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Un piccolo contenitore di gemme compositive che, pur guardando nello specchietto retrovisore della storia, con gli arrangiamenti e la scrittura creativa di Irina Pavlovic, diventano quadri pittorici da incorniciare e testimonianze «viventi» di un’epoca irripetibile.

// di Francesco Cataldo Verrina //

La storia del jazz ha sempre confinato in un angolo quello che per sommi capi potrebbe essere definito soul-jazz, in cui il rapporto fra chitarra ed organo Hammond diventa quasi mutualistico. Chiamati spesso boogaloo, taluni componimenti attingevano ad una sonorità molto churching che affondava le radici nel gospel, nell’R&B o in quella componente, più risoluta e spavalda della black-music, detta funk. Molti brani legati all’organo Hammond nella passata storia del jazz, specie negli anni Sessanta, esprimevano un senso ludico, di leggerezza e di godibilità immediata, tanto che Amiri Baraka (LeRoi Jones) autore del saggio «Il Popolo del Blues», li definiva alquanto graditi alla classe operaia di colore, quella tipologia di pubblico dell’hard bop che amava ballare, accalcarsi davanti ai juke-box e stare alla larga da implicazioni politiche ed intellettualoidi. Per contro, l’organo di concezione ed estrazione «nera» sedusse tanti gruppi inglesi della decade legata alla swingin’ London, a differenza di una spocchiosa cerchia di critici eurocentrici, i quali consideravano il jazz con chitarra e Hammond un prodotto di seconda categoria, ignorando tanti piccoli capolavori di Grant Green o Wes Montgomery, solo per fare qualche esempio.

«Hammonday», pubblicato dalla A.MA Records e registrato a Belgrado nell’ambito della Serbian Wave, mette subito in luce le capacita del DIL Organ Trio, nel riuscire a dipingere, con sapienza idiomatica e conoscenza storica, le tipiche atmosfere degli anni Sessanta, senza mai smarrire il senso dell’hic et nunc e della contemporaneità. Dusan Petrovic, Irina Pavlovic e Luka Jovicic, le cui iniziali stanno proprio per DIL, propongono un tributo informale al suono dell’organo Hammond che, supportato nella decima traccia dal trombone di Corey Wilcox, l’alternate take di «Light’s Gift», sviluppa un’atmosfera ancora più immaginifica e retrò. Nel complesso, la sapiente miscela sonora fa rivivere le tipiche ambientazioni di Jimmy Smith e Jimmy McGriff, passando per Brian Augur, Wes Montgomery e Idris Muhammed. Bastano le prime note dell’opening-track, «You Move Me», per essere risucchiati in vortice di sensazioni che procedono a ritroso e mettono in vetrina le eccellenti doti tecniche di Dusan Petrovic, a cui fa da contraltare l’abilità di Irina Pavlovic sul classico C3, mentre il kit percussivo di Luka Jovicic ne sostiene il cammino, arricchendo i contrafforti con un groove preciso ed impeccabile che si riverbera anche nella successiva «Spy Walk» calata in una dimensione più introspettiva e lounge.

«Gledaj Pravo (Look Straight) rivela uno spiritello montgomeriano, in cui la chitarra giocherella con un fraseggio quasi pianistico, mentre l’Hammond diventa saltellante ed invita al ballo con il sostegno della batteria. «Light’s Off» è una scorrevole ballata soulful, ma le luci si riaccendono presto con «This Is Funky» dal groove tagliente ed incisivo, mentre l’organo espelle tutto il suo PH acido. «Irinčetovo Čukanje Na Ćukovcu (Fender-Bender)» è un assertivo binario balcanico su cui viaggia ancora il grande ritmo dei treni «neri», in cui l’intesa a tre appare ancora più sinergica e mercuriale, man mano che l’intensità aumenta. «Stari Grad (The Old Town) si propone attraverso una suggestiva narrazione in bianco e nero che tende a legare idealmente Harlem e Belgrado sul filo della nostalgia per i luoghi dell’anima. «Balkan» si arricchisce con il canto divinatorio ed ammaliante di Irina, attraverso una ballata dalla pressante tensione emotiva che nel rilascio, come un fiume carsico dalle profondità dell’anima, risale in superficie. «What If» chiude l’album, prima della succitata alternate-take di «Light’s Off», in una dimensione sospesa, quasi ecclesiastica, dove la chitarra pennella le note con dolcezza e l’organo si ammanta di spiritualità. «Hammonday» del DIL Organ Trio è un piccolo contenitore di gemme compositive che, pur guardando nello specchietto retrovisore della storia, con gli arrangiamenti e la scrittura creativa di Irina Pavlovic, diventano quadri pittorici da incorniciare e testimonianze «viventi» di un’epoca irripetibile. Un piccolo mondo antico riproposto cum grano salis, sulla scorta di un gusto contemporaneo ed una lettura personale, mai scolastica e scevra da ogni mnierismo calligrafo, facendo così riscoprire ai moderni abitatori del Pianeta Terra le virtù taumaturgiche del «vecchio» Hammond e del trio per chitarra, organo e batteria, lanciati all’inseguimento della migliore tradizione afro-americana.

DIL Organ Trio

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