Intervista a Guido Michelone: sognatore, generoso, quasi ottimista

Guido Michelone
// di Valentina Voto //
D In tre parole chi è Guido Michelone?
R Un sognatore, un generoso, oggi un quasi ottimista (forse un po’ ingenuo).
D Quali sono i suoi primi ricordi della musica da bambino?
R Il primo in assoluto mia nonna che mi insegnava a cantare Questa piccolissima serenata di Teddy Reno, quando però imperversava già Adriano Celentano…
D Come è arrivato al jazz? Come nasce il suo amore per il jazz?
R Grazie ai dischi di mio padre e anche ai jazzmen visti in televisione alla TV dei ragazzi o in prima serata. Poi anche approfondendo l’argomento, già al liceo, basandomi in primis sul cofanetto curato da Franco Fayenz e scoprendo in fretta, più per conto mio che con l’aiuto degli insegnanti, che tutto è interconnesso, come accade da sempre nella storia del’umanità, ovvero che non si può ad esempio amare certo jazz senza conoscere l’action paiting o il cinema underground o la letteratura beatnick.
D Quali sono i motivi che l’hanno spinta a occuparsi di critica musicale?
R La passione per la scrittura, la voglia magari di emulare quanto scrivevano i critici poco più anziani di me su riviste come «Muzak» o «Gong», che per timidezza all’epoca non ho mai contattato. Forse sarei entrato a far parte dei collaboratori. In passato (e in parte anche oggi) ho fatto il critico per quasi ogni forma di cultura, soprattutto moderna e contemporanea (anche la cucina e lo sport). Mai di politica. Qualcosa di storia locale, perché amo la mia città molto più di tanti illustri amministratori. Per la critica musicale si tratta per me di un approccio differente dagli altri campi, perché non sono musicista, non so suonare, leggo a fatica uno spartito, non ho l’orecchio assoluto. E quindi potrebbe valere il detto ‘un critico musicale è in fondo un musicista mancato’ perché è davvero l’unica arte che non ho mai praticato, salvo alcuni tributi a John Cage.
D In quali vesti si trova meglio: critico, musicologo, docente, saggista o altro?
R Direi divulgatore che media forse le quattro categorie da lei citate anche se non mi sento e non mi voglio far chiamare musicologo. Scientificamente parlando, sono semmai uno storico della musica (almeno di una parte di essa) oppure un socio-semiologo prestato all’analisi del jazz, del rock, del pop. Posso vantarmi però di avere di discreto curriculum classico: ho preso lezioni di chitarra dal M° Angelo Gilardino, ho sostenuto in Università esami con luminari quali Massimo Mila, Giorgio Pestelli, Don Pietro Damilano e in parallelo frequentato in Conservatorio il corso di Musica elettronica del M° Enore Zaffiri (senza però iscrivermi) e alla fine discusso la mia tesi di laurea in Semiologia della musica, con Paolo Gallarati quale controrelatore. Nonostante ciò aborro gli spartiti con le notazioni occidentali nelle mani di un jazzista salvo si tratti di una big band.
D In quanto docente, trova che oggi vi siano ancora pregiudizi nelle Università e nei Conservatori italiani verso ciò che fino a qualche decennio fa era ritenuta ‘musica dei negri’?
R In tantissimi atenei, soprattutto per i corsi di laurea, non ci sono quasi mai discipline inerenti al jazz che accademicamente ha il nome di Civiltà Musicale Afroamericana: e se esistono, si trovano solo in alcuni DAMS. Nei Conservatori c’è il corso di Laurea in Jazz al cui interno trovano posto materie ‘umanistiche’ come Storia della Popular Music e soprattutto Storia della musica jazz e delle musiche improvvisate audio tattili (questa la lunga ma giusta dicitura ufficiale), materie che, secondo un regolamento assurdo, vengono affidate spesso ai musicisti e non agli storici (ma questo è un altro discorso). Certo, la ‘musica dei negri’ fa ancora paura, viene snobbata da molti settori classici o tradizionalisti, che la ritengono un corpo estraneo alla cultura italiana ed europea, come se il mondo oggi viaggiasse, nella comunicazione (e non solo), alle stesse velocità dell’Ottocento!
