Intervista inedita a Gato Barbieri. Le radici italiane e la vocazione per il jazz. Dall’Argentina ai riconoscimenti mondiali

Gato Barbieri
/ di Francesco Cataldo Verrina //
Agli inizi di questo terzo millennio, era il 2001, curai un intervista a Gato Barbieri su commissione di un editore che si faceva carico di una pubblicazione legata ad un’associazione italo-argentina costituita da miei corregionali, tra cui parenti e discendenti di entrambi i rami della mia famiglia. Premetto che molti nostri connazionali argentini non conoscono e non conoscevano la figura dell’italo-argentino, Gato Barbieri. Per paradosso, Gato, come musicista, è molto più noto in USA ed in Europa che non nella sua terra natale, dove il jazz è sempre stato un fenomeno di nicchia legato ai figli della borghesia industriale ed agraria, agli intellettuali e alle classi più agiate. In un paese ricchissimo di risorse, in cui la distribuzione del benessere è asimmetrica, dove non esistono le classi intermedie e la musica di stato è il tango, il jazz ha sempre avuto un ruolo marginale. Come lo stesso Barbieri dice nell’intervista, parlando del suo soggiorno a Montevideo. «Ero in Uruguay, allora un po’ più avanzato nel circuito discografico rispetto all’Argentina». Per questo ad altri motivi decidemmo, opportunamente, con l’editore di intercalare nell’intervista alcune brevi note esplicative, oltre ad avere fornito ai lettori alcune informazioni basilari nel cappello introduttivo.
La figura di Gato Barbieri sfida l’etichettatura. Fu un artista liminale e incandescente, capace di attraversare le grammatiche del jazz afro-americano senza imitarle mai, scegliendo invece di rifondarle a partire da un’identità specificamente latino-americana. Non afro-americano, non statunitense, ma profondamente innestato in quella storia sonora, Barbieri portò il peso politico e sentimentale del Sud del mondo dentro una musica che, negli anni ’60 e ’70, viveva una rivoluzione spirituale, sociale ed estetica. La sua parabola artistica è una metamorfosi: dal bebop urbano al free jazz più radicale, dalle colonne sonore cinematografiche alla world music ante-litteram, dal romanticismo orchestrale dei dischi A&M al ritorno maturo degli anni Novanta. La sua poetica si reggeva su una convinzione profonda: il suono non mente. Il sax di Gato non era mai decorativo o cerebrale. Era corpo, ferita, geografia, memoria. Nel cuore delle sue opere migliori – Fénix, The Third World, Viva Emiliano Zapata – Gato risuona una voce che fa tremare il concetto stesso di jazz: lo amplia, lo ibrida, lo carica di materia emotiva e dolore post-coloniale. Barbieri resta così una voce irriducibile, ardente. La sua musica non si limita a raccontare la storia: la sospinge in avanti, le dà un volto nuovo e la fa danzare con il cuore aperto.
Leandro «Gato» Barbieri nasce a Rosario (Argentina) il 28 novembre 1932, dove si forma come musicista autodidatta, iniziando con il clarinetto, per poi passare al sassofono nella prima adolescenza. Negli anni ’50 si trasferisce con la famiglia a Buenos Aires, dove entra in contatto con la scena jazz emergente. Il suo primo banco di prova internazionale arriva, a metà degli anni ’60, con l’ingresso nell’ensemble di Don Cherry, compagine che aderisce al movimento del free jazz. Nel 1967 incide In Search Of The Mystery per la ESP-Disk, segnando il proprio debutto discografico da leader. Seguiranno quattro album storici per la Impulse! Records – la cosiddetta «quadrilogia sudamericana» – in cui il sassofonista argentino fonde linguaggio jazzistico e radici ispanico-latine. Negli anni ’70 collabora con Bernardo Bertolucci alla stesura della colonna sonora del film Ultimo tango a Parigi (1972), ottenendo un successo mondiale; approda, quindi, alla A&M Records, dove firma album orchestrali come Caliente! (1976), ampliando il proprio pubblico e sperimentando nuove estetiche sonore e variabili melodiche. Dopo la morte della moglie ed i gravi problemi di salute, si ritira dalla scena per oltre un decennio, tornando nel 1997 con l’album Qué Pasa: continuerà a suonare dal vivo fino ai primi anni Duemila, dimostrando una resilienza fisica ed una rara tempra artistica. Muore a New York il 2 aprile 2016, lasciando in eredità un corpus musicale che ha ridefinito i canoni ed i confini tra jazz afro-americano, cultura latino-ispanica e spiritualità sonora.
