Intervista a Gildo De Stefano: «Credo che la terminologia jazz sia ormai obsoleta, se non antica»

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con Saudade Bossa Nova - taglio2

// di Valentina Voto //

Gildo De Stefano è un sociologo, saggista, critico e giornalista musicale. Fin dagli anni Ottanta pubblica libri e saggi sul jazz e sulla musica e cultura afroamericane (argomento su cui tiene periodicamente stage), ma è anche autore di monografie su Frank Sinatra, Francesco Guccini, Vinicio Capossela – prova di un interesse per la musica che lo coinvolge a 360 gradi – oltre che di romanzi e libri di narrativa. Collaboratore della Rai e di diverse testate giornalistiche non solo italiane, così come della Fondazione Treccani per la stesura delle voci enciclopediche relative ai musicisti afroamericani, è altresì il direttore artistico del Festival Italiano di Ragtime, l’unica rassegna italiana ed europea sul genere. La sua attività giornalistica gli è valsa negli anni Novanta il Premio Nazionale di Giornalismo indetto dal Ministero dei lavori pubblici, mentre quella letteraria lo ha portato tra i finalisti del Premio Calvino, ma De Stefano può vantare anche un’esperienza più che trentennale come comunicatore politico, ed è anche digital p.r. e community manager.

D In tre parole chi è Gildo De Stefano?

R Sognatore, curioso, iper-sensibile.

D Quali sono i suoi primi ricordi della musica da bambino?

R Mi reputo fortunato avendo avuto una madre pianista e insegnante che mi ha fornito i primi rudimenti, e ho respirato musica (anche se era classica) quasi tutti i giorni, per le lezioni che lei dava in casa nostra. Ma io inseguivo un ritmo e un sound di cui non decifravo ancora i contorni né l’identità… avrei dovuto aspettare l’adolescenza per capire che era lo swing.

D Come è arrivato al jazz?

R In fase adolescenziale, e per quanto mi reputi un figlio del progressive e hard rock,ero molto affascinato dal dixieland, un po’ come l’amico Arbore, fino agli inizi degli anni Settanta, quando venni fulminato da due eventi: la colonna sonora de La Stangata, con le celeberrime musiche di Scott Joplin, e la trasmissione TG2 Odeon, col mostruoso Keith Emerson che eseguiva Honky Tonky Train Blues. Da quel momento in poi mi dedicai intensamente allo studio del ragtime e questo ha sortito l’unica storia del genere edita in Italia e in Europa, sempre per la LoGisma, che ha fatto un lavoro fenomenale di editing rispetto alle due precedenti edizioni.

D Cosa l’ha condotta alle sue molte vesti professionali legate alla musica, non solo al jazz?

R Mi sarebbe piaciuto essere un pianista jazz, poiché quello strumento per anni mi ha fatto “sbarcare il lunario” suonando in diversi piano-bar e mi ha pagato anche le tasse universitarie. Tuttavia, riconoscendo i miei limiti strumentali, sono passato al di là della barricata, affascinato dalle vite dei grandi jazzisti internazionali che in parte ho conosciuto viaggiando spesso in America grazie all’ospitalità gratuita del cosiddetto “zio americano”, che viveva a Rochester, in cui ho trascorso diverse estati della mia vita. Ho letto molte biografie ma la maggior parte del mio bagaglio musicale l’ho acquisita sul campo, intervistando i diretti protagonisti, come Chico Buarque de Hollanda e Caetano Veloso per il mio libro Saudade Bossa Nova, edito dalla LoGisma di Firenze.

D Quali sono i motivi che l’hanno spinta a occuparsi di critica musicale?

R Ormai avevo scavalcato la staccionata abbandonando il pianoforte e intanto ero diventato giornalista, così ho trasferito tutta la mia esperienza, conoscenza e passione all’ascolto e alla recensione di tutto il materiale, discografico ed editoriale, che mi inviavano al giornale.

D Cos’è per lei il jazz? E per lei ha ancora un senso oggi la parola “jazz”?

R Così come ho riportato nei miei libri credo che la terminologia “jazz”sia ormai obsoleta, se non antica. Già negli anni Ottanta si parlava di world music a causa delle prime contaminazioni fra generi – nonostante conservavano come tappeto basico le modalità jazz. Nondimeno esso non può cadere definitivamente nell’oblío, poiché rimane sempre viva e costante la sua essenziale peculiarità: l’improvvisazione.

D Si può parlare di “jazz italiano”? Esiste per lei qualcosa di definibile come “jazz italiano” o “jazz europeo”?

R Sicuramente, alla stregua di altri Paesi europei, come la Svezia, la Norvegia, senza poi approfondire con la Francia e l’Inghilterra. Naturalmente a tutti loro ha fatto da apripista quello americano (forse ancora meglio quello afroamericano), e se volessi essere leggermente cattivo potrei anche dire che quello nostrano ed europeo appare più come “improvvisazione sul tema” che come creazione sbalorditiva, quali sono invece determinate composizioni di Miles Davis o Charles Mingus.

D Cosa distingue l’approccio al jazz e alla musica di americani e afroamericani da quello di noi europei?

R Sono napoletano e quindi per comprendere meglio potrei portare ad esempio la “parmigiana”. Ormai questo piatto è stato sdoganato ampiamente in tutto il mondo, ma ti invito a provare (come ho fatto io viaggiando) l’originale cucinata dalla tipica casalinga partenopea, confrontandola con quella di un qualsiasi altro paese d’Oltreoceano o europeo. Alla nostra casalinga quel piatto l’è costato sangue, sudore e lacrime, come agli afroamericani il blues, lo stride, e il ragtime, ma quello nero, per cui il pianista rischiava la vita tutte le sere, come riporta il buon Oscar Wilde.

D Parlando del suo apporto di sociologo agli studi sul genere (e non solo), quanto può essere utile, se non forse necessario, che un approccio sociologico (e socio-antropologico) accompagni un approccio schiettamente storico e musicologico, soprattutto nello studio di un genere come il jazz che è anche un “fatto sociale” e “glocale”?

R Affermo necessariamente utile! Già negli anni universitari ho cominciato a pormi diversi quesiti a cui nessuno riusciva a darmi risposte esaustive. Mi chiedevo: perché quel genere musicale è nato proprio sul delta del Mississippi e da quel popolo così oppresso? Le chiavi di lettura non potevano più essere solo la critica e l’analisi musicale, concentrate sull’osservazione del fenomeno in sé; per trovare le risposte giuste sentivo il bisogno di focalizzare la ricerca sulla divulgazione, sulla fruizione e men che mai sulla distribuzione, e per fare ciò avevo bisogno di altri strumenti d’indagine che, menomale, possedevo grazie ai miei studi socio-antropologici. A tal uopo c’è un intero capitolo nel mio Il ragtime edito da LoGisma in cui scandaglio in profondità tale aspetto, anche se esso può apparire al lettore neofita un po’ ostico.

D A tal proposito, salta anche all’occhio nella sua produzione il libro Una storia sociale del jazz (Mimesis, 2014) – che certo ricorderà ai lettori italiani il titolo in traduzione della nota opera di Eric Hobsbawm Storia sociale del jazz –, così come spicca il nome dell’illustre prefatore, nonché teorizzatore della “società liquida”, Zygmunt Bauman. Ci parlerebbe di questo volume?

R Leggendo il libro di Hobsbawm in me si aprì un mondo, e da lì cominciai a pensare al jazz non solo dal punto di vista musicologico bensì da quello sociologico, e tale fu l’ispirazione che nel 1986 pubblicai Trecento anni di jazz (SugarCo, Milano), in cui cominciavo a discettare del jazz sotto il profilo socio-antropologico. Un secondo mondo si è aperto leggendo diversi libri di Zygmunt Bauman e soprattutto intervistandolo a Bari, dopo una lectio magistralis in cui, con molto garbo, gli dissi come i suoi libri e soprattutto la teoria della “società liquida” mi avevano fortemente colpito, a tal punto da aver scritto un libro sul jazz liquido, e gli chiesi se voleva apporvi una prefazione. Mi beccai un netto rifiuto ma elegantemente garbato, riconoscendo la sua poca perizia in quella materia, e da qui compresi come l’umiltà alloggia nei grandi uomini. Tuttavia non mi arresi e ritornai alla carica il giorno dopo portandogli ad esempio il suo caro e vecchio amico Eric Hobsbawm: alla fine ha accettato.

D In quali modi, nell’oggi postmoderno, il concetto di “liquidità” interessa sia la musica, compreso il jazz, sia la critica musicale?

R Mai come nella società odierna tale concetto calza a pennello in tutto il segmento musicale, coi suoi annessi e connessi. Questa nostra esistenza nel Terzo Millennio è caratterizzata da fondamentali quanto deleterie peculiarità: volatilità di concetti, un’esasperante impudenza e, non ultima, un’ambigua felicità.

D Com’è essere un critico musicale oggi? La critica musicale sta davvero scomparendo, come molti dicono?

R A costo di apparire cinico dico che oggi la critica musicale (e quindi il critico) è serva di apparati industriali quali quello discografico e quello editoriale. Per leggere in giro una stroncatura bisogna attrezzarsi con la “lanterna di Diogene”, poiché c’è una sorta di appiattimento nel giudicare questo brano o quel libro. Per l’età che ho raggiunto non mi va di sottostare a tali meschini meccanismi, quindi quando un prodotto non raggiunge almeno il minimo della decenza artistica lo stronco placidamente, come faccio spesso da qualche anno sulla rivista romana Leggere:tutti, fino a che non mi licenzino.

D Passerei ora al suo interesse per il ragtime, cui è dedicato il suo ultimo libro “ll ragtime. Storia di quel ritmo sincopato, antenato del jazz” (LoGisma, 2024), l’unico studio sistematico in lingua italiana sull’argomento, qui, come ci ricordava, alla sua terza edizione. Anche in questo caso i prefatori sono illustri e noti: Amiri Baraka e Renzo Arbore. Ce ne potrebbe parlare? Quale obiettivo si è posto con questo libro?

