Stefano Zenni: «Storia del jazz. Una prospettiva globale»

Stefano Zenni
// di Guido Michelone //
È da pochi giorni in libreria Storia del jazz. Una prospettiva globale, il nuovo volume di Stefan Zenni per l’editore Quodlibet. Ce ne parla l’Autore medesimo in quest’intervista esclusiva per i lettori di “Doppio Jazz”!
D Innanzitutto, una curiosità sul tuo nuovissimo libro Storia del jazz. Una prospettiva globale: la copertina, mezzo secolo dopo, è un omaggio al Polillo che sul suo Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana evitava il solito faccione di Armstrong o il sax di Rollins, ma sceglieva un primo piano di Elvin Jones alla batteria?
R No, Billy Higgins in copertina è una scelta condivisa con l’editore. E ci sembrava un’immagine elegante e dinamica, per giunta con uno strumento associato al jazz; l’immagine è di Luciano Rossetti che voglio citare come un grande fotografo italiano che tra l’altro di recente ha vinto il primo premio nella sua categoria, assegnatogli dai critici jazz statunitensi. E quindi, dovendo trovare, per il libro, un’immagine che riassumesse in modo elegante e dinamico quel ‘qualcosa’ che è il jazz, quando Rossetti ci ha proposto la fotografia di Billy Higgins, che peraltro è un musicista che io amo profondamente, ci è sembrata molto adatta per la copertina.
D Certo, passiamo ora ai contenuti delle grandi storie classiche, esistono almeno quattro approcci: musicologico di Gunther Schuller; sociologico alla Leroi Jones, anche se Blues People è più pamphlet che saggio; storico che non è tanto Eric Hobsbawn quanto piuttosto Arrigo Polillo; generico, cioè Joachim Berendt il cui Das Jazz Buch è il libro più venduto tra storie del genere in tutto il mondo. Ecco tu a quale tipo ti riferisci maggiormente?
R Ma io, sai, sono cresciuto, proprio come tutti noi in Italia, con il libro di Polillo. Che è un riferimento imprescindibile a cui mi sono ispirato anche per l’idea di offrire al lettore, anche una lista, man mano che si scorre il testo, di ascolti fondamentali. Non limitarsi a dei ‘casi di studio’ (case history), ma proprio avere non dico una playlist (che poi uno può ricavarsi da sé), ma possedere qualcosa in più; è come dire la propria lista intesa davvero come un serio riferimento agli LP e ai brani fondamentali. Poi in realtà nel libro ci sono dei tocchi musicologici, ma non ci sono trascrizioni non c’è l’analisi nel senso più scientifico della parola, però in questo libro c’è un po’ anche di musicologia, perché non si può non rendere conto del grande del grande avanzamento degli studi compiuto negli Stati Uniti e in Europa in questo campo – il jazz – negli ultimi trent’anni e quindi il libro offre poi di alcuni musicisti, ad esempio, di Charlie Parker, di John Coltrane, di Ella Fizgerald, di Steve Coleman, di Anthony Braxton, anche una qualche informazione utile, anche per il lettore, non specialista, per andare un po’ più a fondo nell’ascolto.
D Chiaro, mi sembra che tu da sempre, come critico e studioso, intrecci l’aspetto ermeneutico a quello per così dire pedagogico o divulgativo, tenendo conto di tipologie di lettori abbastanza eterogenei.
R Infatti voglio dire che poi sicuramente c’è nel libro l’aspetto sociologico che è piuttosto consistente, perché ad esempio rendo conto delle forze economiche, dei problemi sociali, degli avvenimenti storici. Molto importante fin dalla prima edizione restano per me le distribuzioni geografiche tra movimenti geopolitici e flussi migratori che hanno caratterizzato tanto un macrolivello – penso alla schiavitù – quanto un microlivello con i bopper che da Harlem vanno sulla 52ª strada hanno cambiato profondamente la musica. Quindi, alla fine, rispetto alla tua domanda, la risposta è che, secondo me, almeno ci ho provato e qui dentro a Storia del jazz. Una prospettiva globale ci sono un po’ tutti quei modelli.
D La tua è sostanzialmente una storia di musicisti e di dischi?
R No, non necessariamente, perché ci sono interi capitoli in cui rendo conto, per esempio, dello sviluppo tecnologico, delle forme di riproduzione sonora: per esempio, c’è un capitolo sulle origini del concerto jazz, con la difficoltà dei musicisti a organizzare e a trovare posti adeguati per un certo tipo di pubblico che ascolta la musica in un certo modo. Nel libro insomma ci sono anche degli elementi sociali per non parlare, in molti punti, dello sviluppo della didattica. Quindi no, ho cercato anche di andare oltre quello schema rigido.
