Intervista ad Alceste Ayroldi: «Il jazz prosegue la sua strada, ma non tutti l’hanno capito»

Alceste Ayroldi
// di Valentina Voto //
Alceste Ayroldi è un critico musicale, docente e saggista. È passato attraverso diverse carriere, non ultime quella musicale e quella giuridica, e figura attualmente tra i collaboratori di Musica Jazz, oltre che tra le voci di Radio 2 della Rete Svizzera Italiana. Svolge inoltre l’attività di insegnamento presso diversi istituti e atenei, non solo italiani (spicca la sua docenza presso l’University of the West of Scotland), e ha collaborato e collabora tutt’ora, in qualità di consulente artistico e responsabile della comunicazione, con diverse realtà culturali, festival e rassegne di jazz (come il Beat Onto Jazz Festival o il Multiculturita Summer Festival).
D In tre parole chi è Alceste Ayroldi?
R Non mi crederà, ma me lo chiedo da sempre. Ho vissuto troppe e diverse vite per definirmi: e penso che sia una gran cosa. Deejay, animatore turistico, regista, speaker radiofonico, musicista, autore, scrittore, avvocato, professore… e chissà cos’altro in futuro! [ride a crepapelle!]
D Quali sono i suoi primi ricordi della musica da bambino?
R Una serie di strumenti musicali che mio padre mi ha regalato. Sono di origini ostunesi, dove ho vissuto fino ai tredici anni, patria anche della fisarmonica. E uno dei primi strumenti arrivati a casa è stata proprio una fisarmonica… che non padroneggiavo, visto che avevo tre anni. Poi, arrivò un trombone che mio padre mi portò da Bologna, città dove studiava per la specializzazione in ginecologia (era medico). Il trombone fece una brutta fine, però, perché la coulisse finì a esercitare i miei muscoletti di cinquenne… Ho avuto una fortuna: mio padre e mia madre acquistavano tanti dischi (45 giri, soprattutto) e cassette (Stereo 8). E nel palazzo di casa a Ostuni insisteva, al pian terreno, uno splendido negozio di dischi: Bagnulo, che frequentavo assiduamente. Poi, all’età di sette anni, ho iniziato a studiare chitarra classica e teoria musicale; in seguito batteria, per poi passare al canto in un gruppo heavy metal: gli Helgard. Poi, la radio e così via.
D Come è arrivato al jazz? Come nasce il suo amore per il jazz?
R In principio fu Pat Metheny: andai ad ascoltarlo nel 1982 (mi sembra) a Bari, quando ancora era pressoché sconosciuto. Mi affascinò, anche se i miei ascolti erano orientati alla New Wave Dark. Dopo, è arrivato Miles Davis, prima con tutu, poi con tutto il resto. Di lì in poi, il jazz è entrato a far parte del mio universo musicale: ma non è il solo genere che ascolto.
D Quali sono i motivi che l’hanno spinta a occuparsi di critica musicale?
R In pratica l’ho sempre fatto, visto che all’età di diciotto anni ho iniziato a lavorare in radio (Radio Studio N2, Bari) con programmi in cui commentavo le nuove uscite rock (siamo agli inizi degli anni Ottanta). Poi, ho iniziato anche a scrivere per alcune riviste, quasi per scherzo. E, via via, una sempre maggiore attenzione a questo settore mi ha portato verso uno studio più accurato, anche nell’ambito della musicologia.
D In quali vesti si trova meglio: critico, docente, saggista, organizzatore, speaker radiofonico o altro?
R Penso che siano tutte attività strettamente connesse tra di loro. Amo la diversificazione, ma con un filo rosso che lega le diverse attività. D’altro canto, sono tutte attività che comportano un’analisi critica. Non le sembra?
D Per lei ha ancora un senso oggi la parola “jazz”?
R Caspiterina, domanda da un miliardo di dollari! La parola jazz ha senso se la si considera guardando al suo passato; se la si considera seguendo la sua reale natalità. È un genere in continua trasformazione ma, soprattutto in Italia, ci si ferma a determinati periodi storici, ritenendo “non jazz” tutto il resto che arriva e che viene ritenuto tale. Purtroppo, la colpa è dei divulgatori (storici, critici), che hanno archiviato il jazz e gli hanno dato dei parametri: che il jazz non ha mai avuto e voluto.
D Il jazz “semplicemente continua ad accadere” o sta andando da qualche parte? Se sì, dove? E ci sono portavoce significativi di queste nuove tendenze?
R Giusto per completare il concetto di cui sopra, il jazz prosegue la sua strada, ma non tutti lo hanno capito… C’è ancora gente che dice: «A me piace il jazz», se ha ascoltato qualcosa che “sembrerebbe” diverso. Poi, ci sono coloro i quali hanno già una consapevolezza di questa evoluzione. In Italia siamo troppo legati ai nomi e non alla musica. Le nuove tendenze? Farsi un giro a Londra è sufficiente, mentre New York non sta esprimendo granché. Nomi? Nala Sinephro, Brandee Younger, Maria Chiara Argirò, Shabaka Hutchings, Sarah Chaksad, Daniel Herskedal, Ancient Infinity Orchestra, Alina Bzehezhinska, La Chica, Jasmine Myra, Work Money Death, Camilla George e molti, molti altri…
D Si può parlare di “jazz italiano”? Esiste per lei qualcosa di definibile come “jazz italiano” o “jazz europeo”?
R Come jazz europeo sì, anzi: jazz scandinavo. È una ricerca che sto conducendo, grazie alle diverse interviste con musicisti provenienti da Norvegia, Finlandia, Svezia, Islanda e Danimarca. È una sonorità che trova il suo ancestrale linguaggio nelle notti lunghe e nelle nevi persistenti di quei paesi. La melodia e un minore approccio muscolare con gli strumenti conferiscono un brand molto forte al jazz scandinavo. Non tutto, si badi bene, perché vi sono molti musicisti che si rifanno alla tradizione statunitense. Per quanto riguarda il jazz italiano, non credo che, al momento, si possa parlare di una tipologia propria, se non per estrazione geografica dei musicisti. Il jazz italiano, ancora oggi, risente troppo delle radici americane per poter avere una propria identità.
D Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da quello di noi europei?
R Come dicevo prima, l’approccio alla melodia. Poi, sospensioni, pause e ritmi corrugati.
D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata e/o sperimentale… ma esiste ancora la politica e/o l’avanguardia, nel jazz statunitense e in quello europeo?
R Io non evoco o chiamo alcuna morte. La buona musica c’è, anche quella “impegnata” (su questo termine ci sarebbe da disquisire a lungo), ma non viene comunicata adeguatamente. I giovani scarseggiano di notizie, perché il jazz in Italia ha troppi soloni: vecchi.
D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?
R Non è detto. Lo ha fatto e lo farà, ne sono certo. Ma il jazz deve seguire il mood del suo tempo; deve seguire lo zeitgeist.
D Il suo ultimo libro, Fatti e misfatti dell’industria musicale italiana (Arcana, 2023), vuole essere una guida per destreggiarsi all’interno di un settore complesso, spesso fosco e intriso di paradossi. Quanto la macchina dell’industria musicale, specialmente nell’era digitale odierna, pesa sul jazz e sui “prodotti musicali” ad esso riferibili, in Italia e all’estero? Il jazz presenta una sua specificità all’interno del settore rispetto ad altri generi? E, a differenza di altri generi, i suoi artefatti riescono a mantenere ancora oggi una loro “aura”?
R È inevitabile che la macchina dell’industria musicale abbia un peso su tutta la musica. Lo ha da sempre, ma con il passar del tempo l’industria musicale ha preso il sopravvento, determinando il successo o l’insuccesso di generi e artisti. L’orientamento verso certe musiche viene deciso a tavolino e molte delle scelte che orientano soprattutto la Generazione Z e quella Alfa sono dettate dal sistema. Il jazz non è avulso da questo sistema, ma vi è inserito in modo differente. Lo scettro è in mano ad alcuni management e ad alcune case discografiche. Il mercato del jazz è differente, anche dal punto di vista della produzione discografica, visto che i musicisti devono largamente contribuire alla produzione dei propri dischi e, al contempo, cedere anche i diritti di edizione. Ma questo malcostume si verifica anche in altri segmenti della musica, soprattutto per i più giovani artisti. Le case discografiche si nascondono dietro la crisi del settore e la crisi delle vendite (che sono in decisa ripresa, invece) invocando i contributi (per modo di dire) dei musicisti.
D Com’è essere un critico musicale oggi, in un panorama profondamente mutato anche in quest’ambito? Perché oggi la critica non è più quella militante o combattiva di una volta? E perché non esistono più le “solenni stroncature”?
R La critica musicale è in estinzione. I musicisti non hanno più bisogno dei critici, visto che esistono i social. Vale più un post di qualche influencer che benedice un disco di una recensione. La democratizzazione del diritto di parola in ogni settore attraverso i social ha portato alla morte anche la critica musicale. Giusto, sbagliato? Non spetta a me deciderlo. Penso che per troppi anni la critica musicale abbia agito in modo non sempre corretto (in Italia), spesso schierandosi quasi politicamente in favore di alcuni artisti ed emarginando altri. Oggi la stroncatura non serve a nulla, perché a fronte di una recensione non positiva, arriva una frotta di amici degli amici pronti a recensire favorevolmente quel disco. Ci sono troppi blog, troppi siti che si occupano di musica che annoverano personaggi non sempre accorsati e competenti quali “critici musicali”.
D Una domanda per il critico e una per il direttore artistico e l’organizzatore: qual è nel suo lavoro l’importanza di uno strumento, da lei largamente utilizzato ma spesso sottovalutato, come l’intervista? E quale dovrebbe essere l’ambizione di una rassegna o di un festival di jazz al giorno d’oggi?
R L’intervista è fondamentale, perché parlano direttamente gli artisti. C’è troppa gente (nella critica musicale) che tende a parlarsi addosso e, quindi, a trascurare i dettagli, le notizie. Una rassegna o un festival deve proporre novità e nuove musiche. Le commistioni, le fusioni vanno benissimo, ma attenzione ai poppettari decaduti che cercano di riciclarsi nel jazz e che vengono scelti per cercare di fare cassetta. Il festival, la rassegna deve avere una propria spina dorsale e non essere fatta dai management.
D Come vive lei il jazz in Italia, anche in rapporto alle sue esperienze sul territorio?
R Direi bene, anche se sono spesso all’estero. Ci sarebbero tanti artisti interessanti, che non trovano spazio in Italia. Pazienza.
D Cosa pensa lei dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?
R Mi lasci sorridere, senza mancarle di rispetto. È una domanda la cui risposta meriterebbe un libro. La cultura, in generale, è in crisi da quando si fa troppo affidamento alle tecnologie, ai social e al web. Posso solo dire una cosa, che è scontata: l’Italia potrebbe vivere e incrementare il proprio Pil con la cultura. Il jazz ha avuto un momento di crescita all’interno delle compagini governative, ma non ha saputo istituzionalizzare certi accordi. E questo potrebbe essere un serio problema in futuro.
