Intervista a Donatella Luttazzi, in occasione del suo nuovo spettacolo con Enrico Cresci ed il Gruppo Vocale NOJ

Donatella Luttazzi
// di Francesco Cataldo Verrina //
Abbiamo incontrato Donatella Luttazzi per parlare di una delle sue tante iniziative. Donatella figlia di tanto padre, è un personaggio vulcanico ed inarrestabile, sempre alla ricerca di una dimensione non prevedibile nell’ambito del jazz, ma se vogliamo della musica di qualità a 360°.
D Se ti dovessi descrivere con pochi aggettivi: chi è oggi, Donatella Luttazzi?
R. Non sapevo che questa intervista fosse una seduta di autoanalisi. Comunque ti ringrazio di questa domanda che mi costringe a guardarmi allo specchio. In pochi aggettivi non in ordine di importanza: appassionata, temeraria, ingenua, autocritica all’esasperazione, innamorata della musica, intransigente.
D Anni fa hai scritto un libro che oltre ad essere una testimonianza d’affetto, raccontava di Lelio Luttazzi, una delle figure chiave del jazz italiano del dopoguerra, nonché uomo di televisione e di spettacolo. Titolo emblematico: «L’unico papà che ho. Cosa si prova ad avere un padre famoso, appassionato di jazz e assente». La domanda sorge spontanea: quanto si è travasato in te geneticamente della personalità di Lelio?
R. Il «geneticamente» mi piace, perché almeno restringe il campo. Ti rispondo con parole sue: un giorno non ricordo a chi gli chiedeva se io gli assomigliassi, probabilmente un musicista americano, lui rispose: «We are equal», improvvisando teneramente un inglese che non aveva mai studiato ma che aveva frequentato a orecchio. Non solo: una delle pochissime critiche positive nei miei confronti è stata: hai molto swing. «Sei molto brava» non me l’avrebbe mai detto. D’altra parte era critico nei miei confronti come lo era nei confronti di se stesso. Potrei parlarti per ore anche dei difetti che geneticamente mi ha trasmesso, ma te ne dico solo uno: «low profile». È anche per questo che non sono famosa. Difetto che potrebbe anche essere visto come qualità.
D Potrebbe essere retorica come domanda: ma quanto ti è pesato ripercorrere le sue orme – quelle di tuo padre – e soprattutto quanto te l’hanno fatto pesare nel mondo dello spettacolo. In genere, i figli d’arte vengono guardati con sospetto?
R. Che i figli d’arte siano guardati con sospetto non c’è dubbio. In realtà sono una traduttrice di formazione, amo frequentare i dizionari, la carta, le parole, le lingue. Ma la musica mi accompagna da sempre, da quando da bambina papà mi portava a Fregene e intanto cantavamo dei riff armonizzati. Ti ho detto questo perché non mi sono mai sentita una vera professionista della musica. E a chi mi chiedeva se lo sono non sapevo cosa rispondere perché il problema di come definirmi non è un mio problema, ma di chi vuole definirmi. In realtà ho cominciato a esibirmi al folkstudio accompagnandomi con la chitarra già a 15 anni, e papà veniva ad ascoltarmi. Poi ho cominciato a scrivere canzoni, poi a studiare quello che prima suonavo «a orecchio». Quindi armonia, arrangiamento. Il mio scopo è stato sopratutto studiare, più che «diventare famosa». E lo è tuttora. Il mio piacere è trovare l’accordo giusto e capire il suo perché, e sopratutto costruire arrangiamenti vocali e verificare che funzionano, anche studiando Gene Puerling, un dio dell’arrangiamento vocale, che faceva parte degli Hi Lo’s. E dato il mio amore per la scrittura e per le lingue, la caratteristica dei miei arrangiamenti è inventarmi degli «special» a pezzi famosi, ai quali poi aggiungo delle parole. Un po’ quello che si fa col vocalese, ma in modo diverso. L’ho fatto anche con i pezzi di Lelio che per anni ho studiato commuovendomi alle lacrime e poi arrangiandoli e facendoli cantare al mio gruppo delle «Zebre a Pois». Quindi penso che il mio tributo al grande padre l’ho dato. Ma per rispondere alla tua domanda, non mi sono mai veramente confrontata con il mondo dello spettacolo. Anche se avrei avuto mille occasioni per farlo. Comunque dico sempre come battuta che anche se fossi la più grande musicista al mondo sarei sempre prima di tutto la figlia di Lelio Luttazzi… (Smiley).
D Personalmente penso che tu abbia preso molto dell’ironia di Lelio e di quel suo essere un po’ sopra le righe, non a caso per il tuo nuovo progetto, con Enrico Cresci che ti accompagna alla chitarra ed il Gruppo Vocale NOJ si precisa chiaramente: un concerto di canzoni ironiche che Donatella Luttazzi esegue accompagnandosi con la chitarra…ce ne vuoi parlare dettagliatamente?
R. Vero, geneticamente mio padre mi ha trasmesso l’ironia e non finirò mai di ringraziarlo perché l’ironia mi ha permesso di superare anche momenti molto difficili. L’epitaffio di Lelio potrebbe essere la sua frase «Voglio morire abbronzato», il mio potrebbe essere «Voglio morire ridendo». E non è detto che non succederà. Ma vengo al dunque. Le canzoni che ho scritto sono quasi tutte ironiche. Orango Tango forse è il mio cavallo di battaglia: mi fidanzo con un Orango affettuoso, che poi finisce allo zoo comunale, poi sposo un uomo normale, ma rimpiango il mio orango che era un vero signore. Poi Discussione in famiglia, in cui si rivela che una coppia di cui uno desidera un figlio e l’altro no è in realtà una coppia di omosessuali, e altre ancora. Enrico Cresci anche lui compositore di canzoni ironiche, è qui il mio accompagnatore e mio valentissimo co-chitarrista. Quanto al gruppo vocale NOJ, che è l’acronimo di Not Only Jazz, esegue i miei arrangiamenti di pezzi swing ma non solo. Tra questi il mio pezzo dedicato a mio padre, In Fondo Al Cuore Mio, uno dedicato a Chet Baker, che dà il titolo al CD fatto anni fa con Amedeo Tommasi, I Love You Chet. Poi uno mio dedicato a Massimo Urbani, uno di Gianni Ferrio. Insomma, ai grandi che purtroppo non ci sono più. Potrei parlarti a lungo dei componenti del gruppo, ma non so quanto spazio mi è concesso in questa intervista. Comunque sono persone fantastiche che amano veramente la musica. Insieme ci divertiamo sia quando ci incontriamo per montare i pezzi che sul palco.
D Ti sei proposta, negli anni, attraverso varie situazioni e con differenti collaboratori. In genere preferisci, un ricco accompagnamento orchestrale che esalti la musica tout-court o una dimensione più intima, più teatrale, quasi da story-teller, in cui le parole ed il contenuto del testo possano risultare più chiari ed efficaci?
R. Io sono più una story-teller, abituata al club in cui posso interferire col pubblico e studiare le loro reazioni mentre cerco di farli ridere e sognare, alla maniera del vecchio folkstudio di Harold Bradley e poi di Cesaroni, e amo molto anche la dimensione teatrale, ma adoro le big band ma non si può fare tutto.
D Qual è il tipo di pubblico che preferisci: quello informato, attento e competente ( e sarebbe sempre auspicabile) o quello che cerca solo l’aspetto ludico, senza coinvolgimenti particolari, soprattutto di tipo intellettuale, ma forse più disponibile all’ironia e all’happening?
R. Secondo me l’ironia è per gli intellettuali. Il pubblico migliore è quello attento, aperto, e che ha voglia di ascoltare. Non posso permettermi un pubblico che nel frattempo mangia e chiacchiera. Quello è un altro lavoro, rispettabilissimo anche quello, ma diverso.
D Come si colloca Donatella Luttazzi, tra impegno e leggerezza, in un’epoca in cui la gente appare molto distratta e va di fretta; soprattutto in un momento storico in cui il sociale e la politica, non intesa come «amichettismo», ma visone del futuro, sono sempre più distanti dal jazz e dalla musica in genere?
R. Si colloca come un pesce fuor d’acqua. Ma mi piace pensare che i musicisti che come me cercano di fare arte e non musica di consumo, (e ce ne sono) siano una boccata di aria pura in questo momento storico ottuso e disumano… e antimusicale. E nel mio piccolo lo faccio, me ne accorgo quando durante i miei laboratori vocali ci si emoziona perché lì c’è il piacere di fare arte
D Quanto è difficile oggi in Italia per una donna, oltremodo cantante, avere uno spazio nel mondo del jazz e dintorni, dove vige ancora un certo maschilismo ed una supremazia della dimensione strumentale?
R. Il jazz in particolare è difficile per chiunque. Una via d’uscita è appoggiarsi a un marito/o moglie che porta a casa uno stipendio. (Segue uno smiley che fa l’occhietto). Comunque ci sono jazziste anche in Italia di tutto rispetto che a forza di impegnarsi si sono conquistate uno spazio, sia cantanti che strumentiste. Ho risposto alla tua domanda?
D Ti piacerebbe condurre una trasmissione televisiva su una rete generalista nazionale, legata alla musica di qualità?
R Potendo anche fare la mia musica e potendo invitare solo gente brava, un po’ alla Bollani o alla Lelio Luttazzi, certo. In un’altra vita…
D Senza voler prestare il fianco alla polemica, non credi che in Italia, soprattutto in relazione ai grandi eventi, vi sia una conventio ad excludendum e che siano sempre gli stessi nomi ad esibirsi?
R È così. Immagino tu stia parlando di jazz o comunque di musica d’arte. Non c’è più voglia di rischiare proponendo autori e musicisti bravi e non ancora conosciuti. Comandano le major. Ti apprezzo perché tu nel tuo campo di critico e divulgatore dai lustro anche a nomi meno conosciuti
D In conclusione, pensi che l’attuale progetto, con Cresci e NOJ possa essere anche finalizzato alla realizzazione di un disco?
R Vedremo.. Ma a cosa serve fare un disco oggi? Comunque il 23 maggio saremo al Centro di Cultura Popolare del Tufello, un posto famoso per aver ospitato grandi cantautori. Nelle prossime edizioni del nostro spettacolo ci saranno dei pezzi inediti, delle vere sorprese. Ti aspettiamo Francesco.