D Ti faccio ora una domanda, perché venendo io anche da studi di filmologia, noto che le storie del cinema (scritte in Italia o all’estero) per lungo tempo sono state storie di registi; poi negli ultimi vent’anni si fanno anche ad esempio le storie delle sale cinematografiche, dei direttori di fotografia, degli attori, degli scenografi, delle locandine, eccetera, eccetera, perché il cinema come il jazz o come qualsiasi fenomeno mediale o mediatica è un’arte complessa pensando solo a quante manovalanze anche professionali sono al lavoro per fare un film, un po’ come accade per registrare un disco (soprattutto pop, ma anche jazz). Il disco un’opera collettivo, in fondo, come un film fatta di tanti fattori, anche se poi prevale il musicista, come nel film il regista a dare il tocco finale, insomma l’imprinting.
R Certo, eh, in questo senso, per esempio, nel mio libro c’è una grande attenzione ai luoghi. Proprio perché i luoghi hanno plasmato il modo in cui si fa musica negli anni Venti del XX secolo: una cosa era suonare in un cabaret dove entrano venti, trenta persone, e un’altra in una grande sala sempre però adibita a cabaret. Penso al Gran Terrace di Chicago, dove ci sono scenografie, ballerine, insomma spettacolo. Situazione diversa è suonare in un piccolo club della 52ª Strada a New York o in un grande teatro o ancora sul palco di un festival come quelli di Newport o di Umbria Jazz. E questo cambia tutto, la musica spesso si adatta per non parlare – lo sai molto bene – dell’impatto che ha avuto la danza anche sul jazz, quindi il pensiero e lo studio vanno ai locali dove si balla, il Savoy per esempio o altre grandi ballroom durante la swing era. Le sale hanno addirittura influenzato le scelte musicali che dovevano adattarsi a quelle di danzatori/ballerini, quindi nel libro c’è anche questo aspetto.
D Tu sei stato il primo in Italia – non so se nel mondo – con il libro precedente, Che razza di musica, a sdoganare l’idea che il jazz non sia solo dei “negri” (tra virgolette), ma risulti una musica multietnica, dove in fondo il contributo di italoamericani, ebrei, russi, est-europei, latinos, eccetera, è fondamentale. Anche in questa tua storia, si perpetua tale concetto?
R Certo, anche perché se il jazz resta indubbiamente una musica inventata dagli afroamericani, se ne sono appropriati, abbastanza presto, i musicisti del mondo più diversi, perché vi hanno trovato un modo per raccontarsi e per esprimersi. Nel libro, sebbene brevemente, in quel caso, si parla del modo in cui gli asiatici negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso si sono avvicinati al jazz per raccontare, per esempio, le loro battaglie sociopolitiche attraverso la musica. Non dimentichiamo la grande ondata di jazz ebraico legata alla scena Downtown di John Zorn e soci che tra l’altro ha aiutato la rinascita poi del jazz in Israele. Nel libro parlo anche del jazz nei paesi arabi, in Nord Africa; il Marocco è stato per certi versi essere un paese importante, la Tunisia, finché lo è stata, era molto presente sulla scena internazionale. L’Egitto negli anni Venti del Novecento c’era, insomma. E c’è anche un capitolo dedicato ad altri paesi africani e a quelli del Sud America. Quindi la prospettiva globale non è semplicemente il desiderio di provare a vedere cosa succede in altri paesi, ma è proprio rendere conto di come il jazz si sia trasformato come dicevi tu. per esempio in Unione Sovietica negli anni Settanta, oppure quello in Congo nei Sessanta.
D Ci avviciniamo a un intero capitolo, l’Europa, che molti considerano come un sottoprodotto americano, ma che credo tu condivida con me, non è più così da mezzo secolo. E che spazio c’è nel libro?
R È uno spazio molto importante, ovviamente già dalla prima edizione, ma qui è stato molto ampliato per esempio sull’Europa dell’Est, prima della caduta del Muro con una maggiore attenzione al mondo cecoslovacco, ungherese, rumeno che ha fornito musiche importanti in quel periodo, ancora fino agli Ottanta. In generale ho voluto soprattutto sottolineare appunto l’originalità del contributo europeo. E c’è anche una maggiore ovvia attenzione alla scena italiana, non solo rendendo conto del lavoro dei musicisti italiani, ma anche di come la società italiana si è trasformata mentre si trasformava il jazz, pensiamo all’affermarsi della didattica dagli anni Ottanta a oggi con figure fondamentali come Giorgio Gaslini. O pensiamo all’espansione del mercato discografico negli anni Ottanta e Novanta. Descrivo altresì le capacità dei jazzisti italiani di oggi di collaborare a livello europeo, con i danesi, con gli olandesi, con gli svedesi o con i francesi, quindi sicuramente c’è uno spazio importante nel libro sul contribuito europeo e italiano alla storia del jazz.
