«Standards – Lost And Found», l’inedito di Gato Barbieri, personaggio iconico del jazz mondiale: perduto, ritrovato, ma mai domo (Red Records, 2025)

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..pur guardando nello specchietto retrovisore, ascoltando «Standards Lost And Found 2», riusciamo a cogliere la bellezza di interpretazioni difficilmente geo-localizzabili, che sembrerebbero non aver subito per nulla la forza corrosiva ed inesorabile del tempo.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Quando nell’autunno dello scorso anno abbiamo commentato il primo Gato Barbieri «Lost And Found -Standards 1», avevamo cercato di non cadere nella trappola del «tuttologismo», cedendo alla visione che del sassofonista argentino continuano ad avere taluni osservatori italiani, i quali ruzzolano e razzolano sempre in una sorta di schema, secondo cui Gato sarebbe una sorta di musicista per tutte le stagioni, la cui carriera si sia consumata fra jazz d’avanguardia, colonne sonore, divagazioni ethno-jazz terzomondiste e tentazioni smooth a presa rapida. Gato Barbieri è stato tutto ciò, e forse anche di più, ma per comprendere l’essenza di questo nuovo capitolo di «Standards Lost And Found», scovati dalla Red Records di Marco Pennisi, bisogna estraniarsi soprattutto da contesto italico e da qualsiasi discussione peripatetica legata ad una probabile relazione tra il musicista argentino ed il nostro paese, che non gli rende giustizia, specie quando s’indugia nel dire che vi sia un’importanza o un’influenza di Gato sul jazz italiano di quegli anni o, un’ipotetica rilevanza dei sidemen che lo accompagnarono in questa avventura.

Quando, nella primavera del 1968, il sassofonista registro queste takes a Roma, era già un’autorità conclamata nel mondo del jazz d’avanguardia di matrice afro-americana e nessuno era in grado nel nostro paese, ancora legato al jazz tradizionale di tipo ludico, a parte qualche rara, ma timida eccezione, di poter reggere il confronto con la sua tecnica, il suo modus operandi e la sua capacità di interpretare i nuovi dettami del jazz provenienti dall’esperienza di Don Cherry, Ornette Coleman e John Coltrane. Il fatto che l’argentino avesse deciso di eseguire degli standards di passaggio nel nostro paese fu la dimostrazione che, se si fosse proposto con un altro repertorio, nessuno avrebbe potuto e saputo reggergli formalmente il gioco. Tutto ciò non inficia minimamente la qualità del doppio album pubblicato dalla Red Records, ma ci ricorda anche che il materiale contenuto fra i solchi avrebbe potuto essere fissato su nastro, dovunque, in Europa e che Gato avrebbe potuto suonare perfino da solo. In realtà, sembra che lo faccia, poiché la distanza tra lui ed il resto del mondo è talmente tanta da alzare un barriera insormontabile. I tre sodali italiani s’impegnarono oltre le loro possibilità, ma Barbieri non eseguì degli standards in maniera tributaristica o calligrafa, piuttosto li trasformò in oggetti di culto per amanti del jazz con il baricentro spinto in avanti: otto lunghi brani con una durata che oscilla fra i sei e i nove minuti, che divennero una cosa altra rispetto agli originali, oltrepassando l’idea trionfalistica di un mainstream idiomatico e parrocchiale.

Tutto ciò che Gato avrebbe fatto dopo questo pit-stop sulla penisola italica lascia il tempo che trova, soprattutto non ha alcuna congrua relazione con quanto accadde in quella notte romana, né il suo transitare per certi luoghi servì a sdoganare o rafforzare l’incedere incerto e flemmatico di un certo ambiente jazzistico italiano, in netto ritardo sulla tabella di marcia. Basta andare a ritroso e leggere cosa scrivevano talune riviste nostrane – provincialotte, tronfie e borghesi – in riferimento alla musica sperimentale e d’avanguardia, non del tutto priva di una componente politicizzata ed antagonista. Gato barbieri sta a Che Guevara come quasi tutto il free jazz nero e la new thing stanno a Malcom-X. Senza ulteriori perifrasi: «Standards Lost And Found 2» è un disco free-form in piena regola. E questo è il suo autentico valore aggiunto. Una valenza storica, di cui va dato ampio merito alla Red Records che, sin dai tempi eroici di Sergio Veschi ed Alberto Alberti, non ha mai disdegnato di andare sovente controcorrente o di saper cogliere le avvisaglie di taluni cambiamenti. Oggi tutto ciò che noi raccontiamo è stato consegnato agli annali, i fenomeni sono storicizzati, resta poco spazio per la dissertazione, se non per il piacere di fare dietrologia. Ciononostante, pur guardando nello specchietto retrovisore, ascoltando «Standards Lost And Found 2», riusciamo a cogliere la bellezza di interpretazioni difficilmente geo-localizzabili, che sembrerebbero non aver subito per nulla la forza corrosiva ed inesorabile del tempo.

