Come per il nostro 25 Aprile, non tutti accettano il significato della «Freedom Suite» di Sonny Rollins (Riverside, 1958)

«Freedom Suite» fu il primo concept di protesta strumentale in grado di documentare emotivamente ciò che la libertà potesse significare non soltanto per l’autore, in quel momento ed in quel luogo, ma soprattutto che cosa fosse la libertà per un afro-americano, per qualunque cittadino dalla pelle scura nella New York di fine anni ’50.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Prima dell’avvento della new thing, che aprì i musicisti di colore a nuove consapevolezze, le condizioni degli afro-Americani ed il clima sociale e politico influenzarono indirettamente le scelte di Sonny Rollins, già dagli anni ’50. Il Colosso non prendeva parte attiva ai movimenti di protesta, ma la sua musica li rifletteva, ne assorbiva la carica e la tensione. Quel suo modo altalenante ed asimmetrico di porsi, talvolta con un’irruenza fisica e sonora che appariva incontenibile; altre con una straordinaria dolcezza, fatta di lirismo e sofferenza, che sembrava nascere da una situazione di difficoltà di adattamento. I bianchi sapevano che i neri, un giorno o l’altro, si sarebbero ribellati, mentre i musicisti afro-americani facevano da cassa di risonanza al disagio sociale della gente di colore, ma solo formalmente ed attraverso una sorta di sofferenza privata, che li portava a scavare nelle loro origini.
Sonny Rollins cercò le proprie radici nelle musiche, nei canti e nei ritmi di St.Thomas, piccola isola delle Antille, in cui era possibile rintracciare le origini della sua famiglia. Tutto ciò caratterizzerà per lungo tempo il suo stile. Egli diceva: «Tante volte mi chiedono come ho composto «St.Thomas» o «Don’t Stop the Carnival», i temi che suono sempre. Ma non li ho scritti io. Certo, portano il mio nome ma si tratta di arie infantili che mia madre mi canticchiava per addormentarmi e che poi ho sentito nella mia isola. È una musica popolare che ho ripreso senza neppure cercare di scriverla, per farla diventare una composizione: la suono così come è nata e ogni volta per me è come tornare ad appropriarmi di tutte le mie energie». La ricerca del suo passato portò Rollins oltre la piccola isola ed a sentirsi non solo un africano delle Antille ma, finalmente, un «nero» dell’Africa. Negli anni ’50, il sassofonista e molti artisti di colore legati al bop erano nell’immaginario comune dei ribelli, vivevano ad alta velocità, stimolati dall’uso di eccitanti e stupefacenti, improvvisavano anche nella vita, suonavano a lungo ed in maniera velocissima, erano artisticamente dei rivoluzionari, ma socialmente non avevano piena consapevolezza della loro subalternità.
Ad un certo punto gli Afro-americani cominciarono a rendersi conto del loro inestimabile contributo alla storia degli Stati Uniti, durante la quale e per lunghi secoli sembrava avessero avuto solo doveri, divenendo «cittadini platonici» (come scriveva LeRoi Jones), sfruttati solo quando c’era da fare i lavori più umilianti o andare in guerra. Tale consapevolezza favorì le lotte per la conquista della parità dei diritti. La presa di coscienza determinò una certa insofferenza in buona parte della popolazione nera che non riusciva più ad accettare la degradazione del razzismo e tutte le angherie che ne scaturivano. Nonostante fosse uno dei jazzisti più conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo, a Sonny Rollins non era consentito acquistare un appartamento in certe zone di New York a causa del colore della pelle. Questo fu il suo amaro commento: «In America mi facevano tante belle recensioni, articoli di giornale e foto. In quel momento pensai che cosa significasse tutto questo se per loro eri solo un nero». Il suo cammino verso un presa di coscienza della sua condizione di african-american era però iniziato già nel 1954 con la composizione di un pezzo dal titolo enigmatico di cui molti, magari, non conoscono il significato e l’origine, ma che in realtà fu il primo passo di avvicinamento alla Grande Madre Africa. Nel giugno del 1954, Rollins scrisse «Airegin» che uscì lo stesso anno nell’album della Prestige «Miles Davis With Sonny Rollins», poi ripreso da molti altri, tra cui Wes Montgomery, Grant Green e Stan Getz. Il Colosso compose il tema ispirandosi ad una mappa dell’Africa che aveva visto al rovescio su un tavolo, dove era indicato l’allora neonato stato africano indipendente, la Nigeria. «Airegin» è il nome della Nigeria scritto al contrario, formalizzando così anche parte delle sue radici africane. Sia pure in maniera velata, questo fu il suo primo autentico contributo alla resistenza nera. In fondo come egli stesso sosteneva: «II jazz è quel tipo di musica che può assorbire molte cose ed essere ancora jazz».