Francesco Cataldo Verrina: Le prime esperienze musicali che la riguardano risalgono alla sua giovinezza in Argentina. Che ambiente artistico trovò nella Buenos Aires del dopoguerra, dopo essersi trasferito da Rosario, e come maturò la sua inclinazione verso il jazz?
Gato Barbieri: Negli anni ’50, in Argentina, un cerchia di appassionati suonava jazz con una certa naturalezza e qualità. Mio zio suonava il sax tenore, mio fratello la tromba; io, già a diciassette anni, affrontavo il bebop. Ero affascinato anche dalla musica classica: eseguivo Stravinsky e altri compositori del Novecento europeo. In quegli anni, per noi il jazz era una forma di ribellione: era l’eco di un mondo lontano che ci parlava di libertà. Non avevamo molti dischi, ma ricordo ancora quando a dodici anni acquistai un album di Charlie Parker. Per me fu un’illuminazione. Dove altri impiegavano anni per comprendere quel linguaggio, io sentii subito che lì c’era qualcosa che mi apparteneva.
Gato Barbieri, sebbene nato e cresciuto in un contesto geografico e culturale distante dalla culla afro-americana del jazz, maturò un’identità musicale autonoma. L’intensità della sua traiettoria sonora si fondò su un’educazione musicale rigorosa – formazione classica, ascolti disciplinati – e su una precoce fascinazione per la libertà espressiva del jazz. È emblematico come l’incontro con Parker non fu solo estetico, ma quasi spirituale: un’adesione immediata a un modo di vivere il suono.
Francesco Cataldo Verrina: lei ha spesso raccontato che l’ascolto di John Coltrane fu un punto di non ritorno per la sua traiettoria artistica. Cosa accadde esattamente in quel momento?
Gato Barbieri: Fu qualcosa di profondo. Avevo cominciato col sax alto, ma fu sentendo «’Round About Midnight» che compresi: quello era il suono che cercavo. Coltrane non era semplicemente un altro grande musicista. Aveva qualcosa che non si insegna. O ce l’hai nel sangue, oppure no. Aveva un’urgenza, una spiritualità, un modo di scavare dentro la nota che andava oltre la tecnica. Per me, fu il successore naturale di Charlie Parker, anche se parlava una lingua diversa. Dopo quell’incontro sonoro, passai al tenore. Ero in Uruguay, allora un po’ più avanzato nel circuito discografico rispetto all’Argentina. Lì trovai strumenti, dischi, apertura mentale. Mi bastò ascoltarlo una volta per capire che il mio strumento era cambiato.
Il passaggio da Parker a Coltrane non segnò solo una trasformazione timbrica per Barbieri: fu un trasferimento di paradigma. Da un approccio serrato, brillante, metropolitano come il bebop, Gato si aprì a una concezione più estesa e spirituale del suono, fondata su frasi lunghe, vibranti e spesso lancinanti. La scelta del sax tenore, così marcata nella sua poetica sonora, nacque da una necessità di allargare la tela espressiva e inglobare più mondo – più dolore, più voce, più corpo.
Francesco Cataldo Verrina: A quel punto il desiderio di esplorazione la portò nel cuore del free jazz, accanto a figure come Don Cherry. Che cosa rappresentò quell’esperienza nella sua evoluzione?
Gato Barbieri: Con Don suonai free jazz per due anni. Mi aprì la mente, completamente. Era un linguaggio estremo, fatto di libertà totale, dove però serviva disciplina interiore. Con lui suonai con la Jazz Composer Orchestra, con Michael Mantler, Carla Bley… Era un’altra galassia. Ma col tempo compresi che il free puro non era esattamente la mia lingua madre. Ci stavo vicino, mi nutrivo di quella libertà, ma mi mancava il radicamento emotivo. Io sono latino. Ho bisogno di carne, di sangue, di ritmo. Volevo fondere quei due mondi.