R In quanto saggista invece, ed esperto non solo di jazz ma anche di popular music, quali sono i libri di cui va più orgoglioso?
R Cito sempre Il jazz-film perché è il primo saggio e al momento ancora l’unico testo sull’argomento: un libro, che però non viene mai abbastanza citato, come del resto accade con altri miei. In Italia sembra che un libro per avere credibilità debba essere pubblicato solo da un grosso editore che sicuramente dà moltissima visibilità. Se fosse uscito da Mondadori e non Arcana a quest’ora Il jazz-film sarebbe nella top ten dei libri sul jazz! Ho anche scritto il maggior numero di libri sui Beatles, almeno in Italia, ma quando c’è da parlare di loro in radio o alla TV chiamano sempre qualcun altro che sul tema è uscito con un solo testo!
D Il libro cartaceo, come medium, ha ancora una sua ragion d’essere nell’era digitale?
R Stando alle statistiche l’E-book non è decollato e in Italia si leggono ancora più libri cartacei. Io steso non so cosa sia un libro elettronico: preferiscono avere uno zaino o una valigia pesante ma carica, oltre i vestiti, dei miei cinque-sei libri quando vado quindici giorni in vacanza. La prima cosa che faccio quando entro nella camera d’albergo è sistemare questi libri sul mio comodino a mo’ di piccola biblioteca. Solo dopo, sistemo calzini e mutande nei cassetti. Il problema semmai oggi è controbattere l’informazione spicciola che in una frazione di secondo si trova in rete contro la lettura profonda di un bel libro, che può anzi deve anche regalare da un lato piaceri e passioni quando si tratti di poesia o di narrativa, dall’altro nozioni vere (non le approssimazioni di Wikipedia) se leggo saggistica.
D Molti dei suoi libri si rivolgono al semplice appassionato, pur risultando di interesse anche per l’addetto ai lavori. Quanto è importante la divulgazione, soprattutto in ambito jazzistico? E cosa vuol dire saper divulgare il jazz?
R La divulgazione è importante in ogni ambito, perché i tempi sono vertiginosamente cambiati e le nozioni base forse non esistono più. Negli anni Sessanta l’uomo della strada sapeva chi era Louis Armstrong, nel decennio successivo i giovani adoravano Miles Davis, ma oggi se nomino i dischi Köln Concert o Kind of Blue, ritenuti di culto da tutti, feticci del Novecento, già le persone dai 40 anni in giù si trovano in difficoltà a riconoscerli, perché appannaggio di una élite ristretta e non più di una cultura di massa. E questo purtroppo sta accadendo pure con il rock: quale trentenne ascolta i Beatles sua sponte? Tutto questo accade perché viene a mancare una divulgazione costante per demerito delle tre grandi ‘agenzie’ formative laiche: la scuola, la famiglia, i mass media (tv, radio, giornali che però i giovani non seguono più preferendo le fake news dei social e del web). Saper divulgare vuol dire conoscere le competenze di chi sta davanti in astratto e in concreto: in astratto ad esempio quando scrivo un libro, mi pongo sempre la domanda: punto in alto? O cerco piuttosto di coinvolgere tutti o quasi? Quando faccio lezione chiedo sempre agli studenti quali musicisti conoscono e quali generi apprezzano, onde partire con esempi vicini ai loro gusti senza sbattergli in faccia il primo disco di free jazz che mi viene in mente perché a me piace tantissimo. La lista dei 100 migliori album prospettata a chi ha sempre e solo ascoltato musica classica o heavy metal non ha senso, perché gli uni andrebbero ad esempio avvicinati con Dave Brubeck o il Modern Jazz Quartet, gli altri con Jaco Pastorius o John Zorn.
D Per lei ha ancora un senso oggi la parola ‘jazz’?