A suffragio di quanto esposto in precedenza, l’album si apre con due lunghe tracce che riprendono le composizioni di due rivoluzionari del jazz moderno: Ornette Coleman e Charlie Parker, l’inventore del free jazz e il padre putativo del bebop. La domanda sorge spontanea: se di standards parliamo, perché Barbieri non scelse di suonare Gershwin o Porter (con tutto il rispetto)? La rilettura che l’argentino fa dei due predecessori è assolutamente del tutto personale, se non altro perché risalta immediatamente la differenza d’impostazione fra il sax tenore e i due contralti, per quanto Gato riesca a passare indenne e ad alta velocità fra strettoie e cunicoli armonici, pur avendo fra le mai uno strumento più ingombrante. «Jayne» di Ornette, contenuta nell’album «Something Else!!!!» del 1958, viene riportata in auge con una regola d’ingaggio assai differente. Nella prima parte con un accentuato senso melodico, quasi un inganno che si trasforma presto in una perifrasi contorta e trasversale, in cui il sax squittisce fino allo spasimo, facendo ciò che dieci anni prima lo stesso Ornette non aveva osato fare, mentre Franco d’Andrea al piano e Giovanni Tommaso al contrabbasso si limitano a creare qualche zona di compressione fra un ruggito e l’altro del tenore: il loro assoli solo semplicemente diluenti, ma distanti. Nel finale Pignatelli rulla, ma solo perché Gato decide di ondivagare come un giro di giostra, reinventandosi di sana pianta la melodia. «Anthropology» cela una falsa partenza molto bebop e parkerianamente ad alta velocità, ma poi le strade si dividono e dalla campana del sax di Barbieri fuoriescono fuochi, lava e lapilli. Di sicuro, Bird avrebbe apprezzato, anche il tentativo alquanto powelliano di procedere da parte di Franco D’andrea. Nel finale, Barbieri crea un’atmosfera gioviale da jam session, consentendo anche ai sodali di giocare a briglie sciolte. La B-side chiama subito al proscenio Ahmad Jamal, musicista non facilmente perimetrabile ed autore di «New Rhumba», in cui l’argentino prorompe come un invasato dai demoni creativi, procedendo sul crinale più accidentato del tema. Dopo gli assoli concessi a D’andrea e Tommaso per contratto, le forze della natura si s’impossessano nuovamente del sax tenore. Il tributo a Monk con «Round About Midnight» ha il senso di conferire allo standard degli standards di tutti tempi un sapore ancora più struggente e penetrante che solo l’abrasività del suono del sax di Gato avrebbe potuto dare, senza incorrere in paragoni con Coltrane e Miles, per esempio.

Il terzo lato del doppio vinile si pregia di un brano firmato dallo stesso Barbieri, «Gato Blues», declinato in una dimensione molto Ornettiana, ma con una forza d’impatto superiore, soprattutto per via di un ghirigoro melodico che si avvita su se stesso in maniera irrefrenabile, a cui un tradizionale assolo in chiave minore da parte di D’Andrea fa da spartiacque. In «Epistrophy» di Monk, il sassofonista sfoggia tutta sua capacità di frantumare il tema e di ricostruirlo alla sua maniera, riproducendo il fraseggio disarticolato ed abrasivo del Monaco. Sulla quarta facciata, l’Argentino preferisce giocare in casa, proponendo una sua composizione, «In Search Of The Mystery» che, dopo una perifrasi iniziale apparentemente descrittiva, si libera dai freni inibitori, pur mantenendo un aplomb vagamente blues che si consolida meglio nella fase finale. L’ultima traccia viene presa in prestito dal libro dei sogni di Ornette Coleman. «When Will The Blues Leave? rispetta pienamente il senso del titolo, ossia, «Quando se ne andrà il blues?, che sembra davvero disperdersi proprio nell’ostinato iniziale eseguito al di fuori delle normative vigenti. Lo schema si ripete e, dopo gli assoli di D’andrea e Tommaso, al Principe Pignatelli basta un assolo tutta cassa e rullanti per passare alla storia, prima che Gato inneschi nuovamente la miccia per al serie: al mio via scatenate l’inferno. «Standards – Lost And Found» di Gato Barbieri è un altro tassello nel prestigioso mosaico jazz della Red Records che procede a passi da gigante, riportando in auge le figure più iconiche del jazz del dopo guerra. Non lasciatevelo sfuggire, il doppio vinile è uscito, come al solito, in tiratura limitata e numerata.

Gato Barbieri

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