marco-fumo-1

// di Guido Michelone//

Nell’aprile 2025 Marco Fumo pubblica l’abum From Cuba to Harlem (Odradek): alle soglie degli ottant’anni il maggior ragtimer italiano redige il proprio testamento artistico-spirituale, proponendo la sua versione della storia del pianoforte afroamericano, che inizia da quattro autori tardottocenteschi (Manuel Saumell, Louis Moreau Gottschalk, Ignacio Cervantes, Ernestro Nazareth), passa attraverso rag, stride, barrelhouse (Scott Joplin, Jelly Roll Morton, EWillie The Lion Smith, James P. Johnson), tocca l’apice con i vivaci hot e swing (Hank Duncan, George Gershwin, Duke Ellington, Fats Waller, Art Tatum), apre alla modernità (Joe TRurner, Thelonious Monk, Erroll Garner): sono in tutto 16 autori e per 20 brani talvolta famosissimi (Tea fort Two, St. Louis Blues, Sapphire, Blue Sphere) splendidamente interpretati, nel corso di un ventennio, con rigore filologico, quasi classicista. Marco Fumo, nato a Teramo, il 2 maggio 1946 è all’inizio un pianista che si occupa soprattutto di ragtime, suonando in particolare i repertori di Joplin, Lamb, Matthews, Morton, già sul principio degli anni Ottanta, aprendosi poi anche verso autori quali Saumell, Gottschalk e Cervantes fino a Gershwin e a Ellington attraverso il piano stride di Harlem. In parallelo collabora per diversi anni con Nino Rota ed Ennio Morricone i quali gli dedicano persino alcune appositive composizioni. Ma i musicisti colti, spesso sperimentali, che per lui scrivono brani ispirati al ragtime sono molti, tra cui Lorenzo Ferrero, Armando Gentilucci, Marco Di Bari, Bruno Canino, Gianpaolo Chiti.

Nei concerti con orchestra fumo viene diretto tra gli altri dagli stessi Rota e Morricone, d un personaggio vicino anche al pop quale Nicola Samale, o da grandi jazzisti come Enrico Intra, Bruno Tommaso, Giorgio Gaslini, mentre in duo pianistico si esibisce via via con Hugo Aisemberg, Enrico Pieranunzi e Kenny Barron.Attivo pure nell’insegnamento Marco risulta professore di pianoforte nei conservatori di Matera, Bari, Pescara, Udine e Castelfranco Veneto, dove viene un biennio sperimentale di Letteratura pianistica afroamericana, oltre essere altresì titolare per alcuni anni della cattedra di Ragtime presso la Civica Scuola di Jazz di Milano. Purtroppo la discografia non è abbondantissima perché dal debutto con il 33 giri Piano In Rag (Fonit-Cetra 1983) passano ben 16 anni per trovare il secondo Last Time Rag (Dynamic 1999) subito seguito dal terzo Rhapsody in Black and White (Dynamic2000), per il quarto trascorrono altri lunghi 14 anni di silenzio per giungere a The Early Ragtime: Tom Turpin, Scott Joplin, James Scott & Bix Beiderbecke (On Classical 2014). C’è un ulteriore stop di sei anni e poi regolarmente Fumo propone i quattro Reflections (Odradek Records 2020), Il Mio Morricone: Tribute to a Friend (Odradek Records 2021), Timeless (Odradek Records 2022) e appunto, con prefazione di Stefano Zenni, From Cuba to Harlem. The Other Roots of Jazz, che però raccoglie registrazioni effettuate in quattro diversi periodi: 1994, 1997, 2001, 2016. Quest’intervista risale a domenica 4 maggio 2025.

D Marco, parliamo innanzitutto del tuo nuovo lavoro discografico. Si può dire che è il lavoro definitivo della tua lunga carriera?

