Uri Caine: abbiamo, ho avuto, molteplici influenze. La classica nel jazz del grande musicista americano

Uri Caine
// di Guido Michelone //
“Molti musicisti – non è una cosa che appartiene solamente a me – sono cresciuti ascoltando musicisti diversi. Quindi abbiamo, ho avuto, molteplici influenze, perché ascoltavamo il rock, il jazz, la musica classica… ed era tutto parte di questa grande ‘cosa’. E penso anche che quando la gente fa questo tipo di distinzioni tra i diversi generi di musica sia un’ingenuità il ritenere che non faccia parte del mestiere di musicista conoscere diversi tipi di musica, così come per un buon cuoco dovresti sapere cosa succede il Italia, e cosa succede in Cina. Non è che sai fare una sola cosa e ti concentri su un unico genere; hai influenze molteplici e diversissime. Ho sempre sperimentato con piacere diversi tipi di musica”. A parlare è il pianista Uri Caine, nato a Filadelfia l’8 giugno 1956 che è sicuramente un jazzista a pieno titolo, ma che incrocia il suo jazz, in dischi e concerti di positivo riscontro fra critica e pubblico, con grandi capolavori della classica dal Seicento a oggi.
Quando si parla di rock, jazz, pop statunitense è quasi naturale, da parte di critici, studiosi, ascoltatori, il paragone o il confronto con altre forme tipicamente americane per ragioni diversissime: dai gusti personali ai tentativi di allargare (o talvolta restringere) gli orizzonti intellettuali. In tal senso risulta emblematico il caso della classica di Caine il quale mescola il sound al citazionismo, la scrittura all’improvisazione, il colto al popolare: sono, infatti, sin dal titolo, eloquenti gli album Wagner e Venezia (1997), Urlicht/Primal Light (1998), Sidewalks Of New York: Tin Pan Alley (1999), Gustav Mahler In Toblach: I Went Out This Morning Over The Countryside (1999), Goldberg Variations (2000), Diabelli Variations (Ludwig Van Beethoven) (2003), Gustav Mahler: Dark Flame (2004), Plays Mozart (2007), Classical Variations (2007), The Othello Syndrome (2008), Rhapsody In Blue (2013), Antonio Vivaldi: The Four Seasons with Forma Antiqva (2012) oltre ulteriori lavori come Think (con Paolo Fresu e Alborada String Quartet, 2009), Twelve Caprices (con Arditti String Quartet, 2010), Two Minuettos (con Fresu, 2018). In riferimento a Caine, si intuisce quasi subito come in Italia siano ancora scarsissime sia l’informazione sui rapporti tra jazz e classica sia la conoscenza in Italia della classica americana, anche perché, al di fuori degli Stati Uniti, della produzione dotta a stelle-e-strisce si conosce ben poco, al di là di un solo nome, George Gershwin, divenuto l’emblema del concepire la musica in senso trasversale. Un breve excursus sulla storia della musica classica americana dovrebbe quindi consentire di approfondire ulteriormente la questione su come le diversità eterogenee sonorità riesca più o meno a relazionarsi fino a concepire o creare qualcosa di nuovo e di originale, come appunto accaduto per Gershwin e per un breve periodo con la cosiddetta Third Stream Music di Gunther Schuller.
Pensando al lavoro di Uri grosso modo corrispondente al XXI secolo vanno subito ricordati i precedenti similari, ovvero compositori novecenteschi, i quali, attratti dalle avanguardie storiche europee, adottano linguaggi sperimentali, trasversali, multimediali, facendosi ammirare per un’indubbia singolarità espressiva: Edgar Varèse, Henry Cowell, Harry Partch, Lukas Foss, Elliott Carter e il fortunato Samuel Barber, il cui Adagio per archi è ormai fisso in ogni repertorio mondiale, benché riesca altresì a catturare un periodo di Americana (termine indicante in varie epoche ciò che è maggiormente intriso di spirito yankee, subendo quindi le oscillazioni dei gusti di pubblico e critica) in pezzi come Knoxville: Summer of 1915. Il XX secolo, in cui si forma culturalmente Caine, debuttando alla fine di esso, vede anche importanti opere edite negli Stati Uniti da importantissimi compositori immigrati, per periodo più o meno lunghi, come i due massimi rappresentanti del Novecento europeo, Igor Stravinskij e Arnold Schoenberg, giunti venuti in America almeno per tre buoni motivi, rispetto a quel che accade nel Vecchio Continente tra le due guerre mondiali: le persecuzioni razziali-politiche, la libertà estetica, le opportunità economiche. Da un lato Schonberg fatica a integrarsi come artista, pur diventando un riferimento didattico assoluto (anche per alcuni jazzisti), dall’altro Stravinskij compone Ebony Concerto, la prima vera partitura per una big band (Woody Herman e poi Benny Goodman) purtroppo mai seguita da altre iniziative analoghe, tranne forse dieci anni dopo la cosiddetta Third Stream Music, che è però un fenomeno di jazzmen che s’avvicinano alla classica (e non viceversa, se non a livello di esecutori).