D Ecco da questo punto di vista una domanda frequente da parte di un po’ tutta la critica italiana riguarda la cosiddetta è ‘identità’. L’identità europea o nazionale o transnazionale conta davvero nel nostro jazz?
R Su questo tema, io sono dalla parte del filosofo Francesco Remotti: penso che l’identità non esista, anzi sono contro il concetto di identità, che è una sorta di gabbia o di prigione, è peraltro qualcosa che genera più conflitti di quanti vorrebbe risolverne, ragion per cui, no, non parlo di nessun tipo di identità che d’altra parte mi sembra una grande sciocchezza. Occorre inoltre considerare anche che, per esempio, i jazzisti europei oggi si sentono europei, e non c’è un’identità olandese, inglese, francese come in parte forse ci poteva essere negli anni Settanta con un jazz olandese, un jazz inglese, un jazz francese, ma con mille sfumature. Ma oggi meno che mai, in una condizione globalizzata! Casomai esiste un problema di uniformizzazione del mercato, per cui il brand Blue Note Records, per connotare un certo tipo di quel jazz, lo troviamo a Mosca come a Shanghai o a Tokyo. E questo è probabilmente un grosso problema…
D Perché secondo te – questo io l’ho notato soprattutto sui social e nei gruppi di discussione, ma anche nelle classifiche stilate da rivista non musicale, anche prestigiose, penso a una recente del mensile «Panorama» on line – esiste la vulgata secondo cui il jazz coincide sostanzialmente con il periodo 1955-1965, a sua volta ristretto al solo hard bop o addirittura agli album della Blue Note? Come mai questa fissazione, che è altresì tipica di molti collezionisti danarosi, ha particolare successo?
R Da un lato credo sia il risultato di una normale strategia di mercato, per cui alcuni dischi che hanno particolare successo vengono continuamente riproposti e quindi si imprimono anche nell’immaginario più pop, diciamo così della percezione del jazz; dall’altro c’è qualche responsabilità anche da parte della didattica che tende a schiacciarsi un po’ e ad appiattirsi su quel tipo di jazz, dimenticando che esiste molto altro sia prima sia dopo l’hard bop. Però per fortuna devo dire che poi i giovani musicisti sanno guardare oltre e dunque mi sembra più un problema generazionale, che riguarda un po’ meno i jazzisti contemporanei, almeno in Europa, certo…
R Un’ultima domanda, frivola: a un possessore della prima edizione, mi elenchi due, tre motivi affinché compri quella nuova? Detto più seriamente che novità ci sono dopo circa quindici anni intercorsi fra i due libri?
R Parecchie novità! C’è un capitolo in più, nuovo, che è l’ultimo, sul jazz contemporaneo; c’è una maggiore attenzione al ruolo delle donne nel jazz che è distribuito nel corso della storia senza capitoli specifici o quote rosa inutili, ma dando valore e significato al contributo di queste musiciste; c’è tutta una nuova analisi del rapporto fra jazzmen americani e africani: quello tra jazz e Africa è un rapporto complesso e contraddittorio; e come dicevo prima c’è una maggiore attenzione all’Europa dell’Est; e poi c’è un sacco di aggiornamenti sui musicisti con informazioni nuove che quindici anni fa non c’erano; esistono inoltre analisi più approfondite e aggiornamenti discografici: e siccome queste cose sono inserite nel corpo del testo, di fatto si tratta di un testo nuovo di mille pagine, quindi invito, come dire, a rileggerlo da capo, perché le prospettive sono cambiate…
D Stefano il tuo è oggettivamente un libro importante: se fossimo vissuti cinquant’anni fa all’epoca del Jazz di Polillo, il tuo sarebbe stato sen’altro edito da Mondadori o Einaudi, Rizzoli, Bompiani; oggi purtroppo i grossi – io non li chiamo grandi, ma grossi – editori, tacciono un po’ su questo argomento (salvo qualche traduzione o instant book del jazzman à la page), ma per fortuna che esistono i piccoli editori ad esempio, proprio Quodlibet ha pubblicato secondo me sul jazz quattro o cinque libri stupendi negli ultimi anni dall’Art Ensemble of Chicago al Miles Davis elettrico, dalle ‘confessioni’ di Jelly Roll Morton alle lettere dio Louis Arsmtrong. Dobbiamo quindi ringraziare oggi i piccoli editori!
R Assolutamente sì, grazie.
