Intervista a Francesco Cataldo Verrina, autore del libro: «Chick Corea, l’Anticonformista»

// di Irma Sanders //
Ho appena finito di leggere il nuovo libro di Francesco Cataldo Verrina. Se c’è una cosa che mi è rimasta dei miei geni tedeschi – nonostante quasi quarant’anni di vita in Italia – è che sono alquanto puntigliosa e che, quindi, difficilmente faccio interviste se non ho approfondito la lettura del libro. Come al solito, Francesco mi sorprende per la sua prosa scorrevole e ricca di informazioni, in cui gli eventi e i personaggi sembrano essere tutti legati all’interno del medesimo plot narrativo. Le monografie del Verrina sono basate essenzialmente sul racconto della discografia degli artisti trattati, mentre gli elementi biografici ed ambientali fungono da semplice collante, soprattutto non risentono di quel morboso e banale malanno che affligge quasi tutto il biopic americano. Nel libro la figura di Corea viene inquadrata attraverso i momenti più significativi della sua attività in studio e concertistica, le relazioni e le collaborazioni con artisti coevi, i suoi tributi ai maestri del passato e la capacita di fare da pontiere ad innumerevoli stilemi e linguaggi musicali. Ciò che colpisce è la sapienza tecnica, specie nella descrizione dei vari dischi con una metodologia oggi in disuso in Italia, dove leggere una recensione decente è difficile quasi quanto trovare un idraulico durante il week-end (per parafrasare Woody Allen). Francesco Cataldo Verrina è oggi uno dei pochi critici musicali, abili nell’arte della recensione.
D. Il tuo libro esplora la straordinaria carriera di Chick Corea, un artista capace di aprire molte porte nel vasto territorio del jazz. Qual è stato il tuo punto di partenza nel raccontare la sua storia?
R. Ho voluto partire dal suo pianismo e dalla sua capacità di costruire un fraseggio melodico anche quando si muoveva in progressioni modali, situazioni armonicamente accidentate. Corea non era solo un magnifico esecutore, ma anche un pensatore musicale tout-court.. Nei suoi primi dischi si possono già riconoscere le sue regole d’ingaggio, ossia il modo in cui egli concepiva la coesione musicale e l’interscambio dinamico fra strumentisti.
D. «Tones For Joan’s Bones», il suo primo album da leader, è molto amato dai cultori del bop, ma spesso viene considerato solo una fase transitoria della sua carriera. Tu come lo interpreti?
R. In realtà è un disco chiave per comprendere il giovane Corea. Nel 1966 era un musicista influenzato da McCoy Tyner e Bud Powell, ma si stava già distaccando dalle loro impronte. Aveva uno sguardo curioso verso il futuro del jazz e si nutriva dell’eredità di Coltrane. Fu però con l’album successivo che Corea fece un decisivo passo in avanti. «Now He Sings, Now He Sobs» evidenziò innumerevoli modi di riformulare taluni concetti in tempo reale, mentre il pianista operava su una piattaforma non del tutto testata, ma che si rivelò produttiva e duratura nel tempo. Supportato egregiamente da Roy Haynes e da Miroslav Vitouš, il pianista appare libero di muoversi agilmente all’interno di cinque composizioni originali, lasciando che gli accordi si addensino accanto alle fluttuanti fughe melodiche. Basso e batteria si esprimono seguendo lo stesso senso di libertà del pianoforte, che spinge «Now He Sings, Now He Sobs» in un punto dove hard-bop e avant-garde si intersecano.
D. Corea ha pubblicato più di ottanta album, ha ricevuto sessantasette nomination ai Grammy e vinto ventitré volte. Qual era il segreto della sua inesauribile creatività?
R. La sua produzione non è mai diventata routine, manierismo o esercizio di stile. Corea aveva una capacità straordinaria di rinnovarsi, di trovare nuove sfide artistiche. Per lui ogni progetto era un nuovo viaggio e non il semplice capitolo di una carriera prolifica. Una delle prime cose che balzano all’occhio quando si analizzano gli scritti o le testimonianze relative a questo musicista, è l’ingente quantità di progetti che ha realizzato: un numero tale che ci consente di sostenere, senza tema di smentita, che Corea sia stato uno dei compositori più prolifici, a cavallo di due secoli, oltre che un sopraffino esecutore. L’aspetto sorprendente è che l’essere stato così prolifico non ha mai intaccato la sua inarrestabile vena creativa. Una carriera, la sua, costellata di riconoscimenti e attestati di merito che non lo privarono mai della sua bonomia, di quel modo leggiadro di intendere la vita, limpida e accessibile come la sua musica. Il pianista era solito porsi gravose domande sulla morte ma quando si sedeva davanti al pianoforte dava sempre risposte vicine alla gioia ed al piacere di vivere, lontane dal dolore e dall’asprezza del quotidiano, frutto di una sorgiva umanità e di quella faccia sorridente da «italiano in gita» che tradiva le origini calabro-siciliane della sua famiglia.
D. In effetti, nel tuo libro approfondisci anche le radici calabro-siciliane di Chick Corea. Quanto credi abbiano influito sulla sua personalità e sul suo approccio alla musica?