Francesco Cataldo Verrina: Un bel giorno, il suo percorso prende una direzione decisiva. Dopo l’esperienza con Don Cherry e le esplorazioni nel free jazz, lei approda ad un linguaggio nuovo, fondendo il jazz d’avanguardia con le radici ritmiche del Sud del mondo. Come maturò questa scelta?
Gato Barbieri: È stato un passaggio che non è avvenuto dall’oggi al domani. Avevo bisogno di qualcosa che mi appartenesse di più. Il free jazz mi aveva dato una libertà straordinaria, ma avvertivo che mancava una componente emotiva legata alla mia terra. La svolta è arrivata con «The Third World», un disco in cui ho cominciato a innestare elementi del folclore sudamericano nel linguaggio jazzistico. Non era ancora del tutto marcato, ma già lì si sentiva che stavo andando verso una sintesi più personale. Poi arrivò «Fénix». In quel momento ero al massimo della mia energia creativa. Avevo finalmente trovato una grammatica musicale che non esisteva prima: un ponte tra l’Africa e le Americhe, tra spiritualità e radici, tra l’urgenza del free e la ritualità del ritmo.
La pubblicazione di Fénix (1971 rappresenta una delle vette più alte dell’intera produzione jazz degli anni Settanta. Gato Barbieri – insieme a musicisti del calibro di Ron Carter, Lonnie Liston Smith, Lenny White, e i percussionisti Gene Golden e Naná Vasconcelos – crea un magma sonoro incandescente, dove il sax tenore si fa urlo primordiale e voce della diaspora. Fénix è un’opera simbolica: trascende l’estetica afro-americana per abbracciare una dimensione panlatinoamericana, anticipando la cosiddetta world music jazz.
Francesco Cataldo Verrina: Lei ha rivisitato composizioni di Atahualpa Yupanqui, Ary Barroso, Carlos Gardel… In che modo ha scelto questo repertorio?
Gato Barbieri: Quelle erano le mie radici. Erano melodie che avevo dentro da sempre. Prendere Gardel e trasformarlo in jazz significava affermare la mia identità, far parlare il mio paese in una lingua nuova. Io non volevo imitare nessuno. Cercavo un mio modo di far suonare il dolore, la festa, la memoria. Per questo ho messo insieme samba, tango, milonga, e poi li ho fatti esplodere col sax. Era tutto molto fisico. Il suono per me era come un corpo che lotta, si contorce, ma non cede mai.
Francesco Cataldo Verrina: Parallelamente alla musica, lei ha avuto un legame importante con il cinema. In che modo la scrittura per il grande schermo ha influenzato la sua visione musicale?
Gato Barbieri: Il cinema per me è sempre stato un rifugio. Mi piaceva il bianco e nero, i film degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. Ho composto molte colonne sonore, e non parlo solo di «Ultimo tango a Parigi» con Bertolucci. La musica per immagini mi ha dato un altro modo di raccontare. Era come scrivere senza parlare. Mi rivedevo in certi personaggi. Ero attratto da un certo tipo di malinconia e tensione poetica che trovavo nei film d’epoca. Anche mia moglie, che è stata fondamentale nella mia vita, amava il cinema. Abbiamo condiviso molto in quel mondo.
Francesco Cataldo Verrina: Dopo «Caliente!» e il ciclo Impulse!, il suo suono cambia radicalmente. Perché questa svolta orchestrale e melodica?
Gato Barbieri: Gli anni Settanta stavano cambiando. Tutto il mondo stava cambiando. Dopo Fénix, sentii che avevo detto quello che dovevo dire con quel tipo di forza. Mi attrasse l’idea di costruire qualcosa di più raffinato, orchestrale, ma sempre mio. Con Herb Alpert alla A&M Records ho realizzato Caliente!, che ancora oggi considero uno dei miei dischi più belli. Era elegante, dolce, ma non finto. Era naturale, era sincero. Ho scritto io tutta la musica. Anche se qualcuno ha parlato di commercializzazione, io stavo semplicemente seguendo il cuore.