R Ha un senso storico anche se l’idea di cosa sia il jazz muta continuamente non solo in ordine cronologico, ma anche all’interno di una stessa epoca, quando sussistono varie tipologie o declinazioni o stili: il jazz in tal senso può vantare fin dagli anni Venti del secolo sorso diverse correnti e oggi ve ne sono addirittura tantissime, anche parallele, ma nessuno deve permettersi di dire: ‘Questo è jazz quello non è jazz!’. Su quale base scientifica nel senso di cultura e musicologia? Purtroppo gli studiosi nel mondo non sono ancor arrivati a stabilire anche un solo criterio oggettivo per identificare il jazz nel tempo e nello spazio. Spesso si tira in causa l’improvvisazione quale segno fondante per tutto il jazz: ma suoni improvvisati in molte musiche reputate jazz non esistono o sono ridotti al minimo. La questione resta aperta: e di ciò qualcuno ne approfitta, allestendo i programmi dei jazz festival sino a inserire tutti (artisti soul, rock e pop in primis) giusto per fare cassa, senza mai spiegare un’eventuale accettabile idea di inclusività per una musica, il jazz, che da sempre è più inclusiva che esclusiva.
D Si può parlare di jazz italiano? Esiste per lei qualcosa di definibile come jazz italiano e jazz europeo?
R Esiste come identità geografica a livello nazionale, dunque ci sono un jazz italiano, un jazz francese, un jazz britannico, un jazz russo, eccetera. Sul jazz europeo avrei grossi dubbi, perché ancora non esiste una forte identità europea. Il jazz in Europa nell’ultimo mezzo secolo evolve secondo regole appartenenti a contesti nazionali ancora abbastanza rigidi se pensiamo a gestioni e organizzazioni di scuole, conservatori, università, festival, club, eccetera, anche se da oltre cent’anni i jazzmen di vari stati europei si trovano a suonare fra loro e sempre più spesso anche con gli americani. Ma se vogliamo che il jazz europeo non sia solo una ripetizione anche gradevole di formule ereditate dal bebop e dall’hard bop, ecco che le culture musicali autoctone in fatto di musica classica, leggera, folk offrono soluzioni diverse talvolta da regione a regione. Però già negli anni Settanta i jazzmen europei più progressisti all’Ovest e all’Est hanno trovato un denominatore comune ad esempio nello spingere l’improvvisazione atonale fino ai limiti estremi sacrificando la componente ritmica a favore di una ricerca sui timbri delig strumenti che per alcuni versi li avvicina ai compositori post-weberniani.
D Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da quello di noi europei?
R A livello di pubblico un maggior rispetto di noi europei verso i jazzmen ritenuti veri artisti e non semplici intrattenitori; a livello di studioso la maggior capacità da parte nostra di interagire con metodologie filosofiche talvolta sul filo del crinale dell’astrazione, ma sempre comunque ricche di proposte e di significati, contro un eccesso di musicologia e di storicismo da parte dei critici bianchi statunitensi oppure di etnologia e antropologismo per quanto riguarda il contributo black; e questo mi sembra evidente ad esempio in due controstorie quali Free Jazz/Black Power dei francesi Carles e Comolli e Blues People dell’afroamericano Leroi Jones.
D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata e/o sperimentale… ma esiste ancora la politica e/o l’avanguardia nel jazz statunitense e in quello europeo?
R C’è ovunque una ricerca oltranzista serissima, ma viene emarginata dallo show business che preferisce inculcare nella gente vecchie idee o luoghi comuni del jazz che ti fa battere a ritmo il piedino mentre sei comodo su una poltrona davanti al caminetto e dallo stereo risuonano le note di un disco di Gerry Mulligan. Il jazz si sta accademizzando in senso deteriore ormai da due-tre decenni o forse più, perché prevale la mentalità che per preservarne la memoria o la continuità occorra farne una sorta di musica classica, salvo poi far suonare i diplomati di conservatorio in birreria per quattro soldi o gratis o in Italia dar poco spazio ai giovani lasciando che il 90% dei concerti sia in mano a una dozzina di jazzmen ormai ultrasessantenni (tranne uno) di cui non faccio i nomi.