R. Il legame con la Calabria è stato tardivo, perché in famiglia nessuno ne parlava. Il nonno, un calzolaio emigrato negli Stati Uniti, voleva che i suoi figli diventassero americani il più velocemente possibile. Eppure, Corea aveva dentro di sé un senso di appartenenza mediterranea: il suo pianismo è solare, spontaneo e comunicativo, proprio come l’anima del Sud Italia. Scientificamente, non è dato di sapere quanto le origini calabresi abbiano influito sulla personalità di Chick Corea. Certamente, la sua genetica compositiva irrequieta ed imprevedibile ed il suo carattere esecutivo colloquiale ed espansivo lascerebbero presupporre che un legame ci fosse. Le secolari origini familiari, quale verace appartenenza geografica del pensiero e del sentire, diventando parte della musica, una fusion dell’anima che si liberava sul palco durante le esibizioni live.
D. Hai parlato di un episodio significativo, il tour con Stefano Bollani in Calabria. Quanto ha significato per lui questo viaggio nelle proprie origini?
R. È stato un momento speciale, un’occasione per ricostruire il mosaico della sua identità. Suonare davanti ai ruderi del Parco di Scolacium, vicino alla terra dei suoi antenati, gli ha dato modo di riscoprire una parte di sé che non conosceva fino in fondo. In occasione del tour condiviso con Stefano Bollani, a Roccelletta di Borgia, Chick ebbe modo di iniziare a ricomporre i filamenti delle proprie radici. Dopo l’esibizione, alcuni albesi con il suo stesso cognome, Corea, forse lontani parenti, gli regalarono proprio una statuetta di San Nicola da Tolentino come portafortuna. Raccontare della vita e delle opere di Chick Corea, includendo anche le sue origini calabresi vuole essere soprattutto un sentito omaggio a Vincenzo Staiano, prematuramente scomparso nell’ottobre del 2024, Art Director del Roccella Jonica Jazz Festival, studioso ed appassionato dei jazzisti di origine italiana. Senza tralasciare il fatto che tutti gli artisti con cognomi o discendenza italica, siano americani a tutti gli effetti e – come sosteneva Art Pepper – con il passaporto in regola, nonché detentori della cosiddetta cittadinanza jazzistica per antonomasia.
D. Corea ha sempre attraversato i confini musicali, spaziando dal jazz al latin-spanish, fino alla classica. Quanto sono state importanti queste contaminazioni?
R. Fondamentali. Quando ha registrato «My Spanish Heart», ha voluto celebrare il suo amore per la musica ispanica e mediterranea, creando brani come «Spain» e «Armando’s Rhumba». Friedrich Gulda, pianista irrituale e mozartiano lo coinvolse in un botta e risposta di improvvisazioni in cui Corea riuscì a dare il meglio per originalità, di cui resta un’eccellente testimonianza grazie alla registrazione del concerto «The Meeting» del 1982. Un altro austriaco, Nikolaus Harnoncourt, autore di una delle più importanti riedizioni bachiane della storia, musicista e filologico, lo aveva diretto, a quattro mani con Gulda, in un Mozart «sconcertante», rivisitato come e dove solo un folle anticonformista poteva fare ed osare. La sua escalation ha toccato i punti estremi dello scibile sonoro. In verità il pianista di Boston non s’è fatto mai mancare nulla. Chick, come suoi altri coevi, usciva dai carboni ardenti del post-68 e del free jazz a trazione anteriore, in tal senso, ad imperitura memoria, la lasciato due album capaci di irretire anche i più incalliti sostenitori dell’intransigenza stilistica: «ARC», in trio con Dave Holland e Barry Altschul – registrato nel gennaio 1971 a Ludwigsburg) – nonché il doppio «Circle», album epocale fissato su nastro dal vivo, nel febbraio dello stesso anno, insieme a Anthony Braxton al sax e gli immancabili Dave Holland al basso e Barry Altschul alle percussioni.
D. Quando parli di Corea come di un artista che ha toccato gli estremi dello scibile sonoro. Cosa intendi con questa espressione?
R. Corea ha vissuto il jazz nella sua totalità. Come dicevo, ha attraversato il free jazz, le visioni spirituali di Coltrane, le destrutturazioni di Ornette Coleman, il pianismo di Cecil Taylor. Non si è mai fermato a nicchiare su un solo stile, per contro ha sempre cercato nuove vie da battere, nuove idee da implementare. Con la stessa curiosità, Chick ebbe modo di approfondire la musica brasiliana, non solo grazie al contributo di Airto Moreira nei Return To Forever, ma anche durante la collaborazione con Stan Getz. Quando Corea decise di mettere le mani sul repertorio classico, Mozart et similia, in tanti, negli ambienti eurodotti, iniziarono a storcere il naso, come a voler dire: giù le mani, questo non è terreno per i jazzisti! Alcuni critici parlarono del solito crossover, non comprendendo, ad esempio, che Chick Corea e Bob McFerrin avevano preso lo scibile mozartiano alquanto sul serio.
D. Se dovessi descrivere Corea con un’immagine o una metafora, quale sceglieresti?
R. Lo immagino come un esploratore musicale con un mazzo di chiavi in mano, capace di aprire tutte le porte del jazz. Non si è mai limitato a un solo stile, sfruttando posizioni acquisite sino alla pinguedine creativa, per contro, ha sempre cercato di sondare nuovi territori espressivi, talvolta impervi ed accidentati. Chi leggerà il libro ne avrà piena conferma.
CHICK COREA, L’ANTICONFORMISTA / Kriterius Edizioni, 2025