Benché già attivo prima della Seconda Guerra Mondiale, John Cage poco a poco assurge quasi a divo tra gli anni Cinquanta e Ottanta, quale icona prima di una neoavanguardia oltranzista, poi come ispiratore del postmoderno musicale o antesignano di taluni atteggiamenti hippy; intriso di tante culture dal dada allo zen, dall’alea all’I-Ching resta noto soprattutto pezzo 4’33”, detto anche Silenzio, autentico paradosso della creatività umana, per il quale non ci sono note scritte sulla pagina e la musica è descritta quale costruzione dei suoni dell’ambiente circostante del pubblico, estendendo così la definizione di musica a coesistere con tutto e consistere di ogni sonorità anche se priva di una struttura creata dal compositore. L’ultima grande corrente, in ordine di tempo della musica classica americana a far parlare molto di sé, diventando quasi un fenomeno pop è il cosiddetto minimalismo nei primi Sixties a New York City: compositori quali Philip Glass, Steve Reich, Terry Riley, Lamonte Young, Charlemagne Palestine, John Adams, pour non facendo quasi mai gruppo, usano tutti le stesse tecniche compositive altamente sperimentali (benché in parte derivate da alcune musiche dell’estremo oriente) come drones, phasing, motivi ripetuti, passaggi reiterati, netti contrasti fra misure miste, movimenti semplici ma spesso bruschi tra accordi minori e maggiori con la stessa dominante, contrasti tra tonalità e atonalità, e spesso l’uso di sintetizzatori per mostrare l’interazione fra blocchi sonori: i minimalisti arrivano quindi a cancellare o amplificare le lunghezze d’onda che compongono l’intero suono sia acustico sia sintetizzato. Curiosamente questi compositori quasi mai collaborano con i jazzisti, preferendo di gran lunga il mondo del rock.
I jazzmen prima di Caine – al di là dei rari casi in cui si cimentano nella scrittura dotta come Dave Brubeck ampiamente riconosciuto oppure Erfic Dolphy e Charles Mingus con lavori rimasti nel cassetto – a loro volta prediligono i compositori radicali, stando agli incontri perlopiù sporadici ad esempio fra Freddie Hubbard e Ilhan Mimaroglu, Anthony Braxton e Richard Teitelbaum (e prima ancora Don Ellis e Bernstein), oppure alcuni esponenti dell’AACM e in seguito della Knittting Factory e in genere tanti autori del free e del post-free. Tutto questo può forse spiegare ad esempio gli accostamenti più frequenti tra classica e jazz, seguiti da quelli intreni all’intera musica afroamericana o black music (gospel, spiritual, blues, r’n’b, soul, funky, disco, rap, house, eccetera) per ovvie ragioni di appartenenze etno-storiche; poi seguono le relazioni da un lato tra classica e rock talvolta per ragioni generazionali, talaltro per gli effetti incroci fra i due linguaggi dagli anni Sessanta a oggi; dall’altro fra classica e folclore bianco (country, bluegrass, eccetera) per le obiettive distanze artistico-culturali fra i due mondi (benché esista qualche tentativo di sincretismo a partire già da Aarn Copland); ancor meno tra la classica e il popular song, benché quest’ultimo venga in parte relazionato ai grandi songwriter (spesso di estrazione coltra) nella prima metà del Novecento spaziando fra la liederista post-romantica al jazz standard, dall’operetta al musical, qualcosa insomnmna che spesso oggi non rientra in un generico dominio pop (ormai globalizzato), preferendo i giusti tentativi di farne una musica classica americana,
A dire, in sintesi, forse la parola definitiva è il musicologo Stefano Zenni, il quale nella premessa Postmoderno e rinascimentale per il libro Uri Caine. Storia di un grande pianista jazz (Melville, 2016) di Gianfranco Nissola inizia dicendo: “Se c’è un musicista che incarna le trasformazioni della musica contemporanea, quello è Uri Caine. Figlio di una cultura polimorfa, tra eredità ebraica e tradizione meticcia di Philadelphia, Caine è il perfetto artista d’oggi, capace di fagocitare qualsiasi materiale per trasformarlo in una nuova riflessione intorno al fare musica, le cui presunte barriere di genere si squagliano sotto le sue dita”. Zenni si esprime poi su Uri come se si tratti di “un innegabile spirito onnivoro, da bricoleur solo all’apparenza svagato e bulimico, c’è un artista dalla vasta cultura musicale e dalla rara capacità di cogliere le intime corrispondenze e i fili segreti delle musiche più lontane. A tenere insieme i suoi pensieri c’è in fondo un marcato gusto del racconto: la tempistica dell’intreccio cinematografico, un gusto teatrale del colpo di scena, una sensibilità pittorica e dinamica per le variazioni di colore fanno di Caine un narratore avvincente. Il vero amalgama della trama sonora è il profondo senso della Storia, forgiato dall’esperienza culturale ebraica e filtrato dal gusto tutto jazzistico per il dialogo con la “tradizione”. Geniale infine risulta l’intuizione di Stefano sull’essenza dell’aretrist: “In fondo Uri Caine potrebbe essere al tempo stesso un artista postmoderno – con i suoi abili giochi di specchi – e un intellettuale rinascimentale, colto ed eclettico. Un paradosso, risolto con intelligenza e naturalezza, illuminante il percorso che forse la musica intraprenderà nel nostro nuovo secolo”.