Rollins fece una scelta audace per il suo tempo, ma gli oppositori non mancarono, ciononostante, come molti della sua comunità, ritenne opportuno dare voce alle proprie opinioni e lo fece attraverso la musica, auspicando di vedere presto intorno a sé una serie di cambiamenti. A modo suo il sassofonista volle comunicare al mondo che la sua gente era finalmente pronta a combattere per l’uguaglianza. Il confronto con le problematiche legate alla giustizia sociale e all’emancipazione dei neri, nel 1958, lo condussero ad esprimere appieno una coscienza razziale con la pubblicazione della «Freedom Suite», importante manifesto sonoro in ambito jazzistico legato alle lotte per i diritti civili. Molti critici analizzarono il significato della «Freedom Suite» basandosi essenzialmente sulla durata del brano. Si disse che la lunghezza fosse finalizzata a rappresentare la lunga sofferenza del popolo nero. In secondo luogo, si pensò che quella particolare tipologia di composizione e di improvvisazione comunicassero un forte desiderio di libertà da parte di Rollins. In altre parole, la libertà musicale altro non era che una metafora della libertà fisica, sociale e morale a cui tutti gli Afro-americani aspiravano. La Riverside Records, inizialmente, ritenne che il pezzo e le sue intenzioni fossero troppo provocatorie e controverse, quindi tentò di cambiarne il senso. A detta dei maggiorenti dell’etichetta, l’America voleva sentire la «musica nera», ma non la storia del popolo nero. Era questa esattamente la mentalità che il movimento per i diritti civili cercava di ribaltare, nonché il senso di disagio e lo spirito di lotta che «Freedom Suite» intendeva esprimere. Scriveva Orrin Keepnews nelle note dell’ufficio stampa: «Sonny Rollins si è spesso permesso di chiedere la perfezione ai suoi musicisti per dargli la possibilità di registrare delle lunghe sessioni che fino ad allora non si era propensi a fare. Ma delle sedute del Febbraio e del Marzo 1958, da cui è nato questo disco, c’è una piccola ma importante copia. Sebbene i brani dell’emozionante «Freedom Suite» fossero stati registrati uno alla volta, non esistono altre versioni: dei quattro brani raccolti in questo disco, solo di uno si discusse la versione da pubblicare. Il quarto pezzo, «Till There I Was You» fu uno di quelli stampati così com’era stato registrato; il terzo, che è completamente diverso, suonato con sax e duetto di basso, venne pubblicato in una ristampa (Milestone M-47007), ma per la prima volta è stato aggiunto alla versione originale del disco»
La prima facciata è coperta da una sola e lunga traccia, la title-track, di ben diciannove minuti e diciassette secondi, unico tema dell’album composto dal Colosso, ma vale quanto tutto il resto. L’album mette in risalto il tipico sound del tenorista nella sua dimensione prediletta, ossia il triunvirato pianoless: Sonny Rollins sassofono tenore, Oscar Pettiford contrabbasso e Max Roach batteria. Il percorso tracciato dal sassofonista si snoda in un variegato dedalo di temi, mentre la linea melodica non viene mai offuscata, nonostante le complesse improvvisazioni che la sovrastano. A fine corsa l’ascoltatore comprende di aver attraversato tanti momenti musicali, apparentemente diversi, ma collegati e tenuti insieme da un’idea musicale onnicomprensiva. Si pensi ad un sistema solare in cui, intorno alla stella centrale, ruotino tanti pianeti e satelliti. In poco meno di venti minuti si possono percepire distintamente vari stati d’animo: gioia, rabbia, frustrazione, voglia di cambiamento e desiderio di lotta e di libertà. Ciononostante, si preferisce, quasi sempre, analizzare l’opera sotto il profilo strumentale, piuttosto che politico ed emotivo. In realtà «Freedom Suite» evidenzia, attraverso la metafora sonora, i molti lati del cammino afro-americano verso l’uguaglianza, dove la melodia costante rappresenterebbe l’instancabilità della gente di colore nonostante l’oppressione, mentre le difficoltà e i continui cambiamenti sociali e politici in atto ruoterebbero intorno al concetto di improvvisazione. Senza un testo cantato o parlato, atto a chiarire le finalità dell’operazione, ci fu il rischio di portare il dibattito all’infinito e in una direzione sbagliata, se non opposta, come fece la casa discografica, soprattutto, come vedremo più avanti, quando negò pubblicamente, che le note di chiarimento sulla copertina fossero state scritte dallo stesso Rollins.