La stagione orchestrale di Barbieri, pur criticata da una certa élite del jazz più intransigente, rappresentò una scelta identitaria coerente con la propria visione: avvicinare il jazz ad un pubblico più ampio senza rinunciare all’intensità espressiva. Nei solchi di Caliente! il sax di Gato continua a graffiare, ma lo fa tra archi, armonie sensuali e melodie latine. Una sfida, non un compromesso.
Francesco Cataldo Verrina: Poi, un lungo silenzio. Perché smise di incidere per quattordici anni?
Gato Barbieri: È stata la somma di molte cose. Mia moglie si era ammalata. L’amavo profondamente. Avevamo una figlia insieme, e anche un figlio che avevamo cresciuto come nostro. Quando lei è morta, io mi sono perso. Ero stanco, svuotato, malato anche io. Mi hanno fatto un triplo bypass. Il dolore era diventato troppo forte. Però, la musica mi ha salvato. È stata la mia unica terapia. A un certo punto ho pensato: «Se non suono, muoio». Così ho ricominciato a respirare col sax.
Il ritorno alla musica, dopo anni di lutti e silenzio, non fu solo un evento discografico. Fu la resurrezione di un’identità profonda, un modo per riprendere possesso della propria esistenza. Il disco Qué Pasa (Sony, 1997), prodotto con Philippe Saisse, segna questa rinascita. Lo stile è più morbido, vicino allo smooth jazz, ma la voce resta la stessa: quella di un uomo che ha attraversato il dolore e ne ha distillato bellezza.
Francesco Cataldo Verrina: In più occasioni ha parlato del passato con una tonalità quasi elegiaca. Che rapporto ha oggi con la memoria?
Gato Barbieri: Il mio sguardo è rivolto sempre più indietro. Ripenso spesso a quando ero ragazzo, a Buenos Aires, agli odori della strada, ai suoni che uscivano dalle finestre. È un passato che non è reale, è quasi una fantasia. Ma è lì che torno, ogni volta che prendo il sax. Penso a mia madre, alla sua intelligenza e alla sua capacità di immaginare. Penso a quando giocavo a calcio, a quando ho iniziato con il clarinetto. Buenos Aires era, ed è ancora, una città che mi parla. Il tango, per me, è la vita stessa: non è solo musica, è il modo in cui si cammina dentro il tempo.
Francesco Cataldo Verrina: Cosa sente oggi, quando riascolta i suoi dischi o rivede i volti di colleghi e amici scomparsi?
Gato Barbieri: Sento gratitudine. E anche malinconia. Monk, Coltrane, Miles, Piazzolla… sono tutti con me. Con Piazzolla c’era un rispetto profondo. Era un genio, uno dei più grandi compositori del secolo scorso. È morto nel ’91, lo stesso anno in cui se n’è andato anche Miles, e in cui ho perso mia madre. Quando penso a loro, sento di essere parte di un filo invisibile. Come se ogni nota che suono oggi fosse anche loro. Non suono mai da solo.
Nella visione di Barbieri, il tempo non è una linea retta, ma un circolo spirituale. Il passato si intreccia al presente, gli affetti perduti prendono forma tra le pieghe del suono. La sua musica non è mai solo attualità o tecnica, ma evocazione di ciò che è stato. E ogni assolo diventa un omaggio a chi ha tracciato la strada prima di lui.
Francesco Cataldo Verrina: Cosa significa per lei tramandare?
Gato Barbieri: Non mi interessa lasciare «un’eredità» come oggetto. Quello che conta è se la mia musica può accendere qualcosa dentro chi ascolta. Mio figlio, per esempio, suona, ma fa le sue scelte. Non l’ho mai spinto. Gli ho solo chiesto: «Vuoi essere calciatore o musicista?» Ha scelto lui. Per me, la musica è un cammino. Come il tango. È un modo per restare vivi, anche quando tutto attorno cambia o scompare.
Francesco Cataldo Verrina: Dopo aver attraversato tante fasi, linguaggi, paesi e silenzi, cosa rimane al centro della sua identità artistica?