R Sin dalla prima edizione del 1982, fin poi ad arrivare a quella dell’anno scorso – perfetta e completa col prezioso contributo, altamente professionale, della LoGisma di Firenze – ho avuto la strana impressione – a tratti – di essere l’incarnazione del grande e sfortunato Scott Joplin. Non so come dirlo ma mentre scrivevo quel libro mi sono sentito addosso quasi le umiliazioni che il musicista di Texarcana ha dovuto subire. Ho ascoltato talmente tante volte le sue composizioni, letto il libro di E.L. Doctorow, visto e rivisto film dell’epoca come Ragtime di Forman, che a un certo punto mi è sembrato doveroso pubblicare un libro su un genere che qui in Europa sarebbe rimasta lettera morta. E quando, poco prima della sua morte, ho sentito Amiri Baraka per la prefazione, questi è rimasto stupefatto di come in un italiano covasse tanta passione per un genere musicale nato dalle sofferenze di un grande artista poco riconosciuto dalla comunità internazionale.

D Fin dagli anni Ottanta ha poi dedicato al ragtime anche una rassegna unica nel suo genere, il Festival Italiano di Ragtime. Ci direbbe qualcosa anche del festival?

R Solo il libro non mi bastava, e quindi coraggiosamente dovevo offrire al lettore non solo pagine su pagine bensì anche esecuzioni dal vivo, per lui una sorta di “cartina di tornasole” di ciò che aveva letto: così ho creato il Festival Italiano di Ragtime, a cui ho invitato a esibirsi i tre maggiori ragtimer italiani del tempo: Marco Fumo, Antonio Ballista, e Cesare Poggi. Adesso ce ne sono diversi molto bravi, tra cui Riccardo Scivales.

D Vorrei parlare ora del libro “Saudade Bossa Nova. Musiche, contaminazioni e ritmi del Brasile” (LoGisma, 2017), che si apre e si chiude con i preziosi contributi di nientemeno che Chico Buarque e Gianni Minà. Come nasce il volume? Si possono individuare somiglianze tra la mùsica popular brasileira e il jazz e le sue vicende?

R Senza dubbio certi sincretismi e contaminazioni sono simili, e non solo musicali ma anche socio-politici. L’uscita di questo libro poi mi ha stupito non poco rispetto a quelli scritti sulla musica jazz, poiché non credevo riscuotesse tanto successo tra i lettori e, soprattutto, tra gli aficionados. Peraltro non era nelle mie intenzioni scriverlo se non fosse stato per la perseveranza e la persuasione di un mio caro amico, nonché ottimo chitarrista di musica brasiliana, Gianni Palazzo, che spesso mi invitava nella sua casa di San Paolo. È stato lui a farmi entrare negli ambienti musicali brasiliani e, alla prima occasione che Chico e Caetano sono venuti in Italia, li ho intervistati. Due artisti di grande caratura che, assieme al compianto e amico Gianni Minà, si sono prestati ad arricchire questo fondamentale e definitivo libro sulla mùsica popular brasileira, che parte dalla preistoria del genere ed è stato pubblicato in occasione dei cinquecento anni dalla scoperta del Brasile.

D Chiuderei infine con un cenno al suo volume “Frank Sinatra. L’italoamericano” (LoGisma, 2021), testo su una figura complessa e di interesse non solo musicologico. Quali i rapporti di The Voice con la sua italianità e con l’Italia, anche e soprattutto musicale? Anche Sinatra, poi, ha guardato al “canto nero”, che ha influenzato tutte (o quasi) le “voci bianche” della modernità…

R Frankie è un altro dei miti per me irrinunciabili. Come ho riportato nel libro – sempre curato in maniera certosina dall’editore Gherardo Lazzeri – rappresenta la voce per eccellenza del Novecento e, malgrado i suoi rapporti non sempre idilliaci con la sua patria d’origine, rimane un’icona inscindibile nel panorama mondiale non solo della musica bensì della cultura in generale. Era inevitabile che subisse il fascino di quelle sonorità blue dei neri d’America, come il suo collega Bing Crosby, ma, a differenza di quest’ultimo, Sinatra è stato accolto dalla comunità mondiale come la manna per gli ebrei nel deserto durante la loro fuga dall’Egitto. Sicuramente un personaggio controverso sotto certi aspetti, tuttavia di enorme talento artistico, che ha saputo valorizzare al massimo i crismi del “bel canto italiano”.

D Come vive lei il jazz e la musica tutta in Italia, anche in rapporto alle sue esperienze sul territorio?

R Non bene, poiché la trovo ormai alquanto iterativa. Nell’attesa di un nuovo profeta dopo il mitico Miles Davis ricevo un’infinità di inviti per ascoltare concerti e rassegne di musicisti ormai noti al mio orecchio, inviti che declino in maniera scandalosa ma mi bastano gli imprimatur dei loro Cd, che non so più dove sistemare. Ho il garage che scoppia.

D Cosa pensa dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?

R La cultura italiana porta avanti i “soliti noti” come una trottola impazzita e il jazz è sempre stata la sua cenerentola. I nostri jazzisti, nel loro arrancare, si sono dati – loro malgrado – all’autoproduzione, poiché le grosse label li snobbano.

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