. Dall’impero dimenticato di Aksum, grande potenza dell’antichità, al regno di Mapungubwe, il più antico dell’Africa meridionale; da Yasuke, samurai nero nel Giappone del XVI secolo, ad Anton Wilhelm Amo, primo africano in un’università europea; dalla principessa Yennenga, guerriera Mossi che combatte per il diritto di sposarsi, a “Sister” Rosetta Tharpe, afroamericana dell’Arkansas, cantante gospel e de facto madrina del rock’n’roll. Politica, geografia, religione, tradizione si intrecciano in questo mosaico di piccole e grandi narrazioni che fanno di Nero uno strumento prezioso sia per immaginare l’Africa di domani sia, indirettamente, per meglio intendere la negritudine nella storia del jazz. In conclusione Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo di William E. Du Bois, Il mondo atlantico. Una storia globale (XV-XVIII secolo) di Érik Schnakenbourg, Nero. Storie mai raccontate dal Continente alla Diaspora di Amat Levin, usciti più o meno in contemporanea in questo 2025 sono testo utili per chi ama il jazz quale musica multietnica, ma dove la componente nera o africana resta ancor oggi fondamentalissima.