Gato Barbieri: Rimane il suono. Quello che esce dal sax quando non ci pensi troppo, quando non lo controlli, quando lasci che sia lui a parlare per te. Per me suonare è sopravvivere. È sempre stato così. Anche nei momenti peggiori, quando avevo perso mia moglie, o quando stavo male fisicamente, l’unico modo per restare in vita era suonare. Il mio suono non è mai stato «preciso» o «perfetto», ma è mio. Viene dalla mia storia, dalla mia carne. Io non sono americano, non sono afroamericano. Sono argentino. Vengo da un Paese pieno di contraddizioni, di bellezza e dolore. Ho portato tutto questo nel jazz, e il jazz mi ha accolto. È stato un atto di libertà.
Francesco Cataldo Verrina: Cosa significa «libertà» per lei?
Gato Barbieri: È una parola che tutti usano, ma pochi sentono davvero. Per me, la libertà è potermi esprimere senza paura. È poter prendere una melodia di Gardel o Yupanqui e trasformarla in un grido, in un canto d’amore, in un’urgenza politica. È non dover mai imitare nessuno. Quando suoni con sincerità, sei libero. Quando cerchi di piacere agli altri, sei prigioniero. Io ho sempre cercato di essere sincero, anche quando sbagliavo.
In un’epoca dominata da categorie estetiche rigide, Gato Barbieri si è imposto come un’eccezione. Non catalogabile, non inquadrabile, ma sempre riconoscibile. Ha attraversato il free jazz, il tango, la melodia orchestrale e le colonne sonore da film con la stessa coerenza profonda: quella di chi suona per non dimenticare. Per Gato la musica non è mai un genere, ma un gesto vitale, una maniera per resistere alla fine, al silenzio e all’oblio

INTERVISTA ORIGINALE
La figura de Gato Barbieri resiste cualquier etiqueta. Fue un artista liminal e incandescente, capaz de atravesar las gramáticas del jazz afroamericano sin jamás imitarlas, eligiendo en cambio refundarlas desde una identidad profundamente latinoamericana. No era afroamericano, no era estadounidense, pero estaba íntimamente injertado en esa historia sonora. Gato llevó el peso político y sentimental del Sur global dentro de una música que, en los años 60 y 70, vivía una revolución espiritual, social y estética. Su recorrido artístico fue una metamorfosis: del bebop urbano al free jazz más radical, de las bandas sonoras cinematográficas a una world music antes de que existiera el término, del romanticismo orquestal en los discos de A&M al regreso maduro de los años noventa. Su poética descansaba sobre una convicción profunda: el sonido no miente. El saxo de Gato nunca fue decorativo ni cerebral. Era cuerpo, herida, geografía, memoria. En el corazón de sus obras mayores —Fénix, The Third World, Viva Emiliano Zapata!— resuena una voz que hace temblar el concepto mismo de jazz: lo amplía, lo hibrida, lo carga de emoción y de dolor poscolonial. Así, Gato Barbieri sigue siendo una voz irreductible, ardiente. Su música no se limita a contar la historia: la empuja hacia adelante, le da un nuevo rostro y la hace bailar con el corazón abierto.
Leandro “Gato” Barbieri nació en Rosario (Argentina) el 28 de noviembre de 1932, donde se formó como músico autodidacta, empezando con el clarinete y pasándose luego al saxofón en su primera adolescencia. En los años 50 se trasladó con su familia a Buenos Aires, donde entró en contacto con la escena emergente del jazz. Su primer desafío internacional llegó a mediados de los años 60, al integrarse al conjunto de Don Cherry, referente del movimiento free jazz. En 1967 grabó In Search Of The Mystery para ESP-Disk, marcando así su debut discográfico como líder. Le seguirían cuatro álbumes históricos para Impulse! Records —la llamada “cuadrilogía sudamericana”— en los que el saxofonista argentino fusionó el lenguaje jazzístico con raíces sudamericanas. En los años 70 colaboró con Bernardo Bertolucci componiendo la banda sonora de Último tango en París (1972), obteniendo un éxito mundial; y firmó con A&M Records, donde publicó discos orquestales como Caliente! (1976), ampliando su público y explorando nuevas estéticas y variaciones melódicas. Tras la muerte de su esposa y graves problemas de salud, se retiró de la escena por más de una década, regresando en 1997 con el álbum Qué Pasa. Continuó tocando en vivo hasta comienzos de los años 2000, demostrando una resiliencia física y una templanza artística poco comunes, dejando un corpus musical que redefinió los límites entre jazz afroamericano, cultura latino-hispánica y espiritualidad sonora.