R È decisamente il lavoro definitivo in quanto è l’ultimo in assoluto. Mi spiego meglio: sono oramai tre anni che vivo di rendita, cioè ho fatto i miei ultimi tre cd utilizzando delle vecchie registrazioni di epoche diverse scegliendo quelle che per me erano di più alto livello, sia per qualità esecutiva che per argomento messo in gioco. Sono tre anni che, grazie ad una emorragia cerebellare che però mi ha lasciato indipendente in tutto il resto delle cose della mia vita, non posso più suonare e vista anche la veneranda età ho deciso di inventarmi una miniserie di tre cd (gli ultimi) con relativa presentazione intitolata “Ci sono anche quando non ci s(u)ono”. Casualmente i tre cd corrispondono alle tre anime di Marco Fumo: il provocatore, il riconoscente ed il visionario.

D Come ti è venuta l’idea di raccontare la storia del jazz e prima ancora le origini della musica afroamericana su disco attraverso una scelta di brani?

R In effetti non volevo raccontare la storia del jazz e delle sue origini nello specifico, ma è venuto da se che ho sempre suonato indifferentemente cose molto diverse tra loro (vedi la mia storia discografica) e quindi la scelta dei brani è stata la causa che ha prodotto l’effetto e non il contrario: suonando cose tanto differenti tra loro ho capito ad un certo punto che c’erano delle interconnessioni, delle cose comuni tra vari stili tra varie epoche e quindi da lì il passo è stato breve….

D Facciamo un passo indietro, così, a bruciapelo chi è in tre parole Marco Fumo?

R In tre parole forse è un po’ difficile condensare la mia essenza: sicuramente non è un pianista jazz, sicuramente è un musicista che suona il pianoforte, sicuramente è mentalmente pigro. Un musicista per tutte le stagioni?

D Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?

R Il primo ricordo che ho della musica è un pianoforte che suona da lontano durante l’ora di ricreazione in un bellissimo parco di un istituto di suore dove ho frequentato l’asilo e le prime classi delle elementari: chiesi alla suora portinaia (suor Pasqualina, ricordo ancora il nome) di essere condotto lì da dove veniva quel suono e chiesi autonomamente all’insegnante di pianoforte se era disposta a darmi delle lezioni: mi rispose che era necessario parlare prima con i miei genitori…

D E il primo ricordo del jazz?

R Quando mi recavo a Teramo per le feste (i miei nonni abitavano lì e approfittavamo delle feste per andare a trovarli) mio zio Lucio mi faceva ascoltare i dischi di Erroll Garner e di altri pianisti jazz di cui sinceramente non ricordo i nomi (ero ragazzino di dieci anni o giù di lì)…

D Quali sono i motivi che ti hanno spinto a scegliere il pianoforte?

R Aldilà del fatto che era stato il primo strumento che mi era capitato di ascoltare, che avevo avuto la possibilità di avere tra le dita e che mio zio mi faceva ascoltare ogni volta che capitavo a tiro, penso che sia l’unico strumento in grado di accogliere in se una partitura, in grado di suonare l’armonia e la melodia di un brano, in grado di sostenere un concerto da solo senza problemi, insomma è uno strumento completo e che può fare a meno di qualsiasi aiuto. Ciò non toglie che ami le voci di altri strumenti e che abbia praticato in un periodo della mia vita molta musica da camera, soprattutto quando mi muovevo nell’ambito della musica classica, agli inizi della mia carriera.

D E in particolare il primo e forse unico pianista in Italia a specializzarsi nel ragtime?

R Qui entra in ballo la mia pigrizia unita alle casualità della vita: Natale 1980, riunione di amici a casa di un’amica comune; nelle varie discussioni mio zio Lucio mi lancia l’idea del Ragtime, genere pianistico molto vicino al jazz ma nel quale non era necessario improvvisare, tornato di moda in quel periodo (Odeon e trasmissioni televisive del genere) dopo lungo silenzio almeno in Italia. Ora diciamocelo francamente, suonare il ragtime può essere difficile per una questione di stile di storia di pensiero, ma non era certo uguale l’impegno di studio che si doveva mettere per suonare Listz o Brahms o Mozart o Beethoven. Ci riflettei ma non troppo: era il genere che faceva per me, mi piaceva il jazz e quindi soddisfaceva una mia vecchia esigenza di frequentare quel mondo, non dovevo improvvisare e per di più mi sarebbe costato molta meno fatica.