D Come è essere un critico musicale oggi? Perché oggi la critica non è più quella militante o combattiva di una volta? E perché non esistono più le solenni stroncature?
R Se non hai la fortuna di lavorare per un grosso quotidiano o un famoso settimanale – ma saranno in cinque o sei a farlo? – lavori tanto e non guadagni niente. Ma poi la critica è quasi scomparsa dai media che contano e ad esempio il recensore di concerti, oltre il pass, non riesce più a elemosinare una mezza pensione in un hotel a due stelle, quando ai tempi di Polillo, Fayenz, Roncaglia, Barazzetta, Candini, i giornalisti erano accolti con tutti gli onori (in certi festival stranieri persino con una diaria giornaliera da parte degli organizzatori). Per quanto riguarda le stroncature, almeno in Italia, succede che se parli male di un disco o di un recital di un jazzista nostrano, quest’ultimo ti toglie il saluto, la sua casa editrice non ti manda più i dischi, gli organizzatori di eventi ti iscrivono sul libro nero. È successo anche a me che dopo aver pubblicato l’intervista di un collega assai polemico sull’importanza di alcuni nomi noti, che un jazzista mio abbia tolto il saluto.
D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?
R Lo deve fare attraverso i testi cantati, letti, declamati in un brano, se ne ha voglia. Non è obbligatorio! Anche perché la musica strumentale è asemantica e non ha alcun senso tentare di tradurre in suoni parole o immagini. Apprezzo quando nei titoli dei brani compaiono allusioni a fatti di politica o di costume, evocati da suoni attinenti alle realtà territoriali. Ma è un discorso complesso: di recente mi è capitato di ascoltare un disco, il cui autore si vantava di averlo strutturato come un concept-album dedicato all’Odissea; musicalmente si trattava di hard bop in stile americano; se qualcuno mi avesse fatto sentire l’album senza mostrarmi la copertina o leggermi i titoli dei pezzi, non avrei certo immaginato né Omero né Ulisse; ma anche conoscendo tutti i dati del disco, la musica non mi ha trasmesso proprio niente di omerico. Non è colpa del musicista, è un limite intrinseco alla musica stessa, di cui dovremmo essere tutti più consapevoli.
D Come vive lei il jazz in Italia, anche in rapporto alle sue esperienze sul territorio?
R Lo vivo abbastanza male. Sono uscito da un’esperienza non simpatica, per usare un eufemismo, con il conservatorio, vittima di regolamenti nazionali discutibili (quelli che penalizzano gli storici e favoriscono i musicisti), e al momento non sono ancora potuto entrare nel giro degli autori che con un libro si fanno dalle 50 alle 100 presentazioni in librerie, festival, rassegne, spesso con buone remunerazioni. E soprattutto dalla mia città non ho mai ricevuto riconoscimenti o attestati di stima, salvo un paio di associazioni, che mi garantiscono la possibilità di organizzare qualcosa. Per parafrasare una frase di François Truffaut – che, a proposito del cinema, diceva che in Francia tutti fanno due mestieri, il proprio mestiere e il critici cinematografico – parimenti dico che in Italia, nel jazz tutti fanno due, se non tre mestieri: ovviamente il proprio e poi quelli di critico jazz e di direttore artistico di festival jazz.
D Cosa pensa lei dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?
R Il degrado della cultura italiana inizia con le TV di Silvio Berlusconi e con la discesa in politica di quest’ultimo a garantire la totale continuità con la propria idea di rincoglionimento consumistico dell’italiano piccolo, medio, grande. Se Pier Paolo Pasolini sosteneva che la DC in trent’anni di governo aveva antropologicamente distrutto il nostro popolo (cosa che, a dir suo, non era riuscita nemmeno al fascismo), il berlusconismo ha fatto peggio. In tutto questo il jazz occupa una minima parte e personalmente non ho ancora studiato i rapporti diretti fra il jazz in Italia e la politica del centrodestra (divenuta di recente di destra-destra). Ma che il jazz abbia perso quella carica contestataria che aveva anche in Italia, soprattutto negli anni Settanta, è sotto gli occhi di tutti.