Francesco Cataldo Verrina: Las primeras experiencias musicales que lo marcaron se remontan a su juventud en Argentina. ¿Qué ambiente artístico encontró en el Buenos Aires de posguerra, luego de mudarse desde Rosario, y cómo fue madurando su inclinación hacia el jazz?
Gato Barbieri: En los años 50, en Argentina, un grupo de apasionados tocaba jazz con mucha naturalidad y nivel. Mi tío tocaba saxo tenor, mi hermano la trompeta; yo, ya a los diecisiete, me metía con el bebop. También me fascinaba la música clásica: tocaba Stravinsky y otros compositores europeos del siglo XX. En esos años, para nosotros el jazz era una forma de rebelión: era el eco de un mundo lejano que nos hablaba de libertad. No teníamos muchos discos, pero todavía me acuerdo cuando a los doce compré un álbum de Charlie Parker. Para mí fue una iluminación. Donde otros tardaban años en entender ese lenguaje, yo sentí de entrada que había algo ahí que era mío.
Francesco Cataldo Verrina: Aunque nació y creció en un contexto geográfico y cultural distante de la cuna afroamericana del jazz, usted desarrolló una identidad musical propia. La intensidad de su camino sonoro se basó en una formación musical rigurosa —formación clásica, escucha disciplinada— y en una fascinación precoz por la libertad expresiva del jazz. Es emblemático que el encuentro con Parker no fue solo estético, sino casi espiritual: una adhesión inmediata a una forma de vivir el sonido.
Francesco Cataldo Verrina: Usted ha contado varias veces que la escucha de John Coltrane fue un punto de no retorno en su trayectoria artística. ¿Qué pasó exactamente en ese momento?
Gato Barbieri: Fue algo profundo. Yo había empezado con el saxo alto, pero fue al escuchar ‘Round About Midnight que entendí: ese era el sonido que buscaba. Coltrane no era simplemente otro gran músico. Tenía algo que no se enseña. O lo llevás en la sangre, o no. Tenía una urgencia, una espiritualidad, una forma de excavar dentro de la nota que iba más allá de la técnica. Para mí, fue el heredero natural de Charlie Parker, aunque hablara otro idioma. Después de ese encuentro sonoro, pasé al tenor. Estaba en Uruguay, que en ese momento tenía un circuito discográfico algo más avanzado que Argentina. Ahí encontré instrumentos, discos, una apertura mental. Me alcanzó con escucharlo una sola vez para darme cuenta de que mi instrumento había cambiado.
Francesco Cataldo Verrina: En ese punto, su deseo de exploración lo llevó al corazón del free jazz, junto a figuras como Don Cherry. ¿Qué representó esa experiencia en su evolución?
Gato Barbieri: Con Don toqué free jazz durante dos años. Me abrió la cabeza por completo. Era un lenguaje extremo, hecho de libertad total, pero que exigía una disciplina interior. Con él toqué con la Jazz Composer Orchestra, con Michael Mantler, con Carla Bley… era otra galaxia. Pero con el tiempo entendí que el free puro no era exactamente mi lengua materna. Lo tenía cerca, me nutría de esa libertad, pero me faltaba el arraigo emocional. Yo soy latino. Necesito carne, sangre, ritmo. Quería fusionar esos dos mundos.
Francesco Cataldo Verrina: Un día, su camino toma una dirección decisiva. Después de la experiencia con Don Cherry y las exploraciones en el free jazz, usted llega a un lenguaje nuevo, fusionando el jazz de vanguardia con las raíces rítmicas del Sur del mundo. ¿Cómo maduró esa elección?
