23 aprile 2025: Kamasi Washington Live «Fearless Movement Tour», all’Auditorium Parco della Musica di Roma

Kamasi Washngton
L’impatto del gruppo è quello di una macchina da guerra di autodifesa, la forza e la determinazione musicale come forma di deterrenza da qualsiasi aggressione. Gli echi della modernità mi fanno deviare dalla retta via esclusivamente musicale e le metafore mi escono da sole, sgorgando come lava incandescente, così mi lascio guidare dalle suggestioni.
// di Marcello Marinelli //
Era il lontano 1981, Erik B & Rakim, un duo di New York, quindi East Coast, tra i pionieri dell’allora nascente hip-hop, pubblicò un album di successo Follow The Leader, dopo aver esordito, l’anno prima, con un altrettanto album d’esordio di grande successo Paid And Full, due capolavori dell’hip-hop dei primordi. Confesso che, insieme al Jazz, il mio primo amore, amo anche l’Hip Hop e altre forme di espressioni musicali afroamericane, mi nutro da tutte le fonti. In quello stesso anno nel 1981 nasceva Kamasi Washington a Los Angeles, West Coast. All’epoca nessuno poteva prevedere la faida che molti anni dopo avrebbe ucciso esponenti di punta della musica rap come Tupak Shakur e Notorius B.I.G. Questa premessa doverosa extra jazzistica per esprimere due riflessioni intorno al sassofonista californiano: il primo di ordine musicale, oltre alla componente prettamente jazzistica, sviluppa anche numerose collaborazioni in ambito rap e R’n’B’. È presente nell’album capolavoro di Kendrick Lamar, To Pimp A Butterfly, in particolare nel pezzo For Free, un interludio di jazz e rap, il pezzo è di Terrace Martin. Insieme al sassofonista, al piano Robert Glasper, il pianista con cui ha collaborato in molti brani, quindi il background è jazz, ma impregnato anche di tutto quello che la black music, nella sua interezza, ha da offrire in termini di espressività e di creatività. La seconda considerazione relativa allo spessore di leader che il sassofonista ha espresso nei suoi album e anche nel concerto all’auditorium.
Per tornare all’inizio della premessa hip-hop, Follow The Leader del duo Erik B & Rakim, in un frammento del brano recita:
“Quindi seguimi e stavi pensando di essere stato il primo?
Viaggiamo a magnifiche velocità in tutto l’universo
Cosa potresti dire mentre la terra si allontana sempre più
I pianeti sono piccoli come palline di argilla
Fuori strada nella via lattea: il mondo è lontano dalla vista
Per quanto l’occhio può vedere, nemmeno un satellite
Ora fermati, girati e guarda
Mentre fissi nell’oscurità, la tua conoscenza è presa!
Quindi continua a guardare presto, all’improvviso vedrai una stella
Faresti meglio a seguirlo perché è la r Questa è una lezione se indovini e se presti in prestito
Sbrigati, sbrigati, fatti avanti e continua a seguirci”
Follow The Leader (Seguite il leader)
Questo frammento estrapolato dal pezzo in questione del duo rap, si attanaglia, secondo il mio modestissimo punto di vista alla personalità, all’autorevolezza, al fascino che emana il leader sassofonista. Forse ho calcato un po’ la mano? Ho esagerato con il parallelismo? Le parole del duo rap non sono significative? Ho azzardato con l’accostamento? «No problem man, doesn’t matter» (non importa), questo tipo di azzardo non produce danni, al massimo fa storcere il naso a qualcuno, ma i miei pensieri sono in libera uscita e li lascio fluire anche nell’ipotesi dell’insensatezza. Difendo il mio vaneggiamento e accetto le critiche eventuali di eccesso di fantasia e di analogia, nessuno è perfetto. Prima di andare avanti confesso che non ero un fan sfegatato del sassofonista, avendone apprezzato solo alcuni aspetti del suo universo musicale, ma dopo questo concerto è cambiato il mio giudizio estetico ed emotivo su di lui. Mi ha impressionato da subito, in primis la postura tranquilla con cui è entrato sul palco, ma dal carisma inconfondibile. Con quella tunica sgargiante da capo tribù, con il bastone regale e quei numerosi orpelli, tipo anelli e collane vistose, ha dato un’immagine da condottiero pacifico, da governatore di uno stato neutrale immaginario, da trionfo dell’utopia. “Follow the leader”? Si seguo il leader, mi faccio abbindolare dalla sua presenza scenica, sperando che la musica sia all’altezza da cotanta tranquilla spavalderia. In mancanza di leader politici nazionali e internazionali, orfano di padri spirituali, mi affido a lui e mi abbandono senza pregiudizi, sperando di non rimanere deluso.
Nonostante la cattiva acustica della Sala santa Cecilia, la sala più grande e più bella dell’auditorium, sala perfetta per i concerti acustici, ma non per grandi ensemble amplificati come questo, stabilisco subito empatia visiva con il gruppo. Ad accompagnarlo una band di sette elementi (più il band leader) dove, al sax soprano e flauto, trova spazio anche Rickey Washington: il padre di Kamasi. Si aggiungono anche Tony Austin (batteria), Miles Mosley (contrabbasso e basso), Brandon Coleman (tastiere), Ryan Porter (trombone), DJ Battlecat (turntables, percussioni) e Patrice Quinn (Voce). Questo concerto doveva essere tenuto a ottobre scorso, ma complice un problema fisico, è stato rinviato al 23 di aprile, quindi, un concerto a lungo atteso. Questo tour prende il nome dall’ultimo disco del sassofonista Fearless Movement. Dopo l’empatia visiva, scatta subito la sintonia musicale. I temi dei singoli brani vengono suonati armonizzati dai tre fiati e, il più delle volte, anche dalla cantante, come è tipico dei lavori del sassofonista. Nei dischi in studio si aggiungono anche il coro e gli strumenti ad arco, che fanno risaltare, la potenza di fuoco, la natura grandeur, l’afflato epico della musica e l’aggettivo «Epico» descrive bene il tipo di trama sonora, sempre che sia possibile tradurre in parole la musica. Epic è anche il titolo del suo disco triplo più rappresentativo. L’impatto del gruppo è quello di una macchina da guerra di autodifesa, la forza e la determinazione musicale come forma di deterrenza da qualsiasi aggressione. Gli echi della modernità mi fanno deviare dalla retta via esclusivamente musicale e le metafore mi escono da sole, sgorgando come lava incandescente, così mi lascio guidare dalle suggestioni.E che cos’è la musica, se non una grande suggestione? Lesanu è uno dei brani in cui il furore parossistico del gruppo esonda. Mi domando come ho fatto a non innamorarmi prima di questa musica, la magia dei concerti dal vivo colma ogni lacuna. Asha The First è forse il pezzo dove le varie influenze del sassofonista si intrecciano e rendono evidente la sua formazione musicale, non so se il nome di sua figlia Asha sia in qualche modo legato a un’altra Asha o sia solo un caso, ma a me ricorda Asha Putli la cantante indiana presente su un disco di Ornette Coleman, Civilitazion Day, del 1972: in due brani, What Reason Could I Give e All My Life, c’è la stessa impostazione, la medesima sensazione los tesso intreccio della voce e dei fiati. Sarebbe interessante chiederlo al sassofonista, magari è solo una coincidenza, una delle tante mie elucubrazioni fantasiose.
Oltre a questa reminiscenza nel brano risalta la capacità del bassista che si produce in un bell’assolo, nonostante il pessimo riverbero delle frequenze basse nell’acustica della sala. Poi l’assolo potente percussivo e parossistico del leader, che ricorda, sempre per suggestione e per intensità, altri nomi illustri della storia, John Coltrane, Archie Shepp, Pharoah Sanders filtrati dalla modernità. Poi DJ Battlecat che sostituisce con i dischi l’intervento vocale dei rappers Taj e Ras Austin presenti nella registrazione in studio e si produce in scratches con incredibile maestria e si inserisce con grazia e puntualità nel resto del concerto, quando il DJ «suona» – e qui il termine «suona» – per questo DJ non è un termine abusato. Qualche DJ usa i piatti e le altre diavolerie elettroniche come un vero e proprio musicista, DJ Battlecat è uno di questi. Computer Love, come in altre canzoni del concerto, esplora l’influenza soul e io vado in brodo di giuggiole, perché la componente soul della musica afroamericana mi fa impazzire: in questo brano la sintesi è perfetta. L’atmosfera soulful mi elettrizza e se dovessi rispolverare un vecchio slogan, griderei: «Soul Power». Certo non tutte le contaminazioni, solo per il semplice fatto di essere contaminazioni, sono perfette, come non tutte le espressioni pure sono perfette, ma l’unico giudizio insindacabile rimane quello di chi ascolta, del suo background e della sua sensibilità sonora. L’unico vero Dio, in fatto di musica, è l’ascoltatore che introietta epidermicamente ciò che ascolta, con buona pace del resto del mondo.
In quanto a Dio e alla sacralità, un fatto increscioso. Visto che la sacralità è una componente ormai quasi in disuso della modernità e, per quanto mi riguarda è relegata a pochi aspetti della mia vita, uno di questi è la sacralità di una sala da concerto. Dietro a me due ragazzi iniziano a parlare fittamente, non solo prima o dopo dei singoli brani, ma pure durante i brani senza soluzione di continuità. Ma che cavolo dovranno dire di così importante durante il concerto, sembrano due comari fuori dalla porta intente a fare pettegolezzo in un paesino di un qualsiasi posto di una qualsiasi parte del mondo. Ora non capisco ciò che dicono, magari diranno anche cose interessanti, ma le stanno dicendo nel momento sbagliato, durante il concerto e dentro le mie orecchie. Allora io e il mio amico di avventure sonore siamo costretti a redarguirli con un po’ di acredine, io con una punta di acidità gli faccio: «Ma voi due non sputate mai?». Mi è dispiaciuto pormi in questa maniera, ma erano veramente insopportabili. Ottengo l’effetto di farli tacere, ci avranno odiato, ma dovevano stare zitti. Io sono un’amante delle parole scritte e parlate, ma durante un concerto taccio e parlo il minimo indispensabile, sono un inguaribile caciarone, ma in questi contesti faccio silenzio. Le parole non devono superare in decibel la musica che si sta ascoltando, viene prima la musica e poi le eventuali e doverose parole. I ragazzi giovani, ovviamente non tutti, non sono abituati al silenzio sacrale, è un vizio che riscontro in tanti altri contesti dove la musica è relegata a mero sottofondo. In certi casi, in privato, con i dischi in sottofondo va bene, ma davanti a musicisti in carne e ossa è una vera mancanza di rispetto sia che si tratti di musicisti famosi, sia che si tratti di musicisti sconosciuti. L’unica contestazione, in caso di dissenso su la musica che si ascolta è quello di andarsene e di lasciare stare in santa pace chi vuole ascoltare senza interferenze. Questo per dire che bisogna conoscere la differenza tra sacro e profano, spero di non aver bestemmiato con questa interpretazione personale del ‘sacro’.
Ritornando al concerto, il pezzo soul jazz fila liscio come le lame affilate dei pattini su un manto di ghiaccio appena pulito. L’assolo del tastierista è infuocato e ispirato, quando determinazione e lirismo vanno a braccetto e l’assolo di Kamasi è un portento di energia e introspezione. Le atmosfere del concerto sono cangianti come il tempo variabile, ma la struttura portante che unisce le varie situazioni sonore, costituiscono un’unica narrazione e non le percepisco come a tenuta stagna. Che dire, i pezzi si susseguono senza nessun calo di tensione e il leader generoso concede spazio a tutti i musicisti, un vero principe illuminato che non ha bisogno di strafare per confermare la sua leadership, quando si dice una leadership democratica. Dentro l’universo sonoro di Kamasi Washington echi di Sun Ra da cui prende in parte anche l’iconografia, di George Clinton e del suo G Funk e del rap di South Central, del già citato John Coltrane, in un amalgama perfetta, ma forse sono invasato e ubriacato, ma come me la pensano gli spettatori della Sala Santa Cecila gremita in ogni spazio ai limiti della capienza come diceva Sandro Ciotti a Tutto il calcio minuto per minuto. Percepisco la spiritualità del concerto che va oltre la sacralità dell’evento, si può essere sacrali senza essere spirituali, mi lascio andare per questa volta al misticismo e alla comunione. Con Togheter, un altro pezzo soul, la magia della comunione e dell’unione, almeno per il tempo della canzone, si realizza e Ryan Porter al trombone si produce in un bell’assolo e evoca il fantasma benevolo di Vic Dickenson che si manifesta per assonanza e per associazione libera. La voce sensuale di Patrice Quinn innerva pathos all’esecuzione e DJ Battlecat inserisce delicatamente frasi e riff presi dall’esterno, dalle scatole sonore, l’arte della citazione in musica. È magnifico vedere padre e figlio che suonano nello stesso gruppo ed è un bel vedere oltre che un bel sentire. Papà Rickey Washington è all’altezza della situazione al flauto e al sax soprano, tale padre e tale figlio. Che dire, tutto per il verso giusto. Il gruppo concede un generoso bis e godo ancora per un po’. Gioisco di queste due ore scarse di musica e mene vado ebbro di buone vibrazioni. Ho avuto la sensazione, almeno per il tempo del concerto, di vivere nel miglior mondo possibile e ringrazio Kamasi Washington di avermi dato questa illusione, almeno per il tempo dell’esibizione. Ringrazio anche chi, come voi lettori, siete arrivati fino a qui, non era né scontato, né obbligatorio, vista la lungaggine. Se su Kamasi Washington la pensaste diversamente, «no problem man», è il bello della diversità. Love and Peace, brothers and sisters!