D Ma cosa rappresenta per te il ragtime?

R Naturalmente affrontai l’argomento di petto e volli ricreare diciamo così la vecchia atmosfera dei primi del ‘900 e quindi rispolverare un interesse verso il genere da parte di compositori “colti contemporanei” come era successo all’inizio del secolo scorso: quindi raccolsi brani che dovevano essere solo ispirati al ragtime da parte di Gentilucci, Di Bari, Ferrero, Canino, Chiti, Mosca, Carluccio, Tutino, eccetera compositori dai linguaggi molto diversi tra di loro. Chiesi alla Ricordi di fare un unico volume con tutti i brani, ma il fatto che questi autori fossero editi da case editrici diverse bloccò l’iniziativa. Quindi il Ragtime era per me un punto di partenza, una scusa per mirare a diversi obbiettivi anche meno legati al genere stesso, più lungimiranti e spazianti nell’essenza stessa della musica in generale.

D Dal rag sei risalito ad altre forme musicali afroamericane: in che modo?

R Mi sono quindi chiesto da dove venisse il Ragtime e che cosa avesse prodotto in termini strettamente musicali rendendomi conto pian pianino che il Ragtime era stato un vero e proprio snodo musicale che era servito a smistare tutta la musica che proveniva dalla diaspora della rivoluzione Haitiana (quindi Cuba con i suoi ritmi, le sue danze, le sue tradizioni) che andava verso New Orleans e la nascita del primo Jazz, i ritmi che si intrecciavano erano intrisi di Cuba e di tradizioni locali. Il Ragtime era stato il trait d’union tra le due culture, il lasciapassare per entrare nel magico mondo del Jazz attraverso lo stride piano di James P. Johnson che riassumeva e assemblava diversi parametri della musica classica con la cultura africana americana dell’epoca.

D Nel disco hai suonato anche modern jazz. Ma cosa significa per te la musica che dal bebop giunge al free (e oltre)?

R Molto poco, anche perché la mia esperienza nella musica contemporanea si riduce all’iniziativa legata al Ragtime e alla collaborazione con Ennio Morricone col quale entrai in contatto grazie al progetto sul Ragtime: gli mandai il mio primo disco (era un LP pubblicato dalla Fonit-Cetra) e lui innanzi tutto mi disse che gli era piaciuta l’iniziativa e per tutta risposta mi scrisse un brano in quattro e quattr’otto che era basato sul rivolto di un frammento del tema di “In the mood” di Glenn Miller: ci costruì sopra “Rag in Frantumi” che mi dedicò e dopo quell’esperienza mi chiese se ero disposto a suonare tutta la sua produzione contemporanea. Scusate se ho inserito il lavoro svolto con Ennio poi per dieci anni, ma parlando di musica che è cambiata dal bebop al free mi è venuta in mente l’esperienza con Ennio che è stato l’unico approccio vero con la musica contemporanea in quel periodo. Venendo innanzi nel tempo non ho seguito molto l’evoluzione del jazz verso la musica free, anche perché se ha un senso replicare un brano di James P. Johnson e suonarne una trascrizione (tutta la musica del periodo è quasi musica scritta se vogliamo) non avrebbe senso suonare una trascrizione di Bill Evans o di un suo pari (comincia il periodo della musica molto più legata all’improvvisazione sino alla libertà più completa della musica free)…

D Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica nel momento in cui la suoni?

R Il racconto con annessi e connessi è l’unica cosa che per me riesce a rendere viva la musica, a darle un senso compiuto, a darle una vita che ogni volta è diversa e autonoma dal racconto della volta precedente.

D E quando la ascolti?

R Quando la ascolto cerco con tutte le mie forze di dimenticare che sono un musicista (troppi sono i condizionamenti e le particolarità in cui il musicista si perde) e di immergermi da fruitore nel vero senso del termine nel racconto che la musica mi narra, e più il racconto mi prende e più dimentico di essere un musicista e più la musica ha il suo senso compiuto.

D E cosa significa improvvisare?