Per la prima volta con «Freedom Suite» Sonny Rollins si misura nella composizione estesa, mentre l’approccio al suo strumento si evolve verso altri moduli espressivi, allontanando la classica struttura bop da convenzioni e prassi conclamate; soprattutto la sua concezione di componimento espanso e dilatato è del tutto personale ed inusitata. Il lungo brano è imperniato su un’architettura molto semplice, dove la figura melodica iniziale di base viene sviluppata attraverso molteplici moduli improvvisativi e differenti dinamiche di fraseggio. L’elemento di diversità fra le varie sezioni può essere individuato nel cambio di tempo, nella variazione della progressione ritmica, o semplicemente nel modulo espositivo. Tali differenze assumono un ruolo secondario e prettamente formale rispetto alla totalità e alla completezza del senso armonico che fornisce alla suite il tratto distintivo. Essa viene trasformata in una costruzione a sé stante, fortemente innovativa e propedeutica al progetto di Rollins, soprattutto impossibile da concepire come opera frazionata e suddivisa in tracce e solchi separati. Il significato va colto proprio nella sua interezza, in un «canto» di rabbia, amore e libertà, ininterrotto e fatto di sofferenza e di gioia al contempo; un messaggio chiaro che sgorga dal piacere di suonare, ma che sprofonda nel disagio sociale e nell’evidente disapprovazione per la condizione dei neri. Oltre diciannove minuti di rutilanti variazioni su un tema, eseguite, con mente lucida e mano ferma, da un autentico improvvisatore sostenuto da due sodali di rango, musicisti preparati ed abili a non cadere mai nella ripetitività, nella banalità e nel virtuosismo di maniera.
Ancora Orrin Keepnews: «Sonny Rollins è ormai, per usare un’espressione tipica di chi introduce un oratore, un uomo che non ha bisogno di alcuna presentazione. Per l’esattezza, è nato a New York nel Settembre del 1930, suona il sax dal 1946, mettendosi per la prima volta in evidenza al fianco di Clifford Brown nel quintetto di Max Roach nel 1955, per poi recentemente guidare diversi gruppi. Si dovrebbe inoltre prestare attenzione, nel caso che qualcuno non lo avesse ascoltato ultimamente, al fatto che Sonny sia la più sensazionale forza del nuovo jazz negli ultimi anni, e che il suo influsso ha letteralmente rivoluzionato il modo di suonare il sax tenore. Max Roach e Oscar Pettiford, ormai da parecchio tempo, non hanno bisogno di presentazioni: diciamo solo che Max è il più famoso batterista jazz e Oscar gode della stessa reputazione fra i bassisti della scorsa decade, aggiungendo solo che qui hanno superato se stessi». Al netto del dettaglio tecnico e strumentale, «Freedom Suite» rappresentò molto di più: il suo lavoro era chiaramente una dichiarazione politica. Il titolo stesso non si riferiva solo alla libertà musicale, ma auspicava un desiderio di liberazione del suo popolo, così come il bop iniziava a muoversi verso il free jazz in uno sforzo combinato. Rollins tracciò la strada ad altri che ne seguirono il cammino. Il batterista Max Roach compose la sua personale «Freedom Suite» intitolata «We Insist! Freedom Now». Le porte si aprirono presto anche alle donne desiderose di prendere una posizione, tanto che Roach decise di registrare l’album insieme alla moglie, la cantante Abbey Lincoln.
Nel 2017 la rivista Jazz Times pubblicò uno speciale sul jazz socialmente rilevante, partendo da alcuni classici come «Strange Fruit» di Billie Holiday, «We Insist! Freedom Now» di Max Roach e «What Did I Do To Be So Black and Blue» di Louis Armstrong, fino a giungere ad opere contemporanee di Kamasi Washington e Christian Atunde Adjuah (Christian Scott), ma per uno strano paradosso l’album epocale di Rollins non fu menzionato. Amareggiato, il Colosso scrisse una lettera di protesta e di chiarimento alla redazione, sostenendo l’inclusione di diritto nel pantheon del jazz socialmente e politicamente rilevante. Ecco un estratto: «L’album «Freedom Suite» fu registrato all’inizio del 1958, in trio con Max Roach e Oscar Pettiford. Il produttore, Orrin Keepnews, subì molte critiche per quel disco. Personalmente scrissi una dichiarazione sui diritti civili, pubblicata sul retro della copertina, ma Keepnews si sentì costretto ad attribuirsi la paternità di quella mia dichiarazione. Il che è ridicolo. Lui aveva preteso che registrassi per la sua etichetta, la Riverside, e quello era il prezzo che avrebbe dovuto pagare, e l’aveva accettato, ma poi non ebbe il coraggio di arrivare fino in fondo». All’epoca Rollins si sentì defraudato delle proprie idee. Lo scaltro Orrin Keepnews, che era bianco, dopo aver visto piombare sulla sua etichetta gli strali avvelenati dei conservatori e dei media, cercò di sdrammatizzare sostenendo che era stata una sua idea e che non c’era alcun messaggio scritto da un afro-americano. La missiva del Colosso a Jazz Times continua così: «Mi presi molte critiche ed ho subito varie contestazioni in quel periodo. Stavo suonando in Virginia e ricordo di essere stato aggredito, per fortuna solo verbalmente, per aver fatto questo disco, e così via. Ci furono molti episodi simili. Non era un grosso problema per me, perché, come ho sempre detto, era abbastanza normale, essendo cresciuto in una famiglia consapevole di talune problematiche. Ricordo che la controversia era abbastanza pesante, ma non ne avvertivo il peso: quando sei giovane pensi di essere indistruttibile. In retrospettiva mi sembra che io abbia rischiato molto, specialmente in quel periodo. Eravamo nel 1958 e la coscienza del movimento per i diritti civili non aveva ancora del tutto preso forma. Quindi non stiamo parlando di qualcosa di cui nessuno fosse a conoscenza, ma di un disco controverso e dibattuto su molti giornali dell’epoca».
Rollins ci tiene a precisare che alla Riverside cambiarono le carte in tavola non rispettando gli accordi iniziali: «In realtà, quando l’album fu ristampato dall’etichetta Jazzland nei primi anni ’60, cambiarono perfino il titolo in «Shadow Waltz». La lunga «Freedom Suite» occupava un’intera facciata dell’album, mentre sull’altra metà c’erano composizioni standard, quindi scelsero come nuova title-track una di queste». È incredibile come nel terzo millennio si tenda ad occultare o a sminuire ancora pagine importanti del jazz legato al movimento dei diritti civili. Il caso di Rollins che reclama un riconoscimento non è l’unico. «Comunque è storia, è la mia storia», aggiunge il sassofonista, «ed è per questo che mi è dispiaciuto molto non vedere il mio album in quella lista. Nell’era del jazz moderno, quello fu il primo disco che rifletteva il desiderio di cambiamento del popolo nero. È stato il primo che io conosca. Era una cosa importante, un lavoro innovativo, non voglio essere cancellato dalla storia». Le canzoni a sfondo sociale come «Mississippi Goddam» di Nina Simone erano comuni all’epoca, ma «Freedom Suite» fu il primo concept di protesta strumentale in grado di documentare emotivamente ciò che la libertà potesse significare non soltanto per l’autore, in quel momento ed in quel luogo, ma soprattutto che cosa fosse la libertà per un afro-americano, per qualunque cittadino dalla pelle scura nella New York di fine anni ’50.