Gato Barbieri: Fue un proceso, no pasó de la noche a la mañana. Yo necesitaba algo que me perteneciera más. El free jazz me había dado una libertad tremenda, pero sentía que faltaba una parte emocional que tuviera que ver con mi tierra. La verdadera curva llegó con The Third World, un disco donde empecé a injertar elementos del folclore sudamericano dentro del lenguaje del jazz. Todavía no era del todo marcado, pero ya se notaba que estaba yendo hacia una síntesis más personal. Y después vino Fénix. En ese momento estaba en mi pico creativo. Finalmente había encontrado una gramática musical que antes no existía: un puente entre África y las Américas, entre la espiritualidad y las raíces, entre la urgencia del free y la ritualidad del ritmo.
La publicación de Fénix (1971, Impulse!) representa una de las cumbres absolutas del jazz de los años setenta. Gato Barbieri —junto a músicos como Ron Carter, Lonnie Liston Smith, Lenny White, y los percusionistas Gene Golden y Naná Vasconcelos— crea un magma sonoro incandescente donde el saxo tenor se vuelve un grito primitivo y voz de la diáspora. Fénix es una obra simbólica: trasciende la estética afroamericana para abrazar una dimensión panlatinoamericana, anticipando lo que más tarde se conocería como world music jazz.
Francesco Cataldo Verrina: Usted ha reinterpretado composiciones de Atahualpa Yupanqui, Ary Barroso, Carlos Gardel… ¿Cómo eligió ese repertorio?
Gato Barbieri: Esas eran mis raíces. Eran melodías que llevaba adentro desde siempre. Tomar a Gardel y transformarlo en jazz era afirmar mi identidad, hacer que mi país hablara en un idioma nuevo. Yo no quería imitar a nadie. Buscaba una forma mía de hacer sonar el dolor, la fiesta, la memoria. Por eso mezclé samba, tango, milonga… y después los hice explotar con el saxo. Era todo muy físico. El sonido para mí era como un cuerpo que lucha, que se retuerce, pero que nunca se rinde.
Francesco Cataldo Verrina: Paralelamente a la música, usted tuvo un vínculo fuerte con el cine. ¿De qué manera la escritura para la gran pantalla influyó en su visión musical?
Gato Barbieri: El cine fue siempre un refugio para mí. Me gustaban el blanco y negro, las películas de los años treinta, cuarenta, cincuenta. Compuse muchas bandas sonoras, y no hablo solo de Último tango en París con Bertolucci. La música para imágenes me dio otra forma de contar. Era como escribir sin hablar. Me veía reflejado en ciertos personajes. Sentía atracción por un tipo de melancolía, de tensión poética, que encontraba en esas películas de época. Y mi esposa —que fue fundamental en mi vida— también amaba el cine. Compartimos mucho en ese mundo.
Francesco Cataldo Verrina: Después de Caliente! y el ciclo Impulse!, su sonido cambia radicalmente. ¿Por qué ese giro orquestal y melódico?
Gato Barbieri: Los años setenta estaban cambiando. El mundo entero estaba cambiando. Después de Fénix, sentí que ya había dicho lo que tenía que decir con esa intensidad. Me atrajo la idea de construir algo más refinado, más orquestal, pero siempre mío. Con Herb Alpert en A&M Records hice Caliente!, que aún hoy considero uno de mis discos más lindos. Era elegante, dulce, pero no falso. Era natural, era sincero. Yo escribí toda la música. Aunque algunos hablaron de “comercialización”, yo simplemente estaba siguiendo mi corazón.
La etapa orquestal de Barbieri, aunque criticada por cierta élite del jazz más rígida, representó una decisión identitaria coherente con su visión: acercar el jazz a un público más amplio sin renunciar a la intensidad expresiva. En los surcos de Caliente!, el saxo de Gato sigue arañando, pero lo hace entre cuerdas, armonías sensuales y melodías latinas. Un desafío, no una concesión.
Francesco Cataldo Verrina: Luego, un largo silencio. ¿Por qué dejó de grabar durante catorce años?
Gato Barbieri: Fue una suma de muchas cosas. Mi esposa se había enfermado. Yo la amaba profundamente. Tuvimos una hija juntos, y también un hijo que criamos como propio. Cuando ella murió, yo me perdí. Estaba cansado, vacío… también enfermo. Me hicieron un triple bypass. El dolor se volvió demasiado. Pero la música me salvó. Fue mi única terapia. En un momento pensé: “Si no toco, me muero”. Así que volví a respirar con el saxo.
Francesco Cataldo Verrina: En varias ocasiones usted ha hablado del pasado con un tono casi elegíaco. ¿Qué relación tiene hoy con la memoria?
Gato Barbieri: Mi mirada va cada vez más hacia atrás. Pienso mucho en cuando era pibe, en Buenos Aires, en los olores de la calle, en los sonidos que salían por las ventanas. Es un pasado que ya no es real, es casi una fantasía. Pero es ahí adonde vuelvo cada vez que agarro el saxo. Pienso en mi vieja, en su inteligencia y su capacidad de imaginar. Pienso en cuando jugaba al fútbol, en cuando empecé con el clarinete. Buenos Aires era, y sigue siendo, una ciudad que me habla. El tango, para mí, es la vida misma: no es solo música, es la forma de caminar por dentro del tiempo.
Francesco Cataldo Verrina: ¿Qué siente hoy al volver a escuchar sus discos o al ver los rostros de colegas y amigos que ya no están?
Gato Barbieri: Siento gratitud. Y también una melancolía profunda. Monk, Coltrane, Miles, Piazzolla… están todos conmigo. Con Piazzolla había un respeto mutuo muy fuerte. Era un genio, uno de los compositores más grandes del siglo pasado. Murió en el ’91, el mismo año en que se fue Miles y en que perdí a mi madre. Cuando pienso en ellos, siento que soy parte de un hilo invisible. Como si cada nota que toco hoy también fuera de ellos. Nunca toco solo.
Para Barbieri, el tiempo no es una línea recta, sino un círculo espiritual. El pasado se entrelaza con el presente, los afectos perdidos toman forma entre los pliegues del sonido. Su música nunca es solo técnica o actualidad: es evocación. Y cada solo se convierte en un homenaje a quienes abrieron camino antes que él.
Francesco Cataldo Verrina: ¿Qué significa para usted “transmitir”?
Gato Barbieri: No me interesa dejar una “herencia” como si fuera un objeto. Lo que importa es si mi música puede encender algo dentro de quien la escucha. Mi hijo, por ejemplo, toca, pero toma sus propias decisiones. Nunca lo empujé. Solo le pregunté: “¿Querés ser futbolista o músico?” Y eligió él. Para mí, la música es un camino. Como el tango. Es una manera de seguir vivo, incluso cuando todo alrededor cambia o desaparece.
Francesco Cataldo Verrina: Después de haber atravesado tantas etapas, lenguajes, países y silencios, ¿qué queda en el centro de su identidad artística?
Gato Barbieri: Queda el sonido. Eso que sale del saxo cuando no lo pensás mucho, cuando no lo controlás, cuando dejás que hable por vos. Para mí, tocar es sobrevivir. Siempre fue así. Incluso en los peores momentos —cuando perdí a mi mujer, o cuando estuve mal físicamente— la única forma de seguir vivo fue tocar. Mi sonido nunca fue “preciso” o “perfecto”, pero es mío. Viene de mi historia, de mi carne. Yo no soy yanqui, no soy afroamericano. Soy argentino. Vengo de un país lleno de contradicciones, de belleza y de dolor. Y todo eso lo llevé al jazz. Y el jazz me recibió. Fue un acto de libertad.
Francesco Cataldo Verrina: ¿Qué significa “libertad” para usted?
Gato Barbieri: Es una palabra que todos usan, pero pocos la sienten de verdad. Para mí, libertad es poder expresarme sin miedo. Es poder agarrar una melodía de Gardel o Yupanqui y transformarla en un grito, en una canción de amor, en una urgencia política. Es no tener que imitar a nadie. Cuando tocás con sinceridad, sos libre. Cuando tratás de gustarle a los demás, sos prisionero. Yo siempre traté de ser sincero, incluso cuando me equivocaba.
En una época marcada por categorías estéticas rígidas, Gato Barbieri se impuso como una excepción. Inclasificable, inasible, pero siempre reconocible. Atravesó el free jazz, el tango, la melodía orquestal y el cine con una misma coherencia profunda: la de quien toca para no olvidar. Para él, la música nunca fue un género, sino un gesto vital. Una forma de resistir al final, al silencio, al olvido.