R Improvvisare è un lato oscuro della mia storia di musicista: è per questo che non mi considero un musicista jazz, sono un musicista che prova a suonare del jazz ma non sono un jazzista nel vero senso della parola.

D Quanto conta l’improvvisazione nel tuo modo di suonare?

R Conta come in un musicista classico, mi spiego meglio: il musicista classico può improvvisare nel senso che può variare il modo di risolvere una frase, può accentuare o meno un rallentando, eccetera, ma non cambia le note della partitura: nel jazz invece si possono fare molte più cose sino a sostituire un accordo con un altro, cambiare il senso di una melodia sino a stravolgerla, cambiare addirittura la suddivisione. Proprio quando stavo cominciando ad affrontare il problema dell’improvvisazione, tre anni fa, mi sono sentito male ed ho dovuto mollare tutto: esistono delle registrazioni casalinghe di tre anni fa dove in alcune contradanze di Saumell provo ad improvvisare sulla melodia e sul ritmo.

D Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?

R No, il disco è solo un momento della crescita di un musicista, un momento del dire vediamo dove sono arrivato, un momento della sua crescita umana e musicale, è sempre un punto di passaggio e non di arrivo, persino questo che è l’ultimo non è un punto di arrivo, ma di passaggio.

D E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?

R Conversations With My Self di Bill Evans.

D Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?

R Purtroppo devo confessare che nella musica, pur avendo avuto fior di maestri il maestro più produttivo sono stato io: solo studiando le mie reazioni ed i miei atteggiamenti sono riuscito a capire cosa era meglio fare piuttosto che non fare e solo il mio atteggiamento di ricerca continua mi ha messo nelle condizioni di capire sempre più cose. È difficile fare il maestro, si corre il rischio di servirsi della bravura dell’alunno senza preoccuparsi del suo vero bene. Se vivere vuol dire immergersi nella cultura allora i due termini sono sovrapponibili ed intercambiabili: avere cultura vuol dire che si è vissuto intensamente.

D E i pianisti che ti hanno maggiormente influenzato? (E i musicisti con cui ami collaborare?)

R I pianisti che mi hanno maggiormente influenzato sono Bill Evans e Keith Jarrett; mi hanno influenzato soprattutto per il modo di trattare lo strumento e l’armonia, la ricchezza infinita di suoni e di sfumature sonore e armoniche: credo che siano i due musicisti che hanno tratto di più dallo strumento pur nella loro diversità. A parte che di Bill Evans serbo un ricordo tutto mio: venne a studiare a casa mia in occasione del Festival Jazz di Pescara e non potrò mai dimenticare il passaggio con assoluta nonchalance dalla musica di Bach, con la quale aveva cominciato per scaldarsi, alla sua musica…

D Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?

R Non esiste il momento più bello, esistono vari momenti che hanno un loro significato preciso e sono legati per esempio al raggiungimento di un obbiettivo strumentale, piuttosto che alla conoscenza di un personaggio che ti fa crescere come uomo, come modo di vivere la musica eccetera eccetera.

D Come vedi oggi la situazione della musica in Italia?

R Non è che sia molto ottimista: mi pare che ci sia una gran confusione e poi c’è un gran punto interrogativo, cosa che riguarda un po’ tutti, non solo l’Italia, l’IA che ruolo ha già e che ruolo avrà nella situazione della musica? Non faccio l’indovino, ma penso che ne vedremo o chi per me ne vedrà delle belle!!!

D E più in generale della cultura in Italia?

R Nella politica Italiana la cultura ha sempre avuto un ruolo minore, marginale: ho come l’impressione che più ignoranti siamo e più facilmente saremo piegati ai disegni ed ai voleri del dio denaro che è la principale preoccupazione della politica di oggi.

D Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?

R Non so, certo non suonare mi impedisce di progettare suonando, quindi il mio impegno sino ad ora è stato curare l’ultimo cd che mi ha dato qualche problema, ma tutto sommato mi posso ritenere soddisfatto. Un attimo di riflessione non fa mai male e vedrò di inventarmi qualcosa per il futuro rimanendo in campo musicale!!!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